Sogni a tempo indeterminato [di Veronica Rosati]

VOGLIO-UN-MONDO

Non amo la statistica. Probabilmente una disciplina oggettiva e scientifica non la si ama né la si odia. Esiste e basta. Racconta con dati e cifre persone, città, nazioni. Utilizza rigide categorie e campioni di riferimento producendone dei numeri. Forse non amo l’utilizzo senza controllo che si può fare di questa mole di dati empirici che il gioco retorico della politica e dei media distorce e trasforma. Non tiene conto del carattere unico delle storie delle persone, della sofferenza e dei sentimenti di tutti quegli uomini senza volto mutilati dalle formule scientifiche.

 

Nei dibattiti pubblici il dato sulla disoccupazione giovanile torna ciclicamente a porre alla politica seri interrogativi. Si riflette sempre più spesso sul giovanissimo italiano tipo fra i 15 e i 24 anni, davvero poco convincente. Un adolescente, magari un po’ troppo cresciuto, ma ancora in divenire e poco osservato fra le file delle liste di collocamento.

 

Nello psicotico caleidoscopio di quest’Italia raccontata non trova spazio una generazione ormai invisibile. Dove sono i trentenni, magari ormai tali già da qualche anno? Dove sono quei bambini divenuti adulti senza internet, tablet, social networks e talent shows? Sognavano un futuro di opportunità quei ragazzini che vedevano in tv la caduta del muro di Berlino. Se chiedevi loro cosa volessero fare da grandi rispondevano: “il pompiere” o “la hostess di volo” “il camionista” o “la maestra” o, ancora, “l’ingegnere”, “l’astronauta” o “la parrucchiera”. A scuola imparavano i tratti dei decenni tranquilli seguiti alla rapida crescita economica. Secondo una logica implicita credevano bastasse riversare la voglia di fare e l’impegno in quei grandi sogni di bambini.

 

Quella generazione ha imparato duramente a convivere con i sogni per decenni. Si trasformano ciclicamente in illusioni, in miraggi, in fantasmi di quel passato d’innocenza che li ha prodotti. Nessuno di loro poteva conoscere gli effetti devastanti di quel fato incontrollabile chiamato, in maniera semplicistica, crisi economica. Molti, probabilmente, hanno una laurea nel cassetto che ricorda loro chi sono veramente, nonostante i colloqui non superati per mancata raccomandazione, le quotidiane discriminazioni, la flessibilità ormai declinata in ogni forma, gli infiniti curricula inviati.

 

Ora molti di loro sono ancora a casa con i genitori, ad osservare dalla finestra la vita che scorre inesorabile. Si sforzano di credere che questo Paese possa ospitare un giorno la concretizzazione dei propri ideali. Pagano in silenzio un prezzo altissimo. Collezionano impieghi precari e acrobazie contrattuali senza battere ciglio. Altri sono riusciti a spiccare il volo e a metter su famiglia. Hanno deciso di non voler aspettare. Non possono permettere che l’insicurezza materiale si trasformi in una precarietà di valori, di sentimenti e di ideali. La giovinezza non si può mettere in stand-by. Non c’è tempo per aspettare il leader giusto che metta in atto quelle riforme strutturali tanto sponsorizzate, ma eteree e ancora sulla carta.

 

Tutti attendono la prossima scadenza di contratto, temendo ciclicamente l’arrivo dell’estate o delle Feste natalizie, restando aggrappati ad un presente che non ha il coraggio di farsi futuro. Hanno comunque sogni grandi. Molto più grandi dei loro conti in banca. Immaginano una casa tutta loro o una piccola auto nuova. Per le vie del centro ciascuno mescola i propri sogni a quelli degli altri guardando imprudentemente le vetrine di negozi sempre troppo costosi. Hanno imparato a godere delle piccole cose. Sanno apprezzarle perché ne conoscono il valore. Credono profondamente che le cose più importanti non si ottengono con il denaro, ma temono nel concreto di non riuscire a fare per i propri figli quello che i loro genitori hanno fatto per loro.

 

Pochi raccontano i sacrifici di questa generazione. Forse fa comodo non parlarne. Qualcuno diceva che le cose non dette non sono reali. È reale, invece, la naturalezza con la quale si chiede loro con taglienti sottintesi di adattarsi ai tempi incerti, di immolare per un tempo imprecisato le attitudini e l’umana necessità di certezze. Non fanno i difficili e non chiedono cose anacronistiche, perché hanno imparato da un pezzo che tutto scorre più velocemente e che le sicurezze nulla hanno a che vedere con la staticità di un passato lontano. Lo sanno probabilmente meglio dei sociologi.

 

Pesa troppo questa fetta di Italia per essere raccontata e presa in carico dalla politica. È abituata ad attendere il proprio turno. Può essere rappresentata come la scena di un’opera del teatro dell’assurdo. Nessun può dir loro se quell’attesa finirà mai. Qualcuno preferisce lasciarli aspettare per sempre, perché è molto più facile illudere i più giovani con la complicità e la retorica del tempo che verrà e la giostra di opportunità che prima o poi arriveranno.

 

Qualcuno di quei bambini degli anni ’80 ha realizzato davvero il proprio sogno dell’infanzia. Da qualche parte ci sono davvero il pompiere, la hostess di volo, il camionista, la maestra e, ancora, l’ingegnere, l’astronauta e la parrucchiera. Forse hanno dovuto imparare una nuova lingua in un paese lontano per concretizzare le loro ambizioni. Ci sono anche i trentenni al sicuro nelle ricchezze di famiglia per i quali la crisi è solo un nuovo colore della cronaca o un varietà televisivo.

 

Ma preferiamo guardare tutti i loro volti. Vogliamo legger nei loro occhi quei mille sogni a tempo indeterminato. Senza numeri e categorie troppo vaghe per descrivere la complessità delle storie, che la politica per troppi anni non ha saputo aiutare. Lontano dall’abuso e dalla mercificazione propagandistica di dati, che relegano questa generazione in uno sconcertante oblio.

 

One Comment

  1. Quira Ruiu

    Un quadro sociale che evidenzia in modo veritiero il disorientamento dei giovani anni 80, che si sono trovati imbottigliati dalla crisi economica che ha fossilizzato se non annullato gran parte dei loro sogni da adolescenti, spesso tacciati di eterni bamboccioni, ma in realtà vittime di un sistema che non ha fatto altro che penalizzare le loro ambizioni.

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