L’isola che non c’è. Sulla Costa Smeralda, o di un’u-topia capitalista [di Maria Cristina Addis]

Porto Cervo Hafen

Lavoroculturale.org. Pubblichiamo l’introduzione al volume di Maria Cristina Addis “L’isola che non c’è sulla Costa Smeralda o di un’u-topia capitalista” (volume 1,Esculapio 2017, 2017).

Brand immobiliare ideato e realizzato dal consorzio omonimo a partire dal 1962 sul territorio di Monti di Mola (Comune di Arzachena), il neologismo Costa Smeralda individua indissolubilmente un’area geografica e un marchio commerciale, una porzione di superficie terrestre e un bene di lusso, un punto sulla mappa eil valore aggiunto di un prodotto, senza che i due poli vengano mai a coincidere del tutto o viceversa possano distinguersi e divergere definitivamente.

L’indecidibilità inscritta nel toponimo e la frattura che esso opera all’interno del senso comune (la cartografia corrente lo riconosce e segnala come “località”, il diritto lo definisce una “qualifica supplementare” riservata ai soli immobili di proprietà del consorzio) non sono un mero baco dell’enciclopedia, ricucibile grazie all’esperienza del viaggio e alla pratica del luogo, ma al contrario costitutive della sua natura.

Se il valore di posizione e quello di attributo coesistono senza coincidere, se rimandano agli spazi incompossibili del territorio geopolitico e dell’universo di marca senza per questo dissolvere l’effetto d’insieme, è perché ciò che ne fonda il valore e il funzionamento è esattamente una tale posizione di scarto fra ordini di realtà mutuamente esclusivi, fra la superficie terrestre in cui suo malgrado si inscrive e l’“exclusive paradise” che vorrebbe affrancarsi per sempre dai limiti di questo mondo.

A differenza di un villaggio-vacanze, un resort turistico o un parco tematico, la Costa Smeralda non solo non ha confini precisi e marcati, ma l’oggetto dell’intrattenimento, il “tema” alla base del suo mondo ludico, non è altro che il “luogo allo stato puro”: spiagge bianche, baie riparate, specchi d’acqua quieta e cristallina, rocce dai profili cangianti che si stagliano nette sulla macchia incolta in cui si mimetizzano ville e alberghi, uffici e strutture sportive. Cartelli e insegne, distribuiti con ossessiva parsimonia, si riducono a discrete targhette di piccole dimensioni individuabili solo a una distanza molto ravvicinata.

I pochi edifici visibili dalle strade, bianchi o tinteggiati di tenui colori pastello, manifestano una generica funzione abitativa, l’immagine di un villaggio di cui non si può dire nient’altro. Monti di Mola e Costa Smeralda non si contendono semplicemente lo stesso spazio, ma il senso e il valore di una morfologia naturale e di una tradizione rurale che non solo non vengono negate, ma sono anzi magnificate all’interno di un’identità visiva che ne restituisce un doppio fantasmagorico più intenso, nitido e leggibile dell’originale.

Il quadro è ulteriormente complicato dalla posizione di chi scrive, nata e vissuta in quelle terre e residente, insieme a poco più di mille anime, sui margini più prossimi dell’aggregato di terreni posseduti e amministrati dal Consorzio: i pochi nativi (tre famiglie allargate), impiegati, operai specializzati, lavoratori portuali, una serie di portatori di competenze e maestranze necessarie alla creazione e gestione del progetto, e di figure professionali richiamate dalla filiera turistica da esso innescata, costituiscono progressivamente la “comunità ombra” che lavora dietro le quinte delle vacanze miliardarie.

Necessario all’allestimento e mantenimento dell’universo ludico della costa, il “residente” ne costituisce a sua volta un paradosso, qualcuno e qualcosa di necessario alla sua esistenza ma che è altrettanto necessario sparisca, che non si dia se non mimeticamente rispetto ad esso. Come nel paradigma più classico del naturalismo prospettico, ogni traccia dell’artificio costitutivo dei suoi effetti esotici e folkloristici ne mina al contempo l’efficacia e la ragion d’essere, insinua una crepa nell’autonomia della scena riportando pericolosamente l’attenzione sul suo statuto materiale, sulla sua appartenenza al nostro stesso mondo, oggetto fra gli oggetti e artefatto fra gli artefatti.

Né l’identità di autoctona né lo statuto di “testimone oculare” giocano in questa sede alcun valore autenticante, garanzia della verità dei fatti riportati o della legittimità dei giudizi avanzati: non si tratta di esercitare una funzione di “svelamento”, di apportare dati a favore o a sfavore di una tesi, di decidere definitivamente se la Costa Smeralda è il simbolo per eccellenza della società del consumo o se ha protetto un angolo di mondo dai suoi effetti, se si tratta di una vergognosa forma di speculazione edilizia o di un modello virtuoso di imprenditoria sostenibile, se aggira le leggi e le ragioni dello Stato o al contrario ne fa le veci e ne compensa i difetti, se, infine, il suo fondatore Karim Aga Khan IV è un losco neo-colonizzatore o un generoso benefattore, se ha approfittato della povertà e l’ignoranza dei proprietari terrieri originari circa il valore commerciale dei propri beni o è al contrario colui che li ha sollevati da una tale infausta condizione.

Il modello dell’inchiesta, in questo caso, rischierebbe di produrre risultati deludenti, se non di girare a vuoto: ognuno di questi argomenti, che animano il dibattito locale e nazionale sulla Costa Smeralda sin dai suoi albori, non solo è in egual misura fondato, ma tale fondatezza è palese, agilmente apprezzabile da chiunque e in poco tempo.

La nostra prospettiva si avvale al contrario dello sguardo semiotico per indagarne il dispositivo discorsivo all’interno di un’interrogazione più generale sul potere, sulla possibilità di osservarne e descriverne le positività e sulle tattiche di lettura utili ad incrementarne l’intelligibilità.

Il taglio dell’analisi guarda all’analitica del potere inaugurata da Michel Foucault e agli studi dedicati da Louis Marin all’utopia e al discorso utopico. Dalla prima adotta alcuni modi di pensare al problema del potere, e a quello ad esso strettamente correlato del soggetto, che portano l’attenzione sulla positività del discorso e sulla logica posizionale sottesa al suo funzionamento. Dai secondi raccoglie l’idea che alcuni “miti realizzati”, o eterotopie, si diano come cristallizzazione e degenerazione di utopie, di discorsi la cui specificità risiede nell’ambivalenza insanabile fra realtà e finzione, fra la spinta di una contraddizione storica e la messa in scena della sua soluzione mitica.

Dello statuto di “residente”, per questa ragione, conservo la posizione residuale, esito anch’essa di una doppia esclusione: in eccesso rispetto alla Sardegna allestita dal mito, bianca, nitida, imperitura, epurata dalle densità della storia, in difetto rispetto alla Sardegna “vera”, quella che vanta un’identità affondata nella tradizione e un’economia a base territoriale, la comunità di Monti di Mola segnala un interstizio, topologico e discorsivo, rivelatore di un mito più complesso e forse più profondo rispetto alla mera apologia della ricchezza o della bellezza, della forza economica o dell’elevatezza morale, dell’individuo o della comunità, un mito il cui primo dato notevole e degno d’interesse è la capacità di conciliare e tenere insieme ognuno di questi valori, di dissimularli, spostarli, trasformarli l’uno nell’altro, di convertire l’ambiente in una fonte di guadagno e la ricchezza in un oggetto di contemplazione estetica, la natura in una sua immagine e il mondo immaginario in effettive pratiche e forme di vita, senza che un polo si sostituisca in toto all’altro o sparisca del tutto.

Due aneddoti possono forse illustrarne meglio il funzionamento a partire dai suoi effetti. Il primo, generico, riguarda gli innumerevoli casi di automobilisti che, avendone percorso più volte in lungo e in largo le strade e i sentieri, mi hanno fermata sfiniti ed esasperati per chiedere «Dov’è la Costa Smeralda?», numerosi quanto i resoconti disforici dei visitatori occasionali, vacanzieri alloggiati in altre zone turistiche dell’isola che attirati dalla fama del luogo scelgono di passarvi una giornata: «A parte il mare non c’è niente da vedere in Costa Smeralda».

Il secondo, puntuale, riguarda un episodio accaduto quando, da adolescente, a metà degli anni Novanta del secolo scorso, ho lavoravo come commessa nella filiale portocervina di Prada. Dopo aver concluso una vendita con una cliente straniera, vengo appellata da un’amica lodigiana della direttrice del negozio, venuta a passare le vacanze nella residenza estiva della conoscente. «Ma lei non è sarda?», mi ha chiesto. «Sì, sono sarda” “Ma allora come mai parla Inglese?». «L’ho studiato a scuola». «Ma perché ci sono le scuole in Sardegna?». «Sì». «Ma anche le altre cose, tipo i tabacchi e i negozi, ci sono anche d’inverno?».

Come in un topos classico della fiction fantascientifica, le rispettive posizioni del visitatore occasionale e dell’ospite stanziale segnalano uno stesso punto a partire da dimensioni spazio-temporali distinte, comemondi paralleliche si dispiegano nella stessa porzione di spazio fisico senza confondersi né incontrarsi. Il primo, alla ricerca di tracce di cultura, si scontra con un territorio che è solo natura; la seconda, convinta che aldilà del perimetro dell’oasi smeraldina ci sia solo la barbarie, è altrettanto sorpresa di trovarvi tracce di civiltà. Il primo si addentra progressivamente nel territorio fino a fare esperienza di un’assenza di senso; la seconda si colloca in un universo fiabesco pensato in assenza di spazio.

Di fatto, si possono percorrere all’infinito la strada provinciale che taglia longitudinalmente la Costa Smeralda e i sentieri che la articolano sui due lati con la sensazione di trovarsi sempre in qualche zona mediana, di passaggio, preludio di una qualche luogo topico che non si dà mai; così come si può villeggiare in Costa Smeralda senza avere mai la sensazione di essere in qualche posto specifico, e anzi estendere un simile esercizio di sospensione di luogoall’intera Sardegna, come se l’isola stessa, al partire dell’ultimo turista, si spegnesse come un teatro per riaccendersi all’inizio della stagione successiva.

Per quanto i dati e le informazioni accumulati durante decenni di esposizione prolungata ai rispettivi comportamenti e giudizi delle due tipologie di turista offrano materiale statistico e qualitativo di grande interesse antropologico e sociologico, il nostro sguardo si limita preliminarmente alla loro reciproca posizione, che segnala l’oggetto e il problema affrontati dal libro: un posto tale per cui da fuori si arriva a un vuoto, da dentro non si è da nessuna parte; da fuori appare come un mondo disabitato, da dentro come una scenografia auto-allestitasi.

 

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