Catalogna, una crisi di sistema [di Joan Subirats]

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MicroMega 16 ottobre 2017. La tradizione politica vede nel conflitto il suo asse fondamentale. Di fatto, la democrazia è il sistema politico che ha assunto legittimità perché capace di garantire, in maniera pacifica, il confronto tra idee e interessi diversi, tra maggioranze e minoranze. In un sistema politico ragionevolmente organizzato, inteso come il quadro comune entro cui muoversi, la qualità della democrazia dipenderà dalla capacità di dissenso che è in grado di contenere senza recare danni alla convivenza civile.

La questione si complica quando, per qualsiasi motivo, uno o più degli attori che operano in questo quadro di riferimento comune, non si sentono inclusi nel sistema, non sentono riconosciute le proprie differenze e non vedono opportunità di difendere le proprie idee e valori. E così finiscono per percepire come oppressiva e asfissiante quella che fino a poco prima era vista come un’arena condivisa.

La Spagna, dal suo consolidamento come Stato contemporaneo, ha attraversato diverse crisi di questo tipo. Ciò che adesso ci preoccupa non è quindi un fenomeno completamente nuovo. Anzi, è ripetitivo. Non sembra ragionevole pensare che questa sia solo una conseguenza della resilienza protestataria di una delle parti, piuttosto è bene pensare in termini di responsabilità condivise e di problemi interni alla concezione di base del sistema.

Non ci servono soluzioni o esperienze utilizzate in passato. Siamo ancora intrappolati negli schemi (westfaliani) del XIX e del XX secolo. E questi schemi servono sempre meno a manovrare nel grande scenario delle interdipendenze incrociate che caratterizzano la globalizzazione e il grande cambiamento tecnologico.

Alcuni mesi fa, ricevendo il Premio Diario Madrid, la direttrice del Guardian, Katherine Winer, ha espresso il suo totale scetticismo sulle possibilità reali di una Brexit, e i fatti le stanno dando ragione. Le ragioni risiedono nell’interdipendenza irreversibile che si è generata in Europa tra imprese, entità di tutti tipi, dinamiche sociali, familiari e comunitarie. Non è possibile sbrogliare la matassa senza generare enormi danni collaterali. L’Europa è già un insieme di persone e gruppi molto più interconnessi tra loro di quanto la debole e fragile sovrastruttura politica mostri.

Se questo discorso è vero per tutta l’Europa, perché non dovrebbe valere nel caso della Spagna e della Catalogna?

Ciò che probabilmente ha riunito, martedì scorso, centinaia e centinaia di giornalisti provenienti da tutto il mondo nelle strade vicine al Parlamento catalano è stata questa anomalia. Il fatto che un Paese che è totalmente “Europa” dal punto di vista sociale, economico, universitario, sindacale e istituzionale potrebbe “rompere” questi legami per tornare a ricostruirli subito dopo.

E che tutto questo stava accadendo non a causa dei disegni inspiegabili di un’élite cospirativa, ma (come mostrato il primo ottobre) dalla mobilitazione di centinaia di migliaia di persone in grado di organizzarsi pacificamente e in maniera esemplare. Qualcosa di inspiegabile è accaduto in Catalogna.

Abbiamo il problema di un sistema politico che non riesce ad adattarsi ai nuovi tempi. Ridurlo a una questione di sovranità è tremendamente schematico e semplicistico. Siamo di fronte a un problema di riconoscimento. Di mancanza di accettazione della diversità intrinseca di un Paese complesso. Che lo era già cento anni fa, e che ora lo è ancora di più. Chiunque voglia continuare a difendere una concezione di sovranità unica ed escludente, per quanto la si camuffi come “riforma costituzionale“, non ha capito niente di quello che sta succedendo e verso quale futuro stiamo andando.

Amador Fernández Savater, in uno dei tanti commenti apparsi sui fatti relativi alla Catalogna, ha dichiarato: “La lotta finale è l’espressione che definì l’emancipazione nel ventesimo secolo e che comportava la distruzione dell’altro (il nemico di classe o nazionale). L’emancipazione oggi si pone altre domande: come vivere insieme tra diversi? Cosa ci unisce, nonostante ciò che ci separa? Perché l’altro non scompare e questo mondo condiviso è l’unico che c’è”.

Questa è la nuova bandiera della sinistra emancipatrice. Quello che dobbiamo fare è riconoscere che l’uguaglianza e l’omogeneità non sono la stessa cosa. Che dobbiamo porre la diversità nella nostra scala centrale dei valori. Che siamo condannati a vivere insieme, ma  riconoscendo la diversità degli altri e prendendoci cura delle nostre interdipendenze. E solo allora potremo affrontare il dibattito chiave delle sovranità concrete e reali che ci sfidano e incalzano, giorno dopo giorno e da vicino.

*elpais.com

One Comment

  1. ToreFois

    La interconnessione c’è sempre stata. Semmai, a un certo punto in poi della storia si sono create le divisioni nazionalistiche. Le divisioni dinastiche, con relativi territori, sono diventate le divisioni fra le popolazioni. Gli interessi dei regnanti sono diventati anche quelli dei sudditi. La creazione delle lingue nazionali e man mano la messa a parte di quelle locali interne e il sentirsi tutt’uno con lo Stato, promosso a Nazione, è stata una conseguenza ulteriore. Oggi, siamo a livelli schizofrenici. Il sentirsi facenti parti di una Nazione è molto più facile, visto il condizionamento mediatico che rende tutto facile questo, ma allo stesso tempo gli Stati non sono entità completamente autonome come nei tempi andati, in tempi di globalizzazione finanziaria ed economica. Certe volte penso se per caso l’Europa, piuttosto che un progetto in via di realizzazione non sia un destino subito.

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