Perché abitare pienamente l’”insularità” della Sardegna? [di Maria Antonietta Mongiu]

isola

Parte da un’isola e vi ritornerà uno dei protagonisti dell’Iliade, prima opera letteraria del Mediterraneo; non prima di essere protagonista esclusivo del seguito. Quell’Odissea che da lui prese il nome.

Sarà Konstantinos Kavafis, un altro greco, 2800 anni dopo, a dichiarare che la vera protagonista di quell’epos che fonda il mare nostrum  ed invade la testa e il cuore di Odisseo si chiama Itaca. Chi meglio di lui ha saputo raccontare la necessità e la responsabilità di essere isola? Forse James Joyce con l’Ulysses, un decennio dopo Kavafis. Seppe racchiudere l’odissea in 24 ore ma in un’altra isola, smarrita nell’Oceano, nero e incognito.

Questa insistenza per ammettere che l’insularità è quasi una necessità dell’esistere. E’ il luogo del limite e dell’autocoscienza. Senza, il viaggio non è “fertile in avventure e in esperienze”. Allora la domanda che incombe è:  ma i sardi si sono fatti abitare dall’insularità o l’hanno sempre abitata controvoglia? I nostri antenati, frequentandola pienamente, la fecero diventare persino il centro del mare interno.

E’ ora che la Sardegna e con essa l’Italia assumano l’insularità come domicilio, valore, e opportunità. Perché oggi così non è. La Sardegna non è ancora Itaca e men che meno il suo senso. E’ necessario che lo diventi ma non prima di aver fatto molta autocritica per lo sciupio di tanta ricchezza e di tanta bellezza e per non aver capito “ciò che Itaca vuole significare”.

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