Aspetti della Sardegna nei resoconti dei viaggiatori tra ‘800 e ‘900 [di Franco Masala]
Il frontespizio delle “XVI Vedute della Strada Centrale della Sardegna”, pubblicate da Giuseppe Cominotti ed Enrico Marchesi nel 1832 e dedicate al Marchese Stefano Manca di Villahermosa, presenta alcuni tra gli stereotipi dell’isola vigenti ancora oggi: il nuraghe e la torre costiera, la palma e il fico d’india, il fenicottero, il muflone e il cinghiale. Rimane intatto per la sua importanza, invece, il rilievo dato alla realizzazione della Strada Reale “Carlo Felice”, fondamentale per l’attraversamento della Sardegna, quando l’attenzione alle infrastrutture era diffusa in Europa come testimonia anche l’interessante dipinto di Claude Joseph Vernet riproducente la “Costruzione di una strada” (1764) dove su uno sfondo paesaggistico preromantico si nota l’operosità degli artefici del manufatto. È proprio la “Strada” realizzata tra anni ’20 e ’30 dell’Ottocento a facilitare la presenza dei primi viaggiatori in Sardegna dopo che l’isola era stata esclusa dal Grand Tour per tutto il Settecento. I primi viaggiatori, non a caso, sono attratti dagli aspetti “esotici” della regione comprendenti usanze tradizionali come l’asinello che fa girare incessantemente la mola (su molenti) o il carro sardo a ruota piena oltre a fauna e flora specifiche, tutti regolarmente rappresentati nelle illustrazioni che accompagnano i testi. Non sono meno considerati usi e costumi del luogo ed ecco allora le lavandaie di Osilo (Gustave Vuillier 1891), le corse dei cavalli nella via San Michele di Cagliari, oggi via Azuni (Francesco Gonin per Alberto Ferrero della Marmora nel 1839) e, ripetutamente, la processione di Sant’Efisio che consente di prestare un’attenzione particolare ai fastosi e coloratissimi costumi della tradizione sarda. Ciò che spetta anche a Milis dove la raccolta delle arance sollecita acquerelli variopinti rappresentanti anche le ceste-capanne dei Milesi, ricordate da Padre Antonio Bresciani (1850) o da Paolo Mantegazza (1864). Non desta meraviglia, quindi, che la descrizione del paese nella prima “guida rossa” del Touring Club Italiano, pubblicata nel 1918, richiami con evidenza i vastissimi agrumeti. La Sardegna si inserisce quindi nelle mete dei viaggiatori, sia pure in ritardo, quando si leggano le parole di Augustin François Creuzé de Lesser, che dicono “L’Europa finisce a Napoli e vi finisce anche piuttosto male. La Calabria, la Sicilia e tutto il resto è Africa.” (Voyage en Italie et en Sicile fait en 1801 et 1802, Paris 1806). Solo nel 1818, infatti, Wolfgang Goethe pubblicherà il suo Viaggio in Italia, prolungando il classico tour di aristocratici e artisti, comprendente Firenze, Venezia, Roma e Napoli, fino a Paestum e alla Sicilia, che diedero visibilità rinnovata ai templi antichi quando la Grecia era ancora irraggiungibile poichè sottoposta all’Impero ottomano. È altrettanto significativo che le illustrazioni dei resoconti di viaggio ignorino quasi sempre le città con l’eccezione di William Smyth che nel 1828 riproduce la chiesa gesuitica di San Michele a Cagliari, il duomo di Sassari e il campanile della cattedrale di Oristano, tutti relativi all’architettura sei-settecentesca, peraltro tenuta in nessun conto in quel periodo (Sketch of the present state of the island of Sardinia). Probabilmente dovevano apparire di grande effetto a fronte di un’architettura medioevale più diffusa ma certo meno appariscente. Così che Cagliari è descritta da Alberto Ferrero della Marmora in questo modo: “Situata ad anfiteatro lungo i fianchi di un colle isolato, circondata da due grandi stagni, bagnata su un lato dal mare, aperta all’interno verso una immensa pianura che si prolunga a Nord-Ovest a perdita d’occhio, la città di Cagliari presenta agli occhi del viaggiatore che arriva dal mare un aspetto gradevole ed imponente ad un tempo, malgrado il colore bianco-giallastro del suo calcare ed una sorta di aridità africana che le dà un’impronta tutta particolare” (Itinéraire de l’île de Sardaigne, Turin 1860). E l’aggettivo africano sarà ripetuto da Elio Vittorini quando afferma che “La città ci è apparsa sopra un monte metà roccia e metà case di roccia, Gerusalemme di Sardegna. […] E’ fredda e gialla. Fredda di pietra e d’un giallore calcareo africano. Sopra i bastioni pare una necropoli: e che dalle finestre debbano uscire corvi in volo. I tetti sono bianchi, di creta secca. Da qualche muro spunta il ciuffo nerastro, bruciacchiato d’un palmizio, ma non è Africa.” (Sardegna come un’infanzia, 1932-52). Appare del tutto logico allora che diverse vedute di Cagliari, prese da Est o da Ovest nell’Ottocento, inquadrino il paesaggio con palme svettanti nel cielo, rendendole appunto “africane”. Per non dire di alcune vedute della città del tutto immaginarie che contribuiscono ad una narrazione fantasiosa e imprecisa (come non pochi testi che raccontano la Sardegna già da fine Settecento): intorno al 1590 ad Anversa il fiammingo Hendrick III van Cleve (Henricus Clivensis) disegna una città circondata da alte montagne mentre nel 1712 ad Augsburg Paul Decker pubblica una Veduta ideale di Cagliari sotto il bombardamento della flotta inglese il 13 agosto 1708 con un quadrilatero fortificato in secondo piano, riservando ben maggiore attenzione alle navi nemiche e alla ricchissima, baroccheggiante cornice che circonda la veduta. È certamente la veduta dal mare la più diffusa oltre che la più “naturale” con innumerevoli varianti per l’altezza del punto di vista, il taglio o i particolari ma tali da mettere sempre in evidenza l’altura del Castello dominante il resto dell’abitato e il mare con il contorno degli immancabili gabbiani e delle imbarcazioni che cambiano a seconda del periodo. Due esempi per tutti: la incisione di William Westall (1833) e il dipinto del finlandese Oskar Kleineh (che fu a Cagliari nel 1882), differenti soprattutto per la cinta fortificata nella prima e ormai demolita nel secondo. Tanto che anche la prima fotografia scattata da Vittorio Alinari ai primi del Novecento ripete il punto di vista che diviene rapidamente privilegiato rispetto ad altri. Fin dal 1854, però, la fotografia aveva cominciato a narrare la Sardegna grazie al lavoro di Edouard Delessert che, dopo un soggiorno di Sei settimane in Sardegna, aveva pubblicato quaranta vedute fotografiche, scattandone ben quattro soltanto a Milis con il Palazzo Boyl, la parrocchiale di San Sebastiano, la chiesa romanica di San Paolo e una strada del paese, dove un carro suggerisce un qualche segno di vita nonostante la mancanza totale di figure umane. *Abstract dell’intervento tenuto il 14 ottobre a Milis nel seminario di LAMAS e Sardegna Soprattutto “Materiali per un’urbanistica sostenibile” nella Tavola rotonda “Sardegna tra mito, realtà, narrazione”, introdotta e coordinata da Maria Antonietta Mongiu, a cui hanno partecipato Franco Masala Storico dell’architettura SardegnaSoprattutto Antioco Floris Docente di Linguaggi del Cinema, della Televisione e dei New Media Università di Cagliari Nicolò Migheli Sociologo Scrittore SardegnaSoprattutto Romano Cannas già Direttore Rai Sardegna
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