Competenze spezzatino, così il disastro è ciclico [di Salvatore Settis]
il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2017. Dal nubifragio al naufragio non c’è che un passo. Il nubifragio arriva puntuale a ogni autunno, devasta porzioni di territorio, miete vite umane, una volta a Livorno, un’altra a Messina, un’altra a Genova, e così via. Ma questo stesso ripetersi degli eventi è sintomo di un più vasto naufragio del quale siamo (inconsapevoli?) vittime e protagonisti: il naufragio della nave Italia. A ogni evento, a ogni stagione, si ripete lo stesso scenario: spronati dalle urgenze, siamo bravissimi a piangere i nostri morti, a contare le frane e i fiumi che straripano, a deplorare l’inefficienza delle amministrazioni pubbliche (impegnatissime, poi, a deplorarsi a vicenda). Ma siamo ancor più bravi a dimenticare tutto, appena l’emergenza è passata. In attesa, s’intende, del prossimo disastro. Così il dissesto idrogeologico, male oscuro e congenito della Penisola, è diventato l’oggetto di opposte retoriche: c’è chi accusa il governo di inadempienze che durano da trent’anni, e c’è chi risponde, sopraffatto dal malumore, scrivendo che “il dissesto geologico è una boiata” (Il Foglio, 18 novembre 2014), slogan-spazzatura del trumpismo de noantri. Nessuno lo ha detto meglio del famoso antropologo David Harvey: “Non c’è nulla di naturale in un ‘disastro naturale’”. Ogni volta che ci stracciamo le vesti per l’ultima disgrazia dovremmo ricordarci che la responsabilità massima (che è della politica, cioè di tutti noi) è nella mancanza di prevenzione, nella mancata manutenzione del suolo, nel cieco accanimento con cui alteriamo le condizioni naturali del territorio senza calcolare le conseguenze. Dimentichiamo che il 7% d’Italia è collocato in frana, il 10% a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico. Eppure non abbiamo attendibili mappe del rischio, anzi perfino la carta geologica d’Italia, indispensabile per la conoscenza del territorio e dunque per la prevenzione, per il 60% è ancora ferma a quella in scala 1:100.000 voluta da Quintino Sella nel 1862. Problemi annosi, che i cambiamenti climatici rendono più drammatici, trasformando sempre più spesso un acquazzone in temibile “bomba d’acqua”. In questa situazione, è di importanza vitale una riflessione sul “tempo di ritorno”, cioè l’intervallo medio con cui si verificano eventi meteorologici di particolare intensità. Calcolare il tempo di ritorno di precipitazioni estreme è una collaudata tecnica statistica: l’Istat diffonde annualmente la serie storica dei dati climatici dal 1866 a ieri, consentendo di stabilire il livello “normale” di piovosità e, per distinzione, la frequenza di eventi straordinari nelle varie aree geografiche. Ma le principali opere pubbliche (per non dire dell’edilizia privata) sono state progettate ed eseguite tenendo conto di tempi di ritorno ormai radicalmente trasformati a seguito dei cambiamenti climatici a livello planetario. In altri termini, il tempo di ritorno di una “bomba d’acqua” si è ridotto di anno in anno, e presumibilmente si ridurrà ancora. È dunque essenziale, se si vuol fare un buon lavoro di prevenzione con alto grado di probabilità, incrociare le serie storiche sulla piovosità con valutazioni accurate sulle modificazioni del clima, e ricalcolare anno per anno il tempo di ritorno degli eventi estremi. “La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi se si vuole salvare il suolo in cui vivono gli Italiani” (1951): questo monito di Luigi Einaudi, allora Capo dello Stato, è rimasto inascoltato. Continuiamo a violentare la natura, che “si vendica” sempre più spesso: anzi proprio gli anni del dopoguerra hanno visto un’indiscriminata espansione edilizia, informi periferie cresciute a macchia d’olio senza tener conto della fragilità del territorio. La legge nazionale di protezione del suolo invocata da Einaudi non vide mai la luce, anzi dal 1977 la protezione idrogeologica passò alla competenza delle Regioni (Dpr 616). Andava così dispersa l’esperienza accumulata da alcuni organi statali, dal Genio Civile agli Ispettorati forestali, all’Azienda Foreste demaniali, irresponsabilmente soppressa nel 1977 senza nemmeno trasferirne le strutture alle varie amministrazioni regionali. Le Regioni poi, per lo più, trasferirono le relative competenze alle Province o alle Comunità montane, frazionando e segmentando il territorio in modo quando mai irragionevole e contrario a qualsiasi seria pianificazione di azioni manutentive o preventive. In Toscana questa riduzione del territorio a uno spezzatino per minuscoli e spesso pretenziosi ras locali si è ancora complicata, con l’attribuzione di ulteriori competenze ai Consorzi di bonifica. Quel che ci vorrebbe è uno sguardo unitario, calibrato sulla geografia e la geologia, e non sui confini fra comuni, province e regioni. Si è invece generato un pulviscolo di competenze, sostanzialmente immodificato anche dopo la legge del 1989 (n. 183) sulla difesa del suolo. L’autonomia regionale, anziché consolidare la difesa del suolo, ha ferito a morte ogni cultura ed esperienza nella gestione dei complessi problemi idrogeologici, spesso affidati a “esperti” improvvisati di nomina esclusivamente politica. Situazione ulteriormente aggravatasi dopo la pessima riforma costituzionale del 2001, che trasferiva alle Regioni ulteriori competenze e funzioni, e dopo l’ancor peggiore riforma del 2016, per fortuna sgominata dal referendum del 4 dicembre: ma ne sopravvive, per “merito” di Delrio, la cosiddetta abolizione delle Province (peraltro ancora previste dall’art. 114 Cost.), che ha portato a ulteriori frantumazioni di funzioni e competenze, per non dire della recentissima abolizione della Guardia Forestale. Per riassumere: oggi spendiamo molto più di una volta per tenere in piedi un disordinato arcipelago di enti di tutela, con efficienza vicina a zero. E il principale ostacolo a una vera difesa del suolo è che non si sa bene chi dovrebbe farla. Secondo una ricerca condotta due anni fa dall’Associazione Nazionale Costruttori e dal Cresme (Centro di ricerche economiche e sociali sul mercato edilizio), in Italia perdiamo mediamente 3,5 miliardi l’anno per la mancata manutenzione del territorio, per non dire delle vite umane: secondo il Consiglio Nazionale dei geologi, negli ultimi 25 anni si contano 12.600 morti o dispersi, e 1.600 eventi su un totale di 4.000 hanno comportato vittime. A fronte di questo disastro perpetuamente annunciato, secondo Ance-Cresme un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2 miliardi per 20 anni. Ma il principale ostacolo è la frantumazione delle normative, l’arroccarsi di micro-signori della guerra nelle loro roccaforti locali: una navigazione di piccolo cabotaggio che consente solo analisi e provvedimenti di limitatissimo orizzonte, ma fornisce un alibi ai Soloni dei governi nazionali, che avendo delegato tutto se ne lavano cinicamente le mani. Intanto, l’Italia frana e la gente muore. |