Otto Poesie [di Elisabetta Chicco Vitzizzai]
L’essente inesistente (Dialogo?) Le cose sono. Le cose spariscono. Poi, forse, a volte, ritornano. E anche gli uomini? No. Ma anch’essi sono e poi se ne vanno. Così il tuo volto, una memoria perduta.
Luigina Toselli, di anni settanta, morì sola una vita non nata. Una vita annegata nell’ombra di questo nostro paese deserto. Quattro case, la chiesa, una terra da capre. Morti figli e nipoti, tutti gli altri partiti, assisté al succedersi inerte delle stagioni. Alla persiana, scolorì negli anni nel sole, finché il suo cuore fedele fu pietra fra pietre.
Le lunghe ore dell’attesa, le ore affollate di nebbia. Un saltimbanco appeso al filo, il sole visibile del mezzogiorno. Il perdersi fra gli altri, negli altri e il ritrovarsi da soli a gioco finito smarriti. Sempre con sé, privi di sé.
Tu dici, lo so, che ancora verranno i giorni in cui tutte le cose riavranno il caldo colore di sempre, le case non più grigia pietra ma figura di uomini vivi, le strade senza sosta proteste a irraggiungibili mete un ponte sull’angoscia di oggi. Ma non c’è termine a questo trascorrere lento dei giorni e il gioco assurdo non conoscerà vincitori.
La morte estiva La sirena è suonata e gli operai hanno lasciato i cantieri; sotto il pallido cielo di gru è rimasto il geometra Cerri a controllare i lavori. Il geometra Cerri ora s’accende una nazionale col filtro e fa gli ultimi conti sul regolo calcolatore.
Bambini giocano nell’acqua inquinata del fiume che in questo punto si fa niente più che un rivo fangoso dove ier sera Lo Russo Giuseppe affogò la moglie Palmira perché –dice lui- lo tradiva.
Anche adesso la morte passeggia sul lungofiume. Ha un’andatura sbilenca e una sporta nera come la signora Pasini del piano di sotto, ma invece di cavoli porta teste ghignanti di morti e braccia strappate alla pressa e femori arrugginiti di ex bancari a riposo. D’estate la morte s’attarda sul fiume con i vogatori, ma è incerta e infine si prende il suocero del geometra Cerri che muore così, inspiegabilmente, in canottiera sì, sul balcone- mah!…forse di congestione.
Ci fu in quel momento una possibilità diversa. La possibilità che il boia piangesse sulla pena capitale il benpensante sull’ipocrisia d’ogni giorno l’assassino sulla vittima il macellaio sul capretto sgozzato il secondino sul suo mestiere infame. (Così come un tempo Jahvé avendo ordinato il sacrificio d’Isacco…) Non c’è spiegazione, né riparo né salvezza dal male che portiamo in noi riflesso ogni istante nella sofferenza degli altri. Volontà di una sola verità infranta ogni giorno nella pluralità d’infinite tesi ugualmente false e sempre sostenibili.
Ma filtrati dal male viviamo nel tempo che tutto trasforma in detriti la nostra realtà di compagni e fratelli.
Vivere per sopravvivere alle attese deluse ai ricordi che inchiodano alle parole che non significano alle cose inespresse.
Vivere come sopravvivere nella speranza di credere ciò che non si può credere quando tutto è distrutto. Un giorno più l’altro un detrito più l’altro, accumulato a costruire un mi |