La psicoanalisi piegata al Renzismo. Una replica a Recalcati [di Maurizio Montanari]
MicroMega 22 luglio 2017. “Loro, là fuori, lo odiano”. Ecco il sunto dell’articolo di Massimo Recalcati su Repubblica, il quale, ancora una volta, cerca appassionatamente di spiegarci come esista un cupo mondo popolato da individui colmi di odio che, affetto da turbe addirittura paranoiche, ce l’avrebbe irragionevolmente a morte con l’ex premier. Già il suddetto si era pronunciato con epiteti clinicamente orientati alla Leopolda, laddove i contrari al valoroso Telemaco erano additati come “mummie intrise di godimento masochista”, o appartenenti a fazioni politiche strutturate su natura incestuosa. Non è bastata la legnata della notte del 4 dicembre, nemmeno gli ultimi tonfi amministrativi nei quali il Pd a trazione renziana ha perso città, voti e iscritti a instillare il dubbio che il romanzo epico del rottamatore solo e accerchiato fosse una narrazione giunta al termine. No: ci risiamo. La storiella dei malevoli che premono alla porta degli eletti virtuosi intenti a prodigarsi per il bene di una comunità di irriconoscenti è a ben vedere uno degli elementi portanti dello storytelling renzista: “Là fuori c’è solo l’odio” è infatti il mantra ricorrente che ha fatto da sottotitolo alle due convention renziane, la Leopolda e il Lingotto. “Loro ci odiano, noi siamo l’amore“. “Noi siamo il bene e loro il male“. Echi di berlusconiana memoria, frutto di una clinica artatamente utilizzata all’uso del principe, proiezione sull’altro dell’incapacità di risolvere le proprie magagne e i propri fallimenti che anche un neolaureato può scorgere avendo dato una breve scorsa a qualsiasi trattato di psicopatologia tascabile. Ammantarsi dell’abito del portatore di luce candido e colmo di amore, intento a condurre la solitaria battaglia contro le forze del male, è storia tipica dei concentrati di potere che fanno a meno del contraddittorio. Il renzismo incarna un piccolo mondo ben protetto, costruito sulla personalità del leader: nessuna voce dissenziente, nessuna parola contraria. Applausi da plebiscito, ovazioni. “Forza, bellezza, mamma e futuro” le vuote parole d’ordine prive di qualsiasi contenuto politico. Un universo narcisistico elevato a sistema, spacciato per assemblea dibattimentale. I “nemici” della voce unica sono stati epurati, banditi, messi alla porta con le accuse proiettive di essere portatori di odio, untori del malanimo. “Scissionisti”, come ho avuto modo di scrivere in questo sito. Già, ma quelli fuori? L’Italia non si esaurisce in quel milione di elettori che hanno rimesso Reanzi alla guida del Pd. C’è altro. C’è un mondo che parla un altro linguaggio. E in altro modo utilizza termini quali psicoanalisi, sinistra, Pasolini. Termini che poco c’entrano col renzismo. Partiamo dal primo. L’accusa mossa da più parti a Recalcati non è di aver preso parte alle assise del Pd in quanto partito politico, quanto l’avere offerto e piegato il linguaggio analitico alla causa del renzismo. E’ quella di aver corroborato con termini indebitamente attinti dal linguaggio analitico la modalità censoria e discriminate che il renzismo è uso operare nei confronti di qualsiasi cosa possa portare dissenso. Come uomini possiamo andare ovunque. Entrare in qualsiasi consesso liberamente. Come analisti sappiamo tuttavia che esistono stanze che ci impongo di lasciare il soprabito fuori dalla porta. La questione dell’opacità dell’analista, vale a dire la capacità di non lasciare trasparire che poco o nulla dei propri vissuti interiori, è un articolo cardine della costituzione analitica. L’analista, affinché il dispositivo funzioni e non si tramuti in qualcosa d’altro, deve saper mantenere questa posizione il più possibile decolorata, quel posto che Lacan definisce dello “scarto“. In seduta, certo. Ma non solo. Viceversa, il mostrare pubblicamente le proprie pulsioni, passioni, idee, vestendole del lessico clinico, può sfociare in qualcosa che assomiglia a un “giudizio diagnostico” extra moenia. Patologizzare il dissenso, rivolgendosi così a chi avversa Renzi (la maggioranza degli italiani) è qualcosa che può turbare, scuotere, colpire, pasticciare il lavoro in corso di tanti che si sono sentiti chiamati in causa, trovandosi al contempo sul lettino come pazienti avversi all’ex premier e davanti alla televisione mentre la Leopolda andava in scena. Grave sarebbe la reazione dei miei pazienti, del Pd, di sinistra, o di destra, se mi vedessero non già schierato, quanto “arruolato” imbracciando la doppietta del dsm in uno dei palchi politici ai quali ho partecipato, apostrofando parte di loro come un ‘corpo unico’ posseduto da intenti “incestuosi“, definendoli in base a questa o quella affezione dalla quale sarebbero interessati. Con questa micidiale prospettiva renzo-analitica, il dissenso diventa ipso facto paranoico perché attenta alla verità del capo. Leggendo l’ultimo libro di Renzi ci si immerge infatti in un mondo popolato da contrari rematori, nemici insidiosi che ne avrebbero impedito il cammino di indomito innovatore. L’Europa, Gianni Letta, D’Alema, la comunicazione, Berlusconi, il Gundam. Queste le cause esterne di un percorso politico che, in realtà, non ha mai trovato sufficiente forza elettorale sulle proprie gambe per reggersi in piedi. Nemici alle porte verso i quali sovente viene agitata l’arma legale, organo aggiuntivo necessario per irretire tanti di quelli che portano critiche dal mondo là fuori agli insonorizzati salotti della Leopolda. La Boschi minaccia querele, Farinetti minaccia querele. Perché? Perché il potere, e Pasolini lo sapeva bene, alla fine, è sempre uguale a sé stesso, per sua stessa natura, è paranoico, e non tollera le voci dissenzienti. La sua fragilità programmatica è direttamente proporzionale alla forza muscolare che mette in campo per zittire le voci dissonanti. Libero di fare quel che vuole dentro a regole rigide impartite agli altri. Già, Pasolini. Recalcati ha inaugurato la scuola politica del Pd titolata a Pier Paolo Pasolini. Le ovvie critiche a questa operazione a dir poco spericolata, sono state avversate in rete dai fan più accalorati additando i critici dell’operazione “Scuola Politica PPP” come animati da un prosaico invidioso livore in quanto incapaci di perdonare ‘il successo’ del suddetto analista. Insomma, anche in quel caso, si tratterebbe solo di odio che cola. Divisioni nette, facili, ben spendibili, che volutamente scelgono di non tenere in conto il libero pensiero critico di tanti che, intuendo il tentativo di stravolgimento operato sulle idee del poeta e subodorandone un inquadramento forzato a un progetto politico ritenuto abissalmente lontano dal sentire dell’autore degli Scritti Corsari, hanno scelto di esprimersi in maniera contraria. “Il fine del potere, è il potere”, è forse questo l’adagio orwelliano che più di Pasolini dà la cifra del renzismo, come dimostra l’ossessiva ed estenuante ricerca di trovare un varco legislativo o temporale nel quale incunearsi per fare cadere, come lo scorpione di Esopo, l’ennesimo governo, pur di riprendersi lo scranno del quale si è sentito orbato ingiustamente, quando, la notte del 4 dicembre, il popolo si è precipitato in massa a inoculare nelle fessure delle mura fiorentine un assaggio di principio di realtà. Il renzismo dunque crea, delimita e blinda un campo a-dialettico nel quale non solo la psicoanalisi può sentirsi davvero a casa, ma anche PPP appare come un corpo estraneo. Come integrarli in un mondo nel quale il dissenso è ignorato, isolato ed espulso? Impossibile. La psicoanalisi deve avversare il potere, non lisciarlo. Può essa essere messa al servizio di un potere che si blinda, che cambia i direttori dei telegiornali in corso d’opera per garantirsi una miglior audience? Che manganella i dissenzienti fuori le mura come accaduto nei giorni della Leopolda? No, non può. Come non può prestarsi a un uso di diagnosi massificata di “odio” verso l’ex premier, stratagemma che serve a proteggere gli eletti dall’avanzare scomposto del nemico, che avrà le sembianze vieppiù del persecutore, del perturbante, della mummia, del cattivo partigiano, passerella linguistica degli orrori a significare che nell’altro qualcosa non funziona, mentre dentro alla piramide c’è la salute e la tranquillità. In ultimo, Renzi avrebbe messo “la sinistra” di fronte all’evidenza del proprio cadavere. Ma di quale sinistra parliamo, quando parliamo del renzismo? Nel vocabolario di questo partito manca l’idea di sinistra. Un termine abusato da qualsiasi oratore leopoldino che abbia avuto i suoi cinque minuti di palcoscenico, ma che nelle loro bocche non significa nulla. Parola ripetuta ossessivamente, perché la litania ossessiva serve proprio a colmare il buco. In questo Pd, la sinistra non c’è. Il renzismo è senza sinistra. Perché ripropone un idea di Stato privo della prospettiva centrata sull’altro da lui, ma sul simile. E’ in realtà una destra, vecchia, perché alla meritocrazia preferisce il familismo. Perché sta sempre e comunque con chi produce il vapore, non a caso Renzi si è fatto forte del mantra “Io sto con Marchionne”. Il renzismo non rappresenta e non vuole rappresentare il mondo del lavoro. Là dentro non c’è traccia dei giovani umiliati dal jobs act, degli insegnanti massacrati dalla “buona scuola“. Dei giovani italiani gabbati in attesa dello ius soli. Nulla di tutto questo. Ci sono sempre e solo loro, coloro i quali tempo fa si autoinvestirono della missione di ‘rinnovare l’Italia’ secondo le loro prospettive, che mai hanno tenuto in conto la voce del popolo. Lavoro, disoccupazione, marginalità, delocalizzazione sono concetti e realtà che nessuno di costoro ha mai conosciuto direttamente, ma sanno che per recuperare consenso necessitano di imparare in fretta e furia un vocabolario “terreno” che li spacci, per il solo tempo che intercorre da qua alle elezioni, come gente ‘eletta’ dal popolo. In realtà gli esponenti del renzismo sono di destra, senza esserne consapevoli. Escono da quella generazione che credeva di fare il bene del mondo appendendo in camera i poster delle banane equo solidali. Hanno sempre scambiato la realtà per un tweet, la disoccupazione come un intoppo accettabile del capitalismo al quale essi sono proni. I diritti sindacali non sono da costoro mai stati presi in considerazione, perché appartengono a quella parte di mondo che vede la sindacalizzazione come un intralcio, un un rumoroso chiacchericcio nel giardino. Essi non hanno “dimenticato” i giovani, perché a costoro dei giovani non importa nulla. Il futuro del quale parlano è il loro futuro. L’eredità della quale discutono è quella alla quale essi aspirano, con le loro liste bloccate e la loro sete di potere senza fatica. Nel progetto di Telemaco, il futuro è una prerogativa per eletti. Un gruppo che sta insieme, e in maniera autoreferente vuole a tutti i costi preservare e continuare sé stessa. Una sorta di investitura che verrà dal capo, preservando propri adepti dal duro confronto con la quotidianità. Cosa sono mai, in un’Europa di partecipazione, le liste bloccate? Cosa altro se non un’arcaica modalità di blindare i propri adepti dalle prove elementari delle democrazia? Come è possibile, oggi, in tempo di casta giustamente additata di riprodurre sé stessa come una casata reale, pensare ancora a candidati imposti dall’alto, sganciati da un reale confronto col territorio? Dunque, nessun cadavere. Nessun afflato di sinistra ha mai minimamente attraversato il renzismo. La verità è che costoro, in jeans e trolley, sono stati i protagonisti del declino del paese. Economico e dialettico. A Renzi e al renzismo sono da ascrivere i peggioramenti in economia, il fallimento delle politiche del lavoro. La loro anima era, e resta, iperliberista. Essi non parlano le parole sacre della sinistra storica: diritti, eguaglianza, pluralità. Non le conoscono. Il solo cadavere incontrato è stato quello del renzismo, pubblicamente esposto la notte del 4 dicembre. Alla fine, è forse bene non dare fiato al triste quesito: “Chi ama Renzi, chi lo odia”, lanciato sul quotidiano sul quale, anni luce fa, scriveva Miriam Mafai. La questione non è analitica. Nemmeno politica, mancando il renzismo di argomentazioni e spunti degni di tal nome. E manco riguarda la sinistra, che là dentro non esiste. Si tratta semplicemente di un no, gridato da più parti dello stivale, a una compagine che continua a fingere di non vedere che là fuori, per loro, piove. Noi non odiamo Renzi. Non lo vogliamo più al governo. *Psicoanalista, Centro di Psicoanalisi liberaparola.eu |
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