Per combattere gli incendi è tempo di Prevenzione Civile anziché invocare la Protezione dei Canadair [di Giuseppe Mariano Delogu]
Viviamo nell’era dei “megaincendi” che non sono solo “mega” per le dimensioni, ma per le caratteristiche brutali della combustione, che li collocano immediatamente nel contesto “fuori controllo” cioè nella impossibilità anche per le migliori organizzazioni di lotta, ipertecnologiche, strutturate, formate, militarizzate, di estinguerli con efficacia. Sono il risultato del modo in cui abbiamo gestito il territorio per decine di anni. Abbiamo assistito (secondo i dati statistici dell’Inventario Forestale Nazionale) ad un aumento dal 1985 al 2015 da 850.000 ettari a 1.250.000 ettari di terreno occupato da “foreste” in Sardegna. Può questo essere considerato un successo delle politiche ambientali? No, è il risultato di un profondo cambio culturale in negativo, che vede terreni, un tempo agricoli e pastorali, oggi invasi dalla macchia mediterranea in vari stadi di sviluppo. Quella macchia che per millenni era periodicamente pascolata dalle capre e – con cicli che definivano un tipico e storico regime di fuoco – veniva periodicamente bruciata a lembi per rinnovare la capacità nutritiva dei giovani germogli a favore delle capre. Oggi la macchia mediterranea è “un bene paesistico“, intoccabile, curioso ornamento architettonico per le nuove case turistiche e tabù intoccabile per chi vuole rimettere a coltura i suoli dei propri avi. La definizione di “bosco” contenuta nella legge forestale sarda (L.R. n° 8/2016, art. 4 comma 5 lett. c)) non lascia dubbi: “Sono assimilabili a bosco”…..”c) le colonizzazioni spontanee di specie arboree o arbustive su terreni precedentemente non boscati, quando il processo in atto ha determinato l’insediamento di un soprassuolo arboreo o arbustivo, la cui copertura, intesa come proiezione al suolo delle chiome, superi il 20 per cento dell’area o, nel caso di terreni sottoposti a vincolo idrogeologico, quando siano trascorsi almeno dieci anni dall’ultima lavorazione documentata“. Dunque rinnovare la coltura tradizionale su suoli abbandonati per qualche anno richiederebbe l’autorizzazione paesistica e una pletora di documenti progettuali per dimostrare la non compromissione paesaggistica per la nuova attività. E quanti terreni in queste condizioni in giro per la Sardegna? Il Consiglio regionale, con questa definizione, è stato più autolesionista di quanto – fortunatamente – un recente D.P.R. ha inteso attenuare (indicando ai soprintendenti la non necessità per gli ex- coltivi di richieder l’autorizzazione paesistica). Ci facciamo male da soli! E che dire dei veri boschi? Selvicoltura conservativa, naturalistica, biodiversa,…. Tutto quello che sarebbe necessario non è contenuto nel P.F.A.R. (Piano Forestale Ambientale Regionale), quello che per fare le cose prevede che si facciano altri piani, sempre più di dettaglio. sempre più in fine. Talmente “in fine “che la loro attuazione traguarda l’infinito! E che cosa è necessario, per dei boschi inseriti in un contesto di cambio climatico, dove ogni anno che passa si accumulano i combustibili insieme alle onde di calore, la siccità, le energie violente del vento prima delle grandi alluvioni d’autunno? Selvicoltura preventiva, quella che riduce i combustibili, crea un bosco aperto pascolabile, un bosco in cui la distanza tra gli alberi non permette la propagazione del fuoco di chioma, e periodicamente viene pascolato salvo nei momenti (una volta ogni 100 anni) in cui è necessario rinnovarli. Basta conoscere un poco di storia forestale della Sardegna per richiamare alla mente che i boschi naturali di querce erano definiti “ghiandiferi”, cioè boschi aperti per alimentare il pascolo suino. Oggi le cose sono indubbiamente cambiate, non ultimo il problema dei divieti legati alla peste suina. Ma non abbiamo da inventare chissà quali modelli selvicolturali per la nostra terra, dobbiamo solo recuperare quelli antichi e più resilienti. Ma oggi impressiona in particolare la totale assenza nel dibattito sulla prossima legge urbanistica dal concetto di “rischio incendio“. Il testo unico sul “governo del territorio” , universalmente oggi sottoposto a critica, non conosce l’incendio come rischio concreto della nostra terra, anche se più di una volta cita quello “idrogeologico” ma senza fornire alcuno strumento pratico della sua riduzione. Sembra che la Sardegna sia una regione della Scandinavia e non del Mediterraneo. Ma allora tutte le aziende, le case, i villaggi ogni estate minacciati dalle fiamme sono solo un problema di chi non le spegne? O non dovremmo invece pensare a comunità insediative (villaggi, borghi, paesi, città) in cui la vita al confine con il bosco o con i pascoli dia una sensazione di sicurezza piena e non l’ansia della morte? Comunità che si sentano autoprotette da un modello insediativo (vecchio e nuovo che sia, non importa) in cui la gestione del verde diventi non una vicenda ornamentale e ipocrita per nascondere il cemento ma un ambito di gestione metodologica per impedire l’avvicinamento delle fiamme alle case. L’idea perversa di autorizzare “paesisticamente” le costruzioni “immerse nel verde della macchia mediterranea” per abbattere l’impatto (visivo) aumenta invece l’impatto (reale e non estetico) di chi va ad abitare dentro la benzina che circonda le case. E che dire della assenza dell’obbligo di viabilità di sicurezza, della individuazione di zone sicure di incontro in caso di emergenza? Crediamo davvero che i cosiddetti Decreti Bertolaso del 2007 possano per sè stessi mettere in sicurezza i villaggi turistici che vengono sistematicamente “evacuati” ad ogni pericolo (vedere la foto dall’elicottero di Ludduì durante il recente incendio di Budoni)? E pensiamo forse che la mera applicazione delle prescrizioni regionali antincendio ci possano rendere sicuri? E’ bene applicarle certamente, ma forse debbono essere profondamente riviste per la natura degli incendi di nuova generazione che si propagano non per contatto (radiazione) ma per salti (movimenti convettivi) e dunque la mera previsione di una fascia di 5 metri intorno alle case non può essere sufficiente. Se il Consiglio regionale, nell’attuale dibattito sull’urbanistica si occupasse un poco di più della concreta sicurezza dei suoi cittadini anziché aprire varchi al cemento farebbe una cosa utile e gradita. E davvero si comincerebbe a parlare di Prevenzione Civile anziché invocare la Protezione dei Canadair. Ma non sembra essere preoccupazione della giunta Pigliaru e dell’attuale Consiglio regionale della Sardegna. *Professionista forestale
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Condivido l’analisi puntuale del Dott. Delogu.
Da addetti ai lavori suggeriamo da almeno 20 anni la necessità, per la nostra isola, di politiche agricole, forestali e urbanistiche integrate tra loro e finalizzate a rendere le nostre campagne intrinsecamente meno vulnerabili e quindi più sicure .
Giorgio Onorato Cicalò
vedi anche :
http://www.labarbagia.net/rubriche/rassegna-stampa-di-michele-arbau/5001/lunione-sarda-ecco-perche-la-sardegna-brucia
Concordo pienamente, la prevenzione, in tutti i modi in cui può essere esercitata, è la più efficace arma di contrasto a questa terribile piaga.
Che mirabile articolo, conclusione compresa! Renderei obbligatoria (leninisticamente…) la lettura alla ripresa nel primo giorno di scuola, affiggerlo nei luoghi pubblici, farne un librettino (rosso?) per i consiglieri regionali e gli aspiranti a tanto, farlo imparare a memoria ai giornalisti sardi, e a quel giornalismo ancora peggiore che siamo noi su facebook.
La prevenzione richiede lungimiranza- nessun politico ormai ragiona in tale senso. Ne rimangono pochi e quei pochi purtroppo non hanno potere decisionale.
Pur non contestando ciò che dice il dottor Delogu, ritengo che la prevenzione più potente sia l’educazione ambientale nelle scuole. Devono essere instillati nei giovani sardi il rispetto della natura, la consapevolezza della sua importanza, la conoscenza degli ecosistemi; deve essere eradicata la cultura del fuoco quale pratica agraria/selvicolturale
Finalmente un’analisi seria e competente sull’argomento, analisi che non lascia dubbi sulla inefficacia delle norme che oggi regolano l’utilizzo del territorio, regole che troppo spesso lasciano spazio all’interpretazione soggettiva del funzionario dell’Ufficio Tutela del Paesaggio , del soprintendente o dello stesso Corpo Forestale, che le applica spesso perdendo di vista quello che è l’obiettivo finale, la gestione armonica del territorio che contempla tutte le attività dell’uomo che su di esso si svolgono.
Non c’è dubbio che una delle cause, secondo me la principale, sia l’abbandono del territorio delle aree marginali ma soprattutto del bosco che, come viene riportato nell’articolo aumenta progressivamente la sua presenza, il bosco che come ha detto bene Delogu, veniva pascolato e quindi in un certo modo tenuto sotto controllo, perché era esso stesso la risorsa alimentare principale per il bestiame.
A questo proposito voglio riportare la testimonianza di un allevatore di Gonnosfanadiga: “Negli anni sessanta, Gonnosfanadiga aveva un patrimonio stimato in 18.000 capre, 2.000 pecore e circa 4.000 bovini; il monte di Gonnosfanadiga si poteva percorrere tutto senza problemi, adesso a Gonnosfanadiga ci sono 2.000 capre, 6.000 bovini e 8.000 pecore, il bosco è totalmente abbandonato, è talmente invaso dalla vegetazione che è diventato inaccessibile, nessuno fa più la pulizia che facevano le capre, prima o poi ci penserà il fuoco a fare quella pulizia”. Era aprile del 2012, qualche anno dopo un incendio aveva devastato oltre 1.200 ettari di bosco, macchia mediterranea e sterpaglie, quest’anno il danno è stato ancora più grave.
L’intervento del dott., “professionista forestale”, su “Sardegnasoprattutto” del 2 agosto 2017, consente alcune considerazioni e risposte che proprio sul disboscamento della Sardegna e sulla lotta agli incendi, se vogliamo, già si trovavano mirabilmente contenute nella Lettera aperta che nel 1909 il Prof. Domenico Lovisato, indirizzò a S. E. il Comm. Avv. Francesco Cocco-Ortu, Ministro dell’Agricoltura (Estratto dal ” Corriere dell’Isola ” – anno 1 9 0 9 , n. 201 e segg.). Ciò a conferma innanzitutto e chiaramente che il problema, drammatico, è irrisolto da anni anche quando la vegetazione, come afferma il dott. Delogu era meno invadente….
Riflettere sul ruolo della vegetazione….., Selvicoltura preventiva, quella che riduce i combustibili, crea un bosco aperto pascolabile, un bosco in cui la distanza tra gli alberi non permette la propagazione del fuoco di chioma….?
Perché no, e’ giusto, ci mancherebbe, ed in parte ovvio anche perché, come insegna l’ultimo recente grande incendio di una delle torri di Londra, il fuoco brucia anche il cemento….
Ma caro dott. Delogu, cerchiamo di non essere ridicoli, lei sa che in un oliveto industriale di vecchia concezione le piante stanno disposte in un sesto di 10×10, cioè 100 piante per ettaro…… lei sa benissimo che anche in queste condizioni il fuoco si propaga di chioma in chioma. Allora lei vorrebbe proporre il concetto di formazioni forestali o meglio boschi con le piante di sughera o leccio poste a una distanza superiore ai 10×10 metri????
Mi pare una cosa molto assurda, forse contrastante con moltissimi aspetti afferenti alla semplice ecologia, ma si potrebbero citare anche ben altre discipline di base di cui lei dovrebbe essere padrone, mi sa che forse bisognerebbe ripassare qualche nozione elementare, che dice?????
Ma non sarebbe forse necessaria una vera rivoluzione culturale e sociale per insegnare senza “se” e senza “ma” a difendere e conservare il verde, a considerare primaria la necessità di ridurre l’innesco degli eventi di combustione, e combattere in sostanza i comportamenti dolosi e colposi dei singoli, o forse no?
Ma è proprio contro questi comportamenti che dovremmo rivolgerci se volessimo concretamente combattere gli incendi e non spostare il problema sull’esistenza o meno della vegetazione che ovviamente in estate se incendiata brucia …!
Conseguentemente la colpa oltre che della vegetazione sarebbe di madre terra, che se non avesse alimentato i semi caduti nel suo grembo non avrebbe dato luogo ad incendi……. Evviva la sterilità, la desertificazione madre incontrastata di tutti gli incrementi demografici!!!!!!!
E così infatti, già ai primi del secolo scorso, proprio Lovisato, su e giù per la Trexenta, il Sarcidano, la Barbagia di Seulo, l’Ogliastra ed il Sarrabus, ritornando in quei luoghi dopo alcuni anni, con animo addolorato rilevava le impronte lasciate dalla devastazione, dei tagli di ceduazione e degli incendi (della macchia che, … veniva periodicamente bruciata a lembi per rinnovare la capacità nutritiva dei giovani germogli a favore delle capre.) Ma per le capre di chi??? Mi sembrano concetti un poco arcaici un poco troppo bucolici, Vigilio divulgò quest’opera intorno al 38 a.C., Egr. “professionista forestale”; Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi – siluestrem tenui musam meditaris auena: nos patriae finis et dulcia linquimus arua – nos patriam fugimus: tu, Tityre, lentus in umbra formosam resonare doces Amaryllida siluas… sono concetti oramai superati, oserei dire arcaici, oggi esiste per fortuna dell’allevatore un altro tipo di allevamento, o lei vorrebbe tornare ai tempi di Virgilio????? Condannare il capraro (preferisco il termine moderno di allevatore) alle pene dei tempi che furono per il suo concetto bucolico distorto????
Lei forse vorrebbe ancora come afferma il Lovisato:
“Roccie nude, nudi i dossi schistosi, nude le aguglie frastagliate dalle granuliti, nudi i calcari, le correnti asciutte, molte sorgenti inaridite, scomparse, la bussola perduta !”
Della superba foresta di Taquisara, la sola memoria! Ad essa sono sostituiti castelli dirupati di roccie calcari, che minacciano rovina ad ogni istante, minando e via ferrata e strade nazionali, provinciali e comunali!
Tutte foreste scomparse quelle di Taquisara, di Meana, del Sarcidano “oggi…un camposanto con qualche oasi, come al bagno penale d’Isili, a Corongia…., con dei cadaveri, grossi tronchi, elevantisi di poco sopra terra, che attestano della remota presenza di piante gigantesche che furono barbaramente tagliate”), di Fonni…,tutto questo, e non soltanto, aveva visto Lovisato a distanza solo di pochi anni. Continua il Lovisato: “Eccellenza, tutta la vallata da Tertenia a Muravera ed anche giù verso S. Priamo, dove s’incontra la strada, che conduce alla Colonia penale di Castiadas. Era così bella una volta quella vallata, ora sì squallida!”….
“Neil’ottobre passato volli salutare, per l’ultima volta la foresta di Meana Sardo, che la barbara scure del legnaiuolo avea già cominciato a distruggere, e che oggi forse non esiste più !”
Ma questo cosa significa realmente? Che “l’inconsapevole bestia umana per ingordigia di denaro ha mutato un paradiso in squallido deserto! E…in tutta l’isola bella, una volta coperta da fittissimo tappeto verde”. Forse occorrerebbe ricordarsi che le acque, se non più trattenute “dalle annose quercie”, che evidentemente non erano in grado di ricrescere allora, figuriamoci ora (vista la riduzione di capacità pollonifera legata alla vetustà e altri fattori sia climatici che fitipatologici), portano giù rapidamente ingenti quantità di terra e suolo, denudando le roccie e, nel trascinare tutto ciò che incontrano durante il loro percorso non più regolato, causano enormi danni alle infrastrutture (ponti e strade innanzitutto) più a valle. “Distruzione delle foreste da una parte, delle coscienze dall’altra!” rincarava Lovisato che non avrebbe “mai creduto che un Governo colle sue arti corrutrici potesse discendere tanto basso!”. E che la distruzione si stesse svolgendo “a moto precipitosamente accelerato” lo confermano le quantità di carbone che dalle varie parti dell’isola giungevano a Cagliari e ad altri porti. Solo a “Mandas arrivano ogni giorno dalla parte di Sorgono e da quella di Lanusei, fra ordinari, straordinari e merci, otto treni: ognuno conduce tre carri con sacchi di carbone ed ogni carro ne porta sei tonnellate, quindi in tutto 144 (dico centoquarantaquattro) tonnellate di carbone al giorno….” “Eccellenza, quante piante devono essere abbattute giornalmente per fare quella enorme quantità di carbone, che si ripete così per settimane e mesi?”
Ed effettivamente enorme era tale quantità, di legna, tanto da poter stimare che nella stagione silvana il prelievo totale fosse di almeno 100 mila metri cubi, una vera e propria “ sciagura per la nostra povera isola;” Stando così le cose, d’altra parte un po’ come adesso soprattutto a causa degli incendi, Lovisato s’impone una prima urgentissima riflessione individuando nel “rimboschimento” il rimedio. Ed “il professionista forestale” !!??? Avrebbe detto allora come ora che c’è troppo verde in Sardegna???
Anche allora “per l’isola nostra avrebbe dovuto levarsi la voce di protesta del geologo, dell’idraulico, delle Società Alpine e di Silvicoltura…”. Invece… troppo poco, nei vivai, preparati per la produzione di piantine da destinare al rimboschimento venivano diffuse rampicanti erbacee o pioppo del Canada prestando attenzione solo alle relazioni di “cortigiani, cacciatori di croci” ecc..
Cosa si sta facendo di concreto per cambiare una mentalità volta all’autodistruzione, cosa si fa per insegnare ai ragazzi nelle scuole il rispetto e l’amore per l’ambiente? Amore e rispetto interessato tra l’altro, la nostra stessa sopravivenza è legata al giusto equilibrio tra uomo e natura.
Che devo affermare sui suoi sproloqui sull’inventario forestale (che andrebbe letto nel reale contesto), o gli aspetti paesaggisti, le norme di tutela e le soprintendenze….. Non sembrano certo le parole di un uomo di cultura, di uno che ha esercitato un ruolo di fondamentale importanza al vertice nell’amministrazione regionale, sembrano piuttosto le parole di un povero arrabbiato e poco accorto viandante della steppa…..
“Occorrono fatti e non parole” come scriveva Lovisato! E non si può fare a meno di evidenziare che una volta finanche il promontorio di S. Elia a Cagliari era coperto di fittissima vegetazione, specialmente di ginepri (6 aprile 1553, Archivio di Stato, Vol. C. 5, numero 4).
“Agli isolani piace purtroppo sentire magnificare la loro ospitalità, godono di essere corteggiati, e si dolgono invece quando sentono qualche dura verità anche per parte di uomini che amano schiettamente la loro terra. E’ un sentimento falso quello di voler celate le proprie pecche e non s’accorgono di essere essi i più spietati nemici del loro paese”.
Ognuno di noi cerchi con tutte le energie a disposizione di proteggere la propria, la NOSTRA amata Terra dagli incendi, non deleghi responsabilità a chicchessia, neppure alla vegetazione di cui tanto invece abbiamo ancora bisogno, per il “risorgimento economico” (ma sotto altre vesti, non tagliandola) e morale sottolinerei della nostra bellissima Isola.
Carissimo Giuseppe ho letto e condiviso la tua analisi.
Come il 99,99 % dei sardi mi avvinghia la tristezza e il dolore nel vedere il nostro territorio devastato dal fuoco, aziende distrutte, famiglie sul lastrico, animali arsi vivi. Dietro questo inferno nero ho sempre la viva immagine del lavoro dell’uomo, della fatica e del sacrificio arso vivo che va in fumo: tutto ciò spezza il cuore.
Vorrei aggiungere una riflessione, qualche giorno fa, accanto a una mia casetta nelle campagne di Monastir è scoppiato un incendio. Decine di persone si sono assembrate e osservavano, naso in aria e cellulari per documentare l’evento, due elicotteri che tentavano di spegnere l’incendio.
Alcune fiamme erano facilmente domabili a mano con due rami di frasche. Io l’ho fatto, mi hanno redarguito perché avrei dovuto rispettare i “piani” della tecnologia elicotterelistica.
Ho spiegato loro che nelle culture contadine, anni fa, si suonavano le campane e uomini, donne e bambini si riversavano nelle campagne a mani nude, con frasche e giacche sul viso per domare gli incendi.
Racconto tutto questo per chiedere:
a) è possibile un progetto che educhi i cittadini non solo al rispetto del territorio, ma anche a dotarsi di strumenti attivi per combattere il fenomeno delinquenziale degli incendi? Visto che non si fa più il militare, qualcosina, anche soggettivamente si potrebbe fare.
b) È possibile creare un movimento serio che imponga alle amministrazioni, piuttosto che cariche regionali inutili volte a favorire gli amici degli amici, di dotarsi di risorse e organizzazione di un progetto di tutela del territorio che attui una prevenzione effettiva?
c) infine, a mio avviso, dovrebbe essere stimolata l’opera di vigilanza dei comuni e degli enti territoriali, con commisurate sanzioni, volte a impedire il degrado del territorio prevedendo tutti gli interventi necessari, per esempio pulizia del terreno e fasce ferma fuoco.
Dico questo da persona priva di competenza specifica, ma consapevole che il coinvolgimento quanto più ampio possibile dei cittadini possa portare a limitare i danni e a far lievitare la coscienza civile che dia una scossa al torpore degli enti territoriali. Non si deve piangere dopo, occorre solo un po’ di intelligenza e organizzazione prima.