Intervista a Rosanna Rossi [di Carla Deplano]
Rosanna Rossi è nata nel 1937 a Cagliari dove vive e lavora. Compiuti gli studi artistici a Roma, rientra nell’isola nel 1958 per fare le prime esperienze all’interno di Studio 58, basate su una figurazione espressiva, alterata da suggestioni materiche. Nel decennio successivo, la sua ricerca si orienta verso un’astrazione che fa interagire l’uso del colore con i segni di matrice informale. Gli sviluppi successivi, pur con periodici sconfinamenti nell’ambito del ready-made, mantengono questa ambivalenza progettuale tra un ordine costruttivo di ascendenza concreta e soluzioni materico-espressive dell’astrazione neoinformale. Dal 1970 inizia ad occuparsi di installazioni permanenti in spazi pubblici. In parallelo al proprio linguaggio pittorico identifica nuove possibilità espressive ottenute con materiali poveri, trovati, diversamente utilizzati. Docente al liceo artistico dal 1968 al 1983, ha insegnato in vari corsi di specializzazione e dal 1984 al 1990 all’Istituto Europeo di Design. Da dove origina la tua arte e come nascono le tue opere? Dall’infanzia, come penso per tutti i bambini che hanno la necessità di comunicare. D’altra parte, sia nell’esperienza didattica che nella vita quotidiana delle mie figlie ho sempre constatato l’importanza della possibilità di esprimersi con una matita in qualsiasi modo. Fin da piccola i miei disegni suscitavano l’ammirazione dei miei genitori: ho sempre avuto delle agevolazioni da parte di mio padre, che mi stimolava e aveva fiducia in me, tanto che mi mandava a lezione di pittura da una suora – come si usava allora – dove avevo imparato a stendere la vernice sui quadri usando il bianco d’uovo. I miei primi lavori erano di tipo figurativo. L’elemento di rottura che mi ha spinto al cambiamento, all’inizio degli anni ’60, è stato un mio alunno dell’ospedale psichiatrico di Cagliari in cui insegnavo pittura su invito dell’amico professore Hrayr Terzian. Ricordo che quando chiesi al paziente perché non avesse voglia di dipingere lui mi rispose: “Apra la finestra: si ricorda quell’albero bellissimo che lei dipinse proprio la settimana scorsa”? e affacciatosi continuò “vede, è qui, c’è: perché lo devo disegnare” ? Questo fatto ha determinato una svolta nel mio modo di guardare il mondo: ho cominciato a percepire la realtà in forme geometriche. Mutatis mutandis ricorda l’impatto della fotografia sulla sperimentazione impressionista che prende le distanze dalla resa oggettiva del reale per mezzo di una macchina, quanto dalla tecnè accademica di tipo naturalistico-mimetico. Esatto. Esempi di astrazione ne avevo tanti, ma era il mio cervello che fino ad allora non recepiva la qualità della costruzione geometrica: mi sembrava più importante affidarmi all’espressività che non ad una qualità lontana ed altra che ti facesse vedere lo spazio. Questo l’ho capito in un volo aereo in America in cui le distanze da terra erano enormi ma in cui, nondimeno, potevo percepire nelle coste del Labrador le tracce del passaggio di uomini e animali impresse sul suolo. Impronte di piedi e zoccoli che mi hanno fatto comprendere in questa esperienza l’importanza del ritmo. La spazialità, invece, l’ho compresa attraverso la lezione di grandi maestri come Raffaello e Michelangelo, che avevano un valore di spazialità e distanza particolare, pur legato al diktat della scoperta della prospettiva. Come e quando hai iniziato a vederti come un’artista? Fu mia mamma a suggerirmi di firmare col mio nome per intero, mentre fino a 17 anni mi firmavo come R. Rossi. Portò i miei quadri in una galleria che allora si trovava nel portico di S. Antonio, a Cagliari, e fu in questa mia prima mostra personale che mi percepii come artista ed iniziai a firmare i quadri come Rosanna Rossi: con una nuova consapevolezza del valore dell’artista che non ha solo un sesso, ma anche un cuore, una pancia, un’individualità ed una personalità propria. Cosa significa essere pittori oggi? Alcuni artisti giovani mi piacciono, in altri vedo grande ignoranza. Ritengo che non sia semplicemente una scuola a darti la possibilità di diventare un artista. Per me non è stato così: mi ha formato ed è stata determinante. Ci sono alcuni che imparano comunque come autodidatti, ma in tanti casi ciò che vedo intorno mi dà la sensazione di sporco e io sono votata alla bellezza, al nitore, alla difficoltà della pulizia. Proprio perché anche nella pulizia della linea si scopre la personalità dell’individuo che l’ha tracciata. Mi sono sempre ribellata di fronte a chi riteneva Beardsley un formalista perché era un floreale e aveva un bel segno: per come la vedo io non raccontava la vita carnale, la storia della propria esistenza. Oggi nei lavori che solitamente osservo è un po’ come se fosse lo spazio a chiederti: “dipingimi, mettimi un colore” per essere riempito da forme che non mi sembrano essere molto pensate e che difettano di quel rigore che io perseguo. Mirò giocava, così come ho giocato io o gioca un giovane d’oggi, ma sempre seguendo il discorso dell’equilibrio, del peso: perché il nostro occhio e il nostro corpo seguono ritmicamente quello che stiamo facendo e allora il mancante lo si avverte e ci si prepara a camuffarlo, a completarlo, a nasconderlo o a riprodurlo. Una volta un allievo mi chiese perché insistessi sempre sull’equilibrio di fronte all’inesorabile disequilibrio del mondo. Questo è tanto vero quanto il fatto che lo cerco proprio per combatterlo. Di fatto, è un dato tangibile che se io mi azzoppo ho bisogno di una stampella, e cosa è una stampella se non la ricerca di un equilibrio? Anche se non si è capaci di nuotare secondo uno determinato stile, si impara ad usare il corpo assecondando un movimento che permetta di stare a galla e di non affogare. Questo è già, per me, un segno della ricerca di equilibrio che parte da dati formali o da dati reali e molto concreti. Definisci la tua arte. Mi permetti di non rispondere a questa domanda, specificando che non voglio rispondere?
Quale impressione suscitano in te i tuoi lavori? Un’impressione di grande impegno che arriva fino allo sfinimento. E un’impressione di tensione, dovuta a qualunque suono o voce fuori registro che mi deconcentra nel momento in cui ho deciso di apprestarmi a lavori difficili, perché non si può correggere un acquerello o un olio come li faccio io: quello che è sbagliato resta tale e la tensione è la prima cosa cui tendo quando lavoro. Che cos’è per te il colore? Il colore è gioia e dolore. Penso ai Giapponesi che non hanno una definizione cromatica, ma la affidano alla natura, dove per loro “scuro” è il fondo del mare in cui le alghe si mescolano con l’acqua e i pesci. Il colore può essere materia, però può anche essere una costruzione intelligente dovuta fondamentalmente a delle formule che ti trascini dietro studiandole. Quant’è vero che le studi perché qualcuno le ha codificate in un certo modo. Lo studio del colore nato con gli Impressionisti e Chevreul e l’impatto con la fotografia sono di per sé importanti se parlo di un colore, sia esso il blu o l’azzurro; ma se io parlo del blu senza affiancargli il suo complementare, questo non parlerà mai, non canterà: ognuno ha bisogno della propria complementarietà. Il colore mi ha sempre meravigliato per forza della sua emotività e della sua espressività. Sono stati effettuati studi scientifici e tecnici sul colore riguardo al mio lavoro, così come sulle tecniche di vendita per l’arredo interno di case, uffici pubblici e ospedali. Io mi ritrovo nel giallo, che è un colore difficile da capire e ti confonde, ma anche perché è il più vicino al bianco: quello che ti dà più luce, in senso generale. Quanto conta la dimensione del viaggio nella tua esperienza artistica ed umana e come ha ispirato la serialità che caratterizza le tue opere? Tutti i viaggi sono stati formativi e estremamente arricchenti, ma in Iran la dimensione del viaggio è stata travolgente. In Tunisia osservavo il sorgere del sole da una prospettiva diversa rispetto a quella cui ero abituata in Sardegna, dove mi appariva dal mare. Ho scoperto in questi due posti il valore dello spazio attraverso l’immensità delle forme scultoree delle vestigia romane di cui andavo alla ricerca. In Siria la vista della fuoriuscita del petrolio dalle fessure della terra mi dava una sensazione di terribilità e al tempo stesso di immensità, laddove veniva fuori dal profondo qualcosa che poi si rendeva visibile agli occhi. Questa immagine ha prodotto appunti di viaggio che si sono concretizzati in quei paesaggi metropolitani e naturali realizzati con le bituminose. Non ho lasciato, peraltro, che il bitume sopravanzasse sul valore compositivo, ma essendo fatto di materia l’ho mescolato insieme ad altre materie giocando sempre sui ritmi, sulle dimensioni, sulla granulosità ovvero sulla levigatezza dell’immagine. La serialità del segno c’è stata da sempre, mentre in un secondo momento è venuta fuori anche la serialità della forma. La prima è la ripetizione di un ritmo che si scandisce attraverso un piccolo pennello con la densità e la diluizione del colore in un processo fluido che ricorda, in qualche modo, il movimento degli spermatozoi alla ricerca dell’ovulo da fecondare. In questo sono stata certamente ispirata dalle immagini satellitari della Terra, che mi hanno fatto pensare di poter comunicare attraverso un linguaggio segnico universale con forme di vita extraterrestri. I miei segni sono nel mondo, nella traccia che vediamo nell’allungamento delle fronde di un albero, come nel movimento delle onde del mare. Ciò che mi ha affascinato e mi ha fatto pervenire alla forma seriale partendo dal segno è stato proprio questo pensiero lontano nel tempo e nello spazio. Lavori quotidianamente ed incessantemente: in che direzione sta andando ora la tua ricerca? Potresti delineare un’evoluzione estetica del tuo percorso artistico dagli esordi ad oggi? Osservando il mio lavoro dai primordi non avrei mai pensato di giungere a delle piccole linee. Sono arrivata ad essere zen. Per quanto riguarda il secondo punto rimando a te la critica artistica. Ti sei liberata di ogni orpello? Esattamente. Mi sono resa conto che non poteva essere esclusivo appannaggio del neoplatonismo michelangiolesco, ma che dovesse riguardare qualsiasi artista. Chiunque dovrebbe imparare a togliere, perché il di più è un orpello: qualcosa che stona e fa squilibrare il tutto. Togliere significa svelare, mentre aggiungere significa coprire e le due cose insieme non si conciliano. Io desidero svelare, non coprire. Un po’ come dovrebbe avvenire in uno scavo archeologico che si rispetti … Quale può essere il ruolo dell’arte nella società contemporanea iper tecnologica, che sembra sempre più disumanizzata e privata di sensibilità? Io mi auto-produco e mi auto-commissiono le opere, ma se l’arte non ha la possibilità di essere fruita e goduta, da sola non parla, non riluce: è una tela morta, una massa inerte che non comunica nulla. Mi rendo conto di avere a disposizione una tecnologia che è mancata a quanti mi hanno preceduto nelle epoche passate e di poter quindi beneficiare di una risorsa sconosciuta fino a non troppo tempo fa. Ma anche se mia nipote dice che sono una nonna iper tecnologica perché uso il computer – in maniera peraltro molto limitata e settoriale – se pure è possibile che altri comunichino in maniera emozionale avvalendosi di una super tecnologia, io invece mi permetto di combatterla attraverso l’impiego di elementi molto materiali e manuali. Certamente l’arte può dare un grande insegnamento morale ed etico, quant’è vero che bisogna essere recettivi: avere un cuore, un cervello, una cultura e un’intelligenza per predisporsi all’ascolto e alla comprensione. Occorre studiare, approfondire le ricerche, relazionarsi e mai auto referenziarsi sapendo di saper fare determinate cose. Abbiamo sempre da imparare. Mia suocera amava dire “ogni giorno sorge la luna e ogni giorno se ne impara una”. Ho imparato tanto dai miei alunni, e ogni volta ho provato stupore. Così dovrebbe essere l’arte, qualsiasi tipo di arte: anche una canzone. È possibile rintracciare nella tua eterogenea produzione artistica un filo conduttore, un denominatore comune? Il denominatore comune sono io, non per presunzione ma perché sono io che ho scelto il gioco e lo patisco personalmente. C’è un messaggio di fondo che di volta in volta vuoi comunicare con la tua arte in perenne metamorfosi? Quand’ero bambina ho vissuto e sofferto le esperienze della guerra in prima persona; con la mia arte vorrei poter offrire un contributo anche materiale. Recentemente ho proposto ad una banca l’acquisto per beneficenza di un mio quadro, il cui ricavato sarebbe stato devoluto agli ultimi alluvionati della Sardegna. Che cosa ti affascina di più della realtà? La geometria: quando osservo un volto vedo la sua fisionomia che si tramuta in triangoli, cerchi, rettangoli. Mi affascinano i bambini, il loro modo di camminare, e penso che quelle piccole gambe diventeranno grandi, conquisteranno il mondo e loro faranno valere se stessi o, almeno, io mi auguro tutte queste cose guardandoli. In parte mi hai già risposto: il modo di vedere e di osservare gli oggetti fisici – percepiti come cose in sé ovvero come fenomeni percettivi o stimoli sensoriali – differisce soggettivamente da persona a persona. Ci puoi descrivere come vedi tu un albero o un paesaggio? E come trasponi sulla tela la tua visione e le tue emozioni? Dell’albero ho studiato le dimensioni delle radici, l’equivalenza tra radici e fronda. Poi, però, quando mi trovo di fronte alla tela, dell’albero percepisco più che altro la spazialità e la corposità che l’albero medesimo mi crea con lo sfondo che taglia in un’orizzontalità. Se è in verticale, il mio corpo si trova in una indecisione. Trovo il paesaggio meno interessante, perché mi ha sempre attirato la verticalità, la salita … ecco mi piace la montagna, non il mare con la sua orizzontalità. Quali sono stati i tuoi maestri e quali potrebbero essere i punti di riferimento attuali? Tutti sono considerabili maestri e, come ti dicevo, ho imparato tanto anche dai miei allievi. Ho indagato attentamente la differenza tra la pittura veneta e quella toscana, tra quella lombarda e quella romana, tra la francese e l’italiana, la belga e la spagnola e tutti sono sempre stati per me grandi maestri. Quando studiavo, da ragazza, c’è stato un momento in cui mi sono ispirata a Zurbaràn. Ovviamente anche tutti gli artisti astratti miei contemporanei sono stati punti di riferimento imprescindibili nonché compagni di viaggio. Come è cambiato, in breve, il mondo delle gallerie, delle curatele e del mercato dell’arte in Sardegna dagli anni ‘50 ad oggi? È spaventoso. Non abbiamo più gallerie, ma luoghi non deputati in cui ci si improvvisa curatori di una mostra perché noi, artisti e curatori, siamo abituati ad avere un luogo specifico che può non essere quello proprio del museo. L’installazione, ad esempio, può essere pensata all’esterno ma non può certamente prescindere da un collegamento con ciò che la circonda. Mentre lo spazio interno a Cagliari è molto cambiato: si va dal bar alla boutique, dalla libreria al piccolo buco. In effetti, anche quando ho iniziato io, facevo delle mostre insieme a Primo Pantoli, Mirella Mibelli e Gaetano Brundu da Franz l’ottico. C’è stato peraltro un momento, quando c’e stata Angela Grilletti Migliavacca, in cui si è creduto che le gallerie potessero finalmente intraprendere un nuovo corso, ma con lei è morto tutto il sistema e non c’è stato nessuno in grado di raccoglierne l’eredità e l’insegnamento. A Cagliari la galleria più importante è stata la sua Duchamp ed è lei che ha portato artisti del calibro di Melotti, Turcato o Fontana, che negli anni ’70 e ’80 erano dei punti di riferimento fondamentali, anche se forse non c’è stata una buona recezione. Oggi mi sembra di navigare nel buio. Devo dire però, che ho avuto sempre disponibilità da parte di qualsiasi galleria e che i curatori sono miei amici, che amo perché loro, come me, amano l’arte. *Nella foto l’opera Cannonau, 2007.
Le opere e l’attività artistica di Rosanna Rossi sono consultabili presso l’Archivio Multimediale d’Artista (ama)
https://it-it.facebook.com/pages/ama-Archivio-Multimediale-dArtista/263696613686494 MOSTRE PERSONALI2012 “Rashomon”, Chiesa del Santo Sepolcro; Spazio Hemingway; Spazio (In)Visibile; Spazio P; Galleria La Bacheca – Cagliari
MOSTRE COLLETTIVE
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Rosanna Rossi – AMA Archivio Multimediale d’Artista
http://www.albertomassidda.com/datart/artista.php?id=1