Il caleidoscopio dei Mediterranei (1) [di Mario Rino Me]

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In un gioco di specchi tra passato e presente, vecchie dominazioni rientrano nella storia contemporanea. L’erede dell’Impero di Mezzo, già assurta a un ruolo globale, cerca di riprendere, a modo suo e in chiave moderna, gli storici legami con gli Stati del Mare di Mezzo. Se, da un lato, proprio le relazioni tra i diversi sistemi sono la cifra di quegli spazi marittimi di ordine di grandezza secondario rispetto alle masse oceaniche, dall’altro, la mondializzazione mette in relazione questi spazi particolari.

Condizioni a contorno e cartografia, in specie quella degli scambi commerciali che costruiscono veri e propri cantieri sociopolitici, mettono dunque in risalto il ruolo di spazi particolari di convivenza, simil-mediterranei. Cos’è allora uno spazio Mediterraneo? Nel presente saggio si cercherà di dare una risposta a questo quesito e  di interpretare il nuovo contesto.

Rebus sic stantibus[1]: la fine di un ciclo Nei rapidi cambiamenti di questo tempo che vincola il nostro pensiero all’orizzonte del presente, poco lasciando alle prospettive di medio-lungo termine, attraversiamo un momento storico di transizione per la ridefinizione dei ruoli e delle gerarchie del potere nei nuovi equilibri geopolitici del XXI° secolo. Per cominciare, gli scenari del nuovo millennio confermano uno degli assunti del XX° secolo, in base al quale cui la sfida a una grande potenza non può che venire da un’altra che aspira allo stesso rango.

In questo divenire turbolento, il secolo XXI° nato sotto le insegne americane, ha preso, strada facendo, una connotazione asiatica. Le Sponde meridionali e orientali continuano ad essere o lacerate da guerre civili, gestite da attori esterni e dunque complesse, o alle prese con pressanti istanze socio-politiche: ai loro appelli  all’Europa, vista come ultima spiaggia, risponde fiocamente un’Unione che ha perso pezzi (Brexit), vieppiù divisa sulle questioni cruciali del tempo, come l’immigrazione.

Le vicende della Libia, Iraq e Siria, per citare quelle più eclatanti, hanno riacceso i riflettori sull’arco storico delle crisi, oggi anche guerre, che scuote una vasta area dall’Asia Centrale, con la guerra dimenticata in Afghanistan, all’Africa Occidentale, attraversando le frontiere sulla sabbia fino al Corno d’Africa e la storica Mesopotamia: il Grande Mare è di nuovo in scena.

Dai dati dello Stockolm International Peace Reseach Institute (SIPRI), emergono due tendenze strategiche agli antipodi: da un lato tagli e/o risparmi sulle spese militari da parte degli Stati con economie avanzate (in particolare in Europa, a detrimento della sua autonomia strategica) alle prese con deboli riprese da una fase recessiva, dall’altro, la tendenza ad accompagnare la crescita economico-politica con un deciso incremento del potenziale militare da parte del “resto”. Nel 2014, la spesa militare in Asia si è attestata sui 344.000.000.000 $, contro 286 miliardi per l’Europa. E non c’è dubbio che questo dato, oltre a confermare lo spostamento a Est degli equilibri economici, geopolitici e militari,  costituisce  un elemento di riflessione strategica per il futuro.

A un risveglio economico si abbina dunque, come da copione, un aumento delle spese militari. E poiché la mappa dell’incremento delle spese in armamenti riguarda anche aree socio-politiche affette da crisi non transitorie, i rischi di militarizzazione della politica. I fatti di questo tempo sintetizzati nel celebre schema di Papa Francesco della “Terza Guerra Mondiale a pezzi”, danno corpo alla profezia del Generale Beaufre sull’uomo della fine del XX° secolo, che l’autore immagina esposto a un contesto caratterizzato da  una “lutte maintenue sur un registre mineur devenue permanente. La grande guerre et la vrai paix seront alors mortes ensemble».

In queste dinamiche convulse della nostra epoca, incastrati nel presente, viviamo, e, in base alle previsioni, vivremo, anni strategicamente intensi, che denotano la fine di un ciclo della storia e l’inizio di un nuovo corso, marcato dall’assenza di spazi di ciceroniana securitas, intesa come tranquillità.

Di fatto, si è venuto a determinare uno spostamento geopolitico verso l’Asia, dove ricompaiono gli eredi di quel mondo asiatico, che il lungo dominio Occidentale aveva messo in disparte dalla “Grande Storia”. La Persia dei Safavidi, l’India dei Moghul, la Cina dei Ming e Qing nonché l’impero Ottomano erano delle potenze ricche e formidabili all’inizio del secolo XVIII°, quando nasceva l’impero russo. Oggi gli eredi delle predette Nazioni asiatiche sono riemersi e si inseriscono nei vuoti  di potere lasciati dalla superpotenza in fase di riequilibrio, all’insegna dello slogan “America first”, privilegiando, nella politica estera, rapporti bilaterali con singoli paesi e, dunque, con limitata apertura verso i vari aggregati multinazionali dei paesi del vecchio Continente, come la NATO e l’Unione Europea.

Anche quest’ultima sta cambiando: giunta oramai a un punto di non ritorno di un processo portato avanti alla “festina lente”, per i forti venti contrari, per sopravvivere, accarezza l’idea di cambiare gioco attraverso uno sviluppo a geometria variabile, in ciò favorita da un vento elettorale che sembra ora riprendere a spirare in senso favorevole alla costruzione europea.

Peraltro, l’Unione inizia a rispondere a tono ai ricatti (Brexit, blocco Visegrad ) e, spinta dall’Italia, alla sfida del fenomeno migratorio. Se, e questo è un grande se, continuerà così, nel quadro di una possibile Cooperazione Strutturata Permanente (PeSCo) in materia di Difesa, il sessantennale dei Trattati di Roma del marzo1957 e la costituzione del relativo fondo per la Difesa, potrebbero dare l’avvio alla realizzazione di qualcosa di simile alle agognate Forze Armate Europee.

Ma, visti i precedenti, occorre tenere i piedi per terra: contestualizzando Clausewitz, nel nesso causa-effetto, solo con progetti d’envergure si possono sortire effetti strategici. In Medioriente, la frantumazione da parte dell’ISIS dell’ingessatura liminaria Mediorientale con le sue linee arbitrarie del duo Sykes-Picot del 1916, e le nuove politiche di T. Erdogan nell’area turcofana, ci riportano indietro all’epoca ottomana in cui quello spazio, non aveva che labili frontiere.

Condizione quest’ultima rafforzata dalla presenza di Forze Turche in Siria e, ancor più, in Qatar, da dove erano state cacciate poco meno di un secolo fa. Senza dimenticare  l’irruzione Russa in Siria (mascherata all’inizio con la consueta offerta di cargo di aiuti militari poi trasformati in operazioni militari), che ha impresso una svolta al lento processo di soluzione dei due conflitti.

Certamente, la sconfitta militare dell’ISIS come entità governativa, è una condizione necessaria, ma non è sufficiente, vista la sua capacità di riconfigurarsi come organizzazione insurrezionale e di moltiplicare i fronti negli spazi non governati.  In questo nuovo quadro geopolitico, una trojka inedita, composta da Iran-Russia e Turchia, convocando le parti della guerra civile in Siria, ad Astana, ha inteso presentarsi come foro ristretto in sostegno all’azione delle NU. Qualunque sia l’esito finale, questo stato delle cose è emblematico di una tendenza al cambiamento che va al di là del perimetro regionale. Ma il banco di prova del nuovo è uno dei più complessi del pianeta.

Come scriveva un nostro politologo un secolo fa “tutto è fluido ed evanescente come il miraggio del deserto, la realtà di oggi, la menzogna di domani…i confini si spostano in un incessante ondeggiamento di tribù e capi in perpetua lotta di tendenze religiose e ambizioni territoriali”. L’area risente da tempo del patronage americano, modulato in “pensieri, parole (sia orali sia scritte come nelle sparate del Tweeter in Chief), opere e omissioni”. Con il ritorno statunitense nella scena mediorientale, la politica internazionale si ritrova dinanzi all’enorme sfida di ripristinare condizioni di sicurezza durature. Anche perché le tensioni nella Città Vecchia di Gerusalemme rievocano pulsioni millenarie.

Tutto questo combinandosi con il revival cinese di quella che è stata definita una riedizione in chiave moderna della Via della Seta, restituisce centralità e pertinenza al Grande Mare. In effetti il Belt and Road Forum for international Cooperation, tenutosi a Pechino il 14-15 Maggio, fa da cornice di un grande progetto nato in Cina (che la dipinge come “strada di pace e prosperità”), e volto allo sviluppo “in sinergia” di sforzi congiunti di ben 64 paesi di una rete di grandi infrastrutture, imperniate sui corridoi terrestre (strade-ferrovie), marittimo (porti) e aeronautico (aeroporti), che collegheranno la Cina, innanzitutto con il resto dell’Asia, con il Vicino e Medio Oriente, l’Europa, l’Africa e il Sud America.

Questa grande impresa, oltre ad aprire ulteriormente la Cina al suo continente e al mondo globalizzato, le consentirà di accreditarsi, grazie alla sua forza economica, come potenza globale, e ricolloca il vecchio Impero di Mezzo al centro del mondo. Indubbiamente si profila un successo cinese, come si evince dal comunicato congiunto dei leaders dei 64 paesi (60% della popolazione mondiale e circa 1/3 dell’economia globale) che sottoscrivono la difesa d’ufficio di un sistema che ha favorito la loro crescita.

Se, da un lato, questo clima suona un risposta all’America first e derivati della nuova amministrazione Trump, dall’altro, non sono tuttavia mancate le critiche, sia da parte europea per i deficit di trasparenza e rispetto ambientale; senza poi trascurare l’assenza dell’India, che ha declinato l’invito a partecipare, in quanto il corridoio terrestre Sino-Pakistano, inquadrato nel progetto, attraversa il Kashmir settentrionale (controllato dal Pakistan, con il quale rimane aperta una lunga e spinosa disputa territoriale).

Il mega-progetto di oltre un centinaio di miliardi di $ configura, tra l’altro, come il tratto d’unione di due spazi distanti, che conformazione geografica e trascorrere della storia hanno reso simili: il Mar Mediterraneo, l’archetipo, e il Mar della Cina Meridionale.

L’interesse cinese per le terre a Occidente di quello che essi chiamavano l’Oceano Occidentale, che separava i due Mari, era iniziato 600 anni fa con la missione dell’ammiraglio Zheng He (di fede musulmana) nella prima metà del XV° secolo, durante la  dinastia Ming, poco prima dei viaggi che portarono alle grandi scoperte europee nelle Americhe e nei mari dell’Oceano Indiano e Sud Est Asiatico.

Con l’interruzione delle campagne navali e la proibizione di costruire navigli, l’Impero di Mezzo si ripiegò, anche per dinamiche interne, nel suo isolamento per concentrarsi sulla terra ferma, salvo poi realizzare più tardi, con i condizionamenti e le umiliazioni delle potenze europee dell’800, di non essere più al centro del Mondo. Sarebbe suggestivo, a questo punto, pensare a come sarebbe stata la storia del Mondo se l’incontro tra i gruppi navali europei e la possente flotta cinese dei primi del 1400, mancato circa cinquecento anni fa, fosse invece avvenuto.

Di certo, con una flotta di proporzioni e tipologia di vascelli, che non aveva uguali in Europa, avrebbe preceduto il consolidamento dei Portoghesi e, verosimilmente, dissuaso successive potenziali incursioni e conquiste di olandesi, inglesi e francesi. Ma, ragionando con i se rischiamo di rimanere coinvolti in uno sterile esercizio verbale; vediamo allora il perché di questo accostamento.

*Ammiraglio di Squadra (r)

[1] Vedi saggio autore , Il Grande Gioco Rinasce nel Mediterraneo, Limes 23-2-2017

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