Libia, nella roccaforte degli scafisti dove inizia l’inferno dei migranti [di Domenico Quirico]
La Stampa 15 agosto 2017. Le sette. Un pontile. Ora le cose e il cielo hanno colore, non splendore. All’estremità della vasta curva di terre gialle, esili palmizi che per tutta la giornata pareva si disseccassero lentamente cominciano a vivere. Due pescherecci si incrociano lentamente davanti a noi. Alcune grandi navi immobili sembrano incastrate nella dura superfice della baia. Il mare è un’acqua di laguna così densa che dondola appena. La Migrazione, alla fine, è storia di mare. A queste spiagge bisogna arrivare, loro per partire e noi per capire. Mi viene una idea vaga: che questa estate di Libia è un’estate guasta, un’estate che va a male. Nessuno confessa a se stesso che la guerra ai migranti non somiglia a nulla, che nulla vi ha un senso, che nessuno schema vi si adatta, che crediamo di tirare solennemente dei fili i quali non sono più legati alle marionette. Per esempio: sappiamo che le regole del «viaggio» nel Mediterraneo sono cambiate? E che lo hanno imposto loro, i migranti? Non cercano più lo scafista direttamente, lo pagano e partono, affidandosi a dio. Non si fidano più: troppi morti, troppi naufragi, troppi inganni. Ora c’è un mediatore, sempre libico, riunisce i gruppi, marocchini senegalesi eritrei, raccoglie il denaro e lo custodisce. Paga lo scafista solo quando una telefonata del migrante conferma che è arrivato in Italia o è al sicuro su una nave di soccorso. Il viaggio con l’assicurazione. Il business dei trafficanti. Per gli scafisti è indispensabile che i migranti arrivino, e presto: è l’unico modo per avere il denaro. E questo, forse, spiega molti misteri: la ricerca delle navi delle organizzazioni non governative e altro. Mahmud è il vecchio capo dei pescatori. «A che ora uscite stanotte? L’acqua è calma, si fila lisci sul mare». «Questo mare immobile non è buono, è un mare da migranti non da pescatori – lo dice con stizza, come se fosse qualcosa di sconveniente – è luna piena, sotto la superfice calma la corrente è forte, non ci sono pesci così. I gommoni, quelli sì, escono stanotte per andare da voi». Mahmud sa mille storie. «Avevo una barca con un libico e tre egiziani, cercavano il pesce spada, bisogna star fuori almeno due-tre giorni. Incontrano una barca di migranti in difficoltà che invocano aiuto. Si fermano, lanciano un appello, arriva una nave delle vostre, armate, grandi, gridano in arabo “State fermi o vi spariamo”. Prendono tutti, i miei pescatori la barca i migranti, e li rimorchiano a Lampedusa: “Siete scafisti – dicono ai miei – stavolta la pagate”. Per farli tornare, loro e la barca, ci sono volute settimane di appelli e trattative, ma il pesce quello, era perduto. Le nostre ormai sono acque di nessuno, tunisini e italiani che vengono a pescare di frodo parandosi dietro alle vostre navi, migranti». Che cosa è vero e che cosa è falso, qui in Libia? Le nostre soluzioni buone per tutto mi sembrano quegli aggeggi dei meccanici che sono insieme pinza, martello e cacciavite. Mi aspettavo a Tripoli chiasso e furore per la presenza delle navi italiane e il «colonialismo» di ritorno. Non ne parla nessuno, se non qualche schermaglia di politicanti. Alla manifestazione contro l’Italia c’erano 40 persone impastoiate alla svelta dai Fratelli musulmani. Tripoli ha 3 milioni di abitanti. I libici, semmai, si preoccupano dell’energia elettrica che non c’è per sei, dieci ore al giorno, e del loro denaro che resta chiuso nelle banche. Al mercato le botteghe degli orefici sono piene di ombra e di meraviglie. Intravedo monili che sembrano usciti dai tesori di Micene, così magnifici da sembrare falsi. Ma nessun avventore. I mercanti seduti sui loro banchi guardano la strada. Volgono non appena mi vedono gli occhi sugli oggetti nelle bacheche, cadono su di essi densi raggi di sole, sottili, pieni di una polvere fulva. Se dopo averli sorpassati mi volto, vedo il loro sguardo che mi segue pesante ansioso: «Se venite qua con una nave che distribuisce energia elettrica diventate i signori della Libia, altro che navi da guerra». L’ombra di Haftar. Le notizie che diamo per certe assomigliano a miti che si propagano, di origine incerta? Al Sarraj è il nostro uomo, la carta su cui puntiamo tutto. Ebbene a Tripoli senti parlare solo del «Vecchio»: non osano nei caffè dirne il nome, non è prudente. Questa gente ha vissuto 40 anni sotto Gheddafi. Il Vecchio è il generale Haftar, l’uomo di Tobruk, sperano che arrivi presto perché son stufi delle milizie e del primo ministro e delle sue strategie tortuose: «Ci vuole un uomo forte che metta fine al caos». Le parole non corrispondono alle cose che vedo. «La stabilizzazione della Libia, grazie a noi, migliora» annunciamo. E qui invece è una guerra in cui non si viene a capo di nulla, bisogna ricominciare da principio ogni volta. Il pericolo non sta in alcun punto, non ha forma peso colore. È lì, in questo Paese immenso, sproporzionato, goffo a furia di essere grande, in questo Paese peggio che disabitato, abitato poco e male. È un pericolo dilatato, diffuso, fluttuante che ti sfugge e poi all’improvviso fa ressa in un punto, fulminante. Per esempio. Vado a Zawia e a Sabratha, solo un’ora di viaggio, dove sono le spiagge di imbarco dei migranti. Si viaggia solo di giorno, di notte la strada è dei briganti, dei jihadisti, chissà. Ci sono molti posti di blocco, di giorno, gente armata, in mimetica. Noi li definiamo: esercito polizia sicurezza. E pensiamo a ufficiali, catene di comando, disciplina. E invece sono milizie, gente armata di gruppi diversi, ingaggiata dal governo ma che non risponde a nessuno. Il primo posto di blocco lo superiamo senza esser fermati: i miliziani son tutti intenti a prelevare il pedaggio da un camion. Il secondo è a Zanzur, il ventisettesimo chilometro come dicono qua. Un tempo era un’oasi con le palme fitte come una pineta e pozzi dove l’acqua la tirava su una vacca o un asino con gli otri, un metodo più antico di Noè. Oggi l’oasi è solo polvere e case sciupate, più grigia che verde. Milizie e check point. Due ragazzi mi fanno scendere dall’auto quando si accorgono che non sono libico. Stringono in mano il passaporto e il permesso che mi è stato dato dagli uffici di Tripoli, li girano e rigirano: sono analfabeti, per loro sono incomprensibili. Uno dei due è chiaramente in preda a droghe, le parole gli escono di bocca accavallate, senza filo. Mi tirano dentro un container che fa da ufficio e casa. Mi vuotano le tasche, con metodo, ho portato con me pochi euro e soldi libici per prudenza. Sghignazzano, spingono: conosco la scena, bisogna fingersi stupidi, tacere, aspettare pazienti. Ormai non dipende da te, nulla. Con il portafoglio spariscono in un’altra stanza. Ecco: mi preparo. I rapporti con un Paese dove hanno cercato di ucciderti sono complessi, non evolvono. Tornano, mi ridanno il portafoglio e mi spingono fuori: sono rimasti solo i soldi libici che non valgono niente. Ripartiamo. I distributori sono chiusi o assaliti da interminabili file di auto alla ricerca di benzina. Le milizie la imboscano, la comprano al prezzo fissato dalla legge di un dinaro al litro e poi la vendono di contrabbando. Un guadagno enorme. La stabilizzazione della Libia. Cerchiamo a Sabratha, io e il mio amico libico, un conoscente, un tempo era agente della polizia turistica. In un caffè che frequentava ne facciamo il nome, lo descriviamo. Gli sguardi si abbassano: «Lo hanno ucciso gli islamisti, gli hanno tagliato la testa». Storie libiche, sembrano senza peso, la presenza di una persona scomparsa può farsi più densa di una presenza reale. La città sembra intatta e viva. Un anno fa l’Isis faceva sfilare per le strade sfacciatamente i suoi pick-up e le sue nere bandiere. Ora si sono ritirati verso l’interno, sulla montagna, attendono i nostri errori. Nei negozi eleganti espongono chador di lusso e mute per le bagnanti virtuose. Accanto al municipio color caffelatte immondizia ed erba tisica: il sole mette sulla polvere bianca una luce cruda che costringe quasi a chiudere gli occhi. Manovrano contromano senza badare alle auto pick-up con mitragliere a cui si aggrappano urlando giovani barbuti. Il sindaco Hasan al Dauadi è un uomo giovane, a suo agio in un elegante barracano grigio: «I trafficanti di uomini sono gente di qua, una mafia organizzata, potente, ben armata, hanno capannoni e case dove nascondono i migranti. Forse le partenze ora diminuiranno un poco: l’Italia non paga i capi del traffico e le milizie?». Pronti a partire Le rovine sembrano intatte, il mare vi si infrange, col suo azzurro intenso ma senza trasparenza, e la balza a riva di un verde di pavone, opalino, misterioso. Nel teatro, sproporzionato, inverosimile, ricostruito da un archeologo un po’ mistico senza badare al vero, ci sono rifiuti, i rovi guadagnano terreno laddove tubazioni abbandonate lasciano intravedere che un tempo c’erano erba e fiori. Ci si muove in una pozza di sudore, affannosi, come bastonati. Due famigliole libiche si aggirano tra le colonne, i bimbi lanciano grida che si perdono nel silenzio del mare. La cosa che li affascina di più sono le antiche latrine, miracolosamente conservate, sotto il bel portico pentagonale ci furono imperatori romani che salirono a Roma da qui e avevano la pelle scura. Oggi li avremmo forse rimandati indietro come fastidiosi migranti. Ogni spiaggia da qui a Tripoli è un luogo di partenza. Un gruppo di neri sono accoccolati sulla sabbia gli uni di fronte agli altri, in mezzo a loro bottiglie di acqua. Sono assolutamente immobili. Non si guardano. I loro occhi sono rivolti verso punti diversi del mare. Emanano un senso di eternità. Vedo bambini dormire come se fossero morti. Non hanno con loro alcun bagaglio, nella disperazione resta la consolazione di separarsi da tutto, di essere ridotti a se stessi. Mi guardano con la stessa innocenza con cui guardano l’orizzonte. Mi offrono l’acqua: l’ospitalità non è un rito ma un dono. «Il mare è buono, stanotte partite?». E dico la formula rituale «Siamo nelle mani di dio». «Dio esiste». Adesso è scuro ormai. Si indovinano senza vederli gli argini del molo e il mare di ombra dove non scintillano, aderenti agli scafi dei pescherecci, che i riflessi della lampade. Qua e là certe forme allungate macchiano il cielo notturno, reti issate dai pescatori, forse.
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