Divagazioni in libera uscita su alcuni temi della teoria economica [di Italo Ferrari]
Da qualunque lato la si voglia esaminare, non v’ha dubbio alcuno che l’ideologia scientista che pervade la teoria economica non può non avere al suo centro la definizione della “produzione”. Già nel secolo scorso, Heidegger sottolineava come fin da Aristotele i Greci fossero soliti distinguere, nel processo produttivo, quattro cause: la “causa materialis” che si concretizza nella materia di cui è composto l’oggetto; la “causa formalis” rappresentante la forma in cui l’oggetto entra; la “causa finalis”, e cioè il fine, lo scopo che determina il fatto creativo; e infine la “causa efficiens”, che si identifica con l’artefice che produce l’effetto. Ora, se poniamo mente al momento di svolta cruciale rappresentato dalla rivoluzione industriale nella storia dell’umanità, possiamo affermare che prima di allora i quattro momenti si fondevano armoniosamente l’uno nell’altro per dar luogo ad una poiesis consapevole di sé, sempre. Bene, da quel momento in poi ciò non avviene più: l’artigiano è costretto a operare al servizio di altri e, peggio, di entità impersonali, mentre la parcellizzazione delle attività gli cela il prodotto finito; la non coesistenza delle quattro attività gli limita, sino ad annullarla, la libertà; la causa finalis diventa astratta e svanisce la stessa causa formalis. Rimane solo, praticamente intatta, la sola causa materialis che anzi si estende fino a comprendere l’uomo stesso.
Si produce così la trasformazione della natura operata dalla società nella sua forma complessa. Nell’accezione dinamica, essa si può descrivere come un processo di immissione di fattori e di erogazione di prodotti. E’ noto che la teoria economica annovera il lavoro fra i fattori produttivi, e questo fa indipendentemente dalle implicazioni ideologiche connesse con una tale classificazione, non ponendosi il problema dello status servile del lavoro, associato al determinarsi del processo produttivo e dell’accumulazione del capitale. Questione già in nuce presente in Fergusson e Smith, ripercorsa da Ricardo e da Marx, e sempre più attuale oggi, nel momento in cui sembrano manifestarsi preoccupanti segnali di perdita di senso, di deficit di legittimazione, di alienazione collettiva, e di incapacità sostanziale di controllo dell’evoluzione dei sistemi ecologici complessi.
Una cosa è comunque certa: che nessuna attività può essere svolta senza l’impiego del lavoro: quale sia la quantità necessaria di esso, è però problema ancora tutto da definire. Altro elemento caratterizzante la produzione è il tempo, tanto che nessun processo di accumulazione sarebbe concepibile senza associare al tempo un valore economico. E tuttavia, la teoria trascura il tempo necessario alla stessa produzione, come se il fatto creativo possa avvenire istantaneamente. In realtà, nello stato di regime il processo è stazionario, e i flussi dei fattori introdotti e dei beni uscenti sono costanti e di uguale intensità: un osservatore esterno non apprezzerebbe perciò il ritardo associato all’immissione e all’erogazione di tali flussi. Ma, a ben vedere, è proprio il tempo necessario all’effettuazione dell’atto produttivo a determinare il processo di accumulazione del capitale e a dare origine, infine, allo stesso capitalismo. Se non esistesse infatti la necessità dell’anticipazione dei capitali da parte dell’imprenditore dovuta all’intervallo temporale intercorrente fra il momento dell’acquisto dei fattori e quello della vendita dei prodotti verrebbe a mancare la possibilità di trarre profitti e perciò stesso la ragione prima del capitalismo.
A questo punto, è importante però notare che il sistema sociale, o addirittura il singolo individuo, che costituiscono l’oggetto sostanziale dell’analisi economica, sono sicuramente “non banali”, e cioè non suscettibili di risposte predefinite a stimoli di qualsivoglia natura. Siamo dunque molto distanti dall’”homo oeconomicus”, astrazione della teoria neoclassica nel momento della sua costruzione concettuale. Ricordiamo, a questo proposito, che Walras e Pareto, quando si impegnarono a dar corpo scientifico all’analisi economica, si volsero all’impianto metodologico e formale della meccanica razionale già sistematizzata in rigorosi schemi di carattere logico deduttivo.
Se il mondo fisico poteva essere descritto facendo ricorso ai metodi propri della scienza della natura, non v’era ragione, essi pensarono, di non estendere il metodo anche allo studio dell’uomo economico e dell’uomo sociale. Pareto, anzi, intendendo esaltare la capacità interpretativa della sua teoria, dichiarava che non era possibile capire l’economia senza una previa conoscenza della meccanica; con ciò ammettendo implicitamente (ma egli non se ne rendeva conto) che l’economia matematica non è in grado di rappresentare il reale sociale: Il fisico può di dissociare gli aspetti meccanici da quelli elettrici e chimici quando isola i campi di osservazione della fenomenologia di suo interesse; ma questa operazione non può, per definizione interna, essere trasferita allo studio dell’uomo, entità globale che non ammette divisioni di sorta.
Orbene, se ci si pone nell’ottica concettuale delineata in queste righe, bisognerà almeno non identificarsi fideisticamente con quei progetti di sviluppo che derivano dall’applicazione delle regole paretiane e dei loro epigoni. Soprattutto se queste presentano il grave difetto di essere funzionali all’uso dei criteri di efficienza senza tenere in conto la distribuzione del reddito. Pare abbastanza chiaro infatti che se partissimo da una situazione qual’é quella reale e tentassimo di applicarle, giungeremmo ad una situazione che potremmo ritenere accettabile soltanto se la distribuzione finale dei redditi è conforme al giudizio etico di chi è titolato a decidere. Ma ciò potrebbe accadere soltanto per caso.
Quando si ottimizza un sistema economico in termini di piena efficienza, alcuni ne traggono vantaggi, altri ne subiscono perdite. Si può tentare di dimostrare che coloro che guadagnano possono indennizzare quelli che perdono restando ancora con qualcosa in più di quanto avevano prima. (E’ praticamente su questo principio che si fonda la moderna economia del benessere). Ma ciò non è sufficiente a farci accettare come normativo il criterio dell’efficienza, a meno che non si verifichi: a) che gli indennizzi siano effettivamente corrisposti b) che la distribuzione iniziale dei redditi sia ritenuta socialmente utile Condizioni, queste, entrambe estremamente improbabili in un sistema capitalistico. Ma una critica ancora più incisiva può essere fatta: quella cioè che è rivolta al come la teoria definisce le preferenze dei consumatori. Esse sono assunte infatti come dato del problema, come se gli uomini nascessero già adulti, in grado di formare una cultura piuttosto che riceverla. In realtà, le libertà oggettive che riusciamo a conquistare dipendono da quello che produrremo e da come lo produrremo, e viceversa questi da quelle.
Una manifestazione evidente è il processo di proletarizzazione dei tecnici: c’è un passaggio da uno stadio in cui l’uso della ragione era limitato alla ricerca di soluzioni per grandi problemi d’insieme e che pertanto consentiva un certo grado di partecipazione, ad uno stadio caratterizzato da forme di razionalità sempre più elaborata nel dettaglio ma allo stesso tempo più ristretta nella competenza e sempre più estraniante.
Come diceva Dervey, saremo liberi soltanto nella misura in cui saremo veramente consapevoli di ciò che facciamo.
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