Nella corrida catalana il toro è ferito ma il torero è malconcio [di Nicolò Migheli]
Per chi segue da anni le vicende catalane la dichiarazione di indipendenza del 27 di ottobre non desta meraviglia; conosce che essa è il frutto di un percorso ultradecennale dove non sono solo i diritti di una nazione senza stato ad essere in gioco, ma il desiderio di costruire una società più giusta, più radicata nelle istanze popolari. Un empowerment individuale e sociale, un termine che in italiano non ha un corrispondente ma in catalano e sardo sì: enpoderament, apoderamentu. Una necessità di democrazia partecipativa che allarghi la democrazia, che la riporti al cittadino, che in questo modo si riprende il potere di decisione e di influenza sulle grandi scelte. Non capire che la rottura catalana è soprattutto questo, significa non riuscire a cogliere le esigenze profonde che animano la società europea contemporanea. Non sorprende neanche l’atteggiamento di Rajoy, del Senato spagnolo e di tutta quella classe dirigente. Molti editorialisti spagnoli hanno ricordato la celebre frase di Giulio Andreotti che accusava la politica spagnola di mancanza di finezza. A loro mancano i bizantinismi democristiani e il machiavellismo luciferino del divo Giulio; sono nelle loro decisioni chiari e conseguenti, rispondono ad impulsi passionali più che alla mediazione. Il 27 mattina Carles Puigdemont per evitare il 155 era disposto a indire elezioni regionali catalane per il 20 di dicembre. Il leader catalano ammetteva la sconfitta, accusato di tradimento dai suoi e nelle piazze, contava sulla mediazione dei baschi. Invece la risposta della Moncloa è stata negativa. Si è deciso di applicare quell’articolo costituzionale nella forma più dura. Per le classi dirigenti post-franchiste la visione della politica è assimilabile alla corrida, dove tertium non datur. Uno dei due contendenti deve uscire morto dall’arena: il toro catalano o il torero Rajoy. Una corrida che si nutre di veroniche e di danza, che sembra elegante ma non lo è, più assimilabile ad un encierro, dove centinaia di persone conducono i tori all’epilogo finale. Rajoy crede di mangiarsi i granelli e la coda dell’indipendentismo catalano in una taverna dell’arena di Las Ventas ma non sarà così. Eppure la sensazione che si prova è quella di un Rajoy che guida il gioco, che porta la Generalitat e tutto il movimento catalano verso la staccionata in modo di poterli colpire definitivamente. Sbarazzarsi per sempre di quello che loro considerano un problema ben più grave dell’indipendenza: una possibilità che le classi popolari spagnole abbiano il diritto a decidere, della monarchia ad esempio. Lo strappo catalano è stato doppio, non solo l’indipendenza, ma la repubblica: forma statale sperimentata due volte in Spagna e due volte repressa, l’ultima al prezzo di una guerra civile sanguinosissima. L’altra sensazione è che Carles Puigdemont, benché indipendentista convinto, non intendesse portare subito il procés alle estreme conseguenze, ha sempre sperato in una trattativa con Madrid che non c’è stata. Se le altre volte la repubblica catalana era pensata dentro uno stato federale spagnolo, ora è un addio. Rajoy applica il 155 ed assume direttamente la presidenza in coppia con la vice premier Soraya Sáenz de Santamaria. Il primo atto: il sollevamento dall’incarico di tutto il Govern catalano e la sostituzione del responsabile politico dei Mossos de Esquadra; poi l’indizione di elezioni autonomiste per il 21 di dicembre. La prima domanda che viene in mente, i partiti indipendentisti parteciperanno ad una consultazione indetta da uno stato che considerano straniero? E in tutti i casi come spera Rajoy di condurre alla normalità – lui probabilmente intende per normale, un governo PP, cosa mai avvenuta da quelle parti- un paese percorso profondamente da una separazione che si attesta sul 50%. Allo stesso tempo come farà la Repubblica Catalana a governare con gli stessi numeri, senza che venga riconosciuta internazionalmente? Già l’accesso all’Onu sembra impossibile. Usa, GB e Francia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto, sono contrari e riconoscono la Catalogna come territorio spagnolo, così la Ue. Passata l’euforia è il momento della realpolitik, ecco perché oggi il toro è ferito. Anche il torero è ferito, perché presto si accorgerà di aver conseguito una vittoria di Pirro. Se poi la Procura di Stato procederà all’arresto degli indipendentisti spagnoli, allo scioglimento dei loro partiti, potrebbe essere il matador a rimanere incornato sulla sabbia. Davanti a questi fatti però sia l’Unione Europea che i cittadini non possono più tacere. In Spagna sotto lo scudo della legalità si stanno consumando delitti contro la democrazia e la pacifica convivenza. Oggi quel paese è l’unico d’Europa occidentale ad avere due prigionieri politici senza processo ed altri potrebbero seguire. Il bisogno di apoderamentu non scomparirà né in Catalogna né in Europa a seguito della repressione post-franchista. Se pensate che la gente sia disposta a sacrificare le proprie passioni per i propri interessi, vi sbagliate. Lo diceva il sociologo francese Raymond Aron [Citato da Roberto Toscano su La Repubblica del 28/10/17]. Se poi le passioni sono il bisogno di essere cittadinanza completa contro chi agisce per renderci spettatori di decisioni imposte, significa che quello scontro diventa vitale per la soggettività di tutti. Ecco perché tanta ostilità verso il procés catalano e verso ogni forma politica che intenda cambiare lo status quo. Una sfida che riguarda ognuno di noi.
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