Tunisia, il destino dei figli dei foreign fighter [di Laura Cappon]
Lettera 43 22 luglio 2017. Da Tunisi. Nelle carceri libiche sono detenuti decine di bambini. Il governo non vuole trattare per liberarli e la popolazione protesta contro il ritorno dei genitori. Così crescono gli estremisti del futuro. Il nonno di Tamim Jendoubi vive a Tadamon, uno dei sobborghi più poveri di Tunisi. Nel salotto di casa, spoglio e bersagliato dall’afa, custodisce alcune foto del nipotino. In quegli scatti è appena un neonato, ma oggi Tamim ha già tre anni e quello che ormai è il suo parente più prossimo teme di non riconoscerlo più. Tamim è lontano, solo e prigioniero, orfano di entrambi i genitori da quando ne ha uno e mezzo. È nato ad Antalya, nel Sud della Turchia, mentre suo padre, tunisino di origine, combatteva in Siria sotto le insegne dello Stato Islamico. Quando questo soldato del Califfato si è spostato in Libia, madre e figlio lo hanno seguito per un breve periodo prima di rientrare a casa. ORFANO E DETENUTO. Ed è lì che hanno scoperto che per loro tirava una brutta aria: la polizia tunisina, infatti, perquisiva quasi quotidianamente e in maniera brutale la loro abitazione, costringendoli alla fine a riparare di nuovo al di là del confine libico. Dove nel febbraio 2016 Tamim Jendoubi ha visto mamma e papà cadere sotto le bombe di un attacco americano al campo di addestramento dell’Isis di Sabrata. Da allora, se possibile, la sua situazione è anche peggiorata: da più di un anno Tamim si trova nel carcere di Mitiga, a poca distanza dall’aeroporto di Tripoli, e suo nonno ha passato la frontiera con la Libia due volte per provare a riportarlo a casa. Senza successo. A raccontarmi la storia di Tamim, e dei molti altri bimbi che si trovano nella stessa situazione, è Mohammed Iqbal: 40 anni, dipendente di una compagnia telefonica locale, dal 2013 lotta per riportare a casa i figli dei foreign fighter tunisini rinchiusi nelle carceri libiche. La sua è stata una vita ordinaria sino a quando, quattro anni fa, la sua esistenza venne stravolta dalla partenza di suo fratello per la Siria. Per reagire Mohammed ha fondato la Rescue Association for Tunisian Trapped Abroad, diventando l’interlocutore tra le famiglie dei foreign fighter e il governo del suo Paese. Un problema su cui nessuno vigila e che nessuno pare intenzionato a risolvere, ma capace di mettere in mostra numeri impressionanti. ALMENO 40 BIMBI RECLUSI. La Tunisia, infatti, è lo Stato che ha fornito in assoluto più combattenti ai jihadisti in Libia, Siria e Iraq: secondo il governo sarebbero 2.926 ma per le Nazioni Unite potrebbero essere almeno il doppio. E i figli di jihadisti reclusi nelle carceri libiche, quasi sempre in compagnia delle madri – quello di Tamim, orfano di entrambi i genitori, è un caso limite – sono moltissimi. «Negli ultimi nove mesi sono arrivate decine di nuove segnalazioni», mi racconta Iqbal in un caldo e lento pomeriggio di Ramadan sull’Avenue Bourguiba di Tunisi, il viale della rivoluzione che nel 2011 destituì il presidente Ben Ali dopo 24 anni di dittatura. «Nel carcere di Mitiga ora si contano 22 minori mentre 17 sono reclusi a Misurata». Secondo quanto riportato lo scorso aprile da Ibtissem Jebabli, parlamentare del partito Nidaa Tounes, nella terza città libica, i minorenni reclusi hanno un’età compresa tra i 13 e i 15 anni mentre altri sette, dei quali non si conosce l’età, si trovano fuori dalla struttura penitenziaria sotto la protezione della Mezzaluna Rossa. LO SPARTIACQUE DI SIRTE. Le loro storie sono diventate note dopo la liberazione di Sirte, quando il ritiro delle milizie dello Stato Islamico ha lasciato sul terreno diverse donne e bambini stremati e in cerca di aiuto. Tra di loro c’è Baraa Zayani: ha 4 anni e suo padre era un venditore ambulante nel Kef, regione occidentale al confine con l’Algeria. Nel 2014 l’uomo ha deciso di andare a combattere in Libia e ha portato con sé mogli e figli. «Abbiamo saputo che Baraa e la madre erano rimasti feriti e che entrambi hanno ricevuto delle cure», spiega Iqbal. «Ora sta meglio ma la sua famiglia sta facendo di tutto per farli tornare a casa». A Mitiga con Baraa, Tamim e gli altri ci sono anche quattro fratelli tunisini, l’ultimo di loro è nato in Libia. Sono originari di Médenine, governatorato nel Sud delle Tunisia. Insieme a loro c’è anche la madre. «Abbiamo pochi dettagli su di loro», continua Iqbal. «La famiglia ci ha contattato ma è restia a darci le generalità complete perché ha paura». L’atteggiamento repressivo e securitario delle autorità tunisine, mostrato anche nella vicenda di Tamim, è il motivo principale per cui le famiglie dei foreign fighter non si espongono ai media e hanno lasciato a Iqbal il ruolo di portavoce con la stampa e il governo. Come raccontato dalla stampa locale, una delegazione tunisina è arrivata a Tripoli lo scorso aprile ma la visita al carcere di Mitiga è stata cancellata all’ultimo momento. L’opinione di Iqbal è che il governo tunisino non voglia trattare con le milizie che controllano il carcere nonostante la loro disponibilità a far tornare i minori in patria. POLITICA ESTERA PASSIVA. Il ministero degli Esteri non ha voluto rilasciare dichiarazioni sul caso ma Chafik Haji, diplomatico tunisino che si sta occupando della vicenda, ha dichiarato all’Associated Press che le autorità tunisine stanno cercando di riportare a casa i bambini. «La nostra politica estera è caratterizzata da un’estrema passività e in generale da una burocrazia complessa», ci spiega Mohammed Alahmadi, giornalista indipendente tunisino. «Su questo dossier, il governo ha scelto, ancora una volta, la strategia della fuga in avanti: ha rilasciato diverse dichiarazioni senza fare nessuna azione concreta per risolvere la situazione». Al momento, nessun minore è tornato e la questione si interseca con il più ampio dibattito sul ritorno in patria dei foreign fighter, che ha infiammato l’opinione pubblica tunisina all’inizio di quest’anno. LA POLEMICA SUL RIENTRO DEI FOREIGN FIGHTER. I primi mesi del 2017 sono stati da numerose manifestazioni di piazza contro l’ipotesi del ritorno, con l’ala liberale e alcuni partiti di sinistra che si sono opposti fermamente al rientro, chiedendo addirittura che gli ex combattenti vengano privati della cittadinanza (misura che viola la costituzione approvata nel 2014). Il presidente Essebsi aveva dichiarato lo scorso anno che tutti i tunisini hanno il diritto di tornare in patria. Ma la reazione popolare ha spaventato le autorità tunisine che al momento mantengono una posizione cauta in un contesto sociale dove i passi in avanti verso la democrazia sono rallentati non solo dallo stato di emergenza – in vigore da quasi due anni dopo gli attacchi nella capitale a a Sousse – ma anche dalla crisi economica che ha provocato diverse proteste nelle aree più povere del Paese. DUBBI SUI PIANI DI ANTI-RADICALIZZAZIONE. «Le uniche misure prese per i combattenti di ritorno sono solo azioni di controllo», continua Alahmadi. «Questo fa sorgere diversi dubbi sull’intenzione di pianificare in futuro dei programmi di anti-radicalizzazione». I dati resi pubblici dal ministero degli Interni a inizio del 2016 parlavano di 600 combattenti rientrati a casa: di questi 92 si troverebbero agli arresti domiciliari. Lo scorso gennaio il ministro delle Giustizia, Ghazi Jribi, ha rivelato durante una sessione parlamentare che ci sarebbero altri 160 tunisini che stanno tornando dalle aree di conflitto, e con la ritirata dello Stato Islamico in Iraq e Siria la situazione minaccia di peggiorare ulteriormente. Al totale vanno poi aggiunte le persone già in carcere per accuse di terrorismo, 1.648 secondo l’ultima rilevazione. Nel 2016 sono rientrati in Tunisia 600 combattenti. Altri 160 stanno tornando dalle aree di conflitto mentre 1.648 persone si trovano in carcere con l’accusa di terrorismo. Tra di loro c’è Nasreddin Bin Dhiab, espulso dall’Italia e accusato di far parte di una cellula, attiva in Lombardia, che pianificava attacchi in Tunisia e all’estero. È in carcere in attesa di processo anche Moaz al-Fazani, consegnato dalle autorità sudanesi alla giustizia tunisina lo scorso dicembre. Fazani è accusato di aver pianificato l’attacco contro il Museo Nazionale del Bardo nel marzo del 2015. Inoltre, la grave crisi economica rende difficoltosi i reinserimenti e, al contrario, continua a creare terreno fertile per la radicalizzazione. «La gente in Tunisia continuerà ad arruolarsi con i network jihadisti se il governo non troverà una soluzione politica e sociale», spiega Fabio Merone, ricercatore dell’Università di Ghent ed esperto di Islam radicale. «Il ritorno dei combattenti non fa altro che aggravare un contesto in cui le istituzioni sembrano non volersi sforzare ad andare oltre lo stato di emergenza e le strette misure di sicurezza. Il governo, inoltre, non ha mai aperto un dialogo politico con i movimenti salafiti per poter contrastare chi decide di sposare la lotta armata». UNA POLVERIERA PRONTA A ESPLODERE. Un altro fattore di rischio per la radicalizzazione è il sovraffollamento delle carceri. Lo ha denunciato in una commissione parlamentare anche il ministro della Giustizia. Le strutture carcerarie tunisine sono al 217% della loro capacità. «Questo significa che i 1.648 detenuti per terrorismo entrano in contatto con altre persone che sono dentro per crimini non violenti», spiega un operatore umanitario che preferisce restare anonimo. «Bisogna costituire un sistema tale per cui le persone che tornano vengano classificate per il loro livello di pericolosità», conclude Iqbal. «Se niente verrà fatto, significa che saremo complici della creazione dei jihadisti del futuro». |