Fotografia. Lo sguardo “altro” di Alessandra Chemollo [di Elena Franco]

Chemollo

Il Giornale dell’Architettura on line 2 novembre 2017. In trent’anni di carriera l’obiettivo di Alessandra Chemollo ha saputo spaziare tra architettura storica, contemporanea e territorio antropizzato, conciliando progetti di ricerca e rapporto con la committenza. Le abbiamo chiesto un’ampia riflessione sulla relazione tra architettura e fotografia nel nostro presente, che necessariamente interseca gli aspetti etici della professione (da riscoprire in un panorama che predilige il consumo di immagini), la sua utilità e il suo valore d’indagine che spesso scaturisce da progetti collettivi e indipendenti.

La fotografa veneziana riflette su ruolo e valori della professione in rapporto alla rappresentazione dell’opera architettonica e del paesaggio antropizzato. Uno sguardo altro che può rivelarsi utile per committenza e società civile.

Ha senso, in uno scenario in continua evoluzione, dove l’immagine ha assunto un ruolo preponderante nella comunicazione e nella creazione di relazioni, la visione d’autore? È ancora una necessità?

Per rispondere a questa domanda occorre fare un passo indietro e chiedersi in che cosa consista il mestiere del fotografo, certamente meno definibile rispetto ad altri. Nella mia trentennale esperienza mi è capitato spesso di trovare qualcuno che si improvvisava: in fondo che cosa ci vuole a premere un pulsante per attivare una macchina fotografica? Eppure, per quanto la competenza del fotografo sia di fatto intangibile, quando incontriamo una buona fotografia molto spesso ci sentiamo “tirati dentro” ad una visione, qualcuno è capace di vedere diversamente qualcosa e ci permette di guardare con lui. Non è poco.

Ci vogliono anni di allenamento, un po’ come accade nella storia con cui Calvino conclude la lezione sulla lentezza delle sue Lezioni Americane. Certo oltre ai maestri che nascono con doti che coltivano per lungo tempo sarebbe importante si alzasse il livello della cultura visiva in generale: il pensiero visivo andrebbe stimolato, costruito, organizzato. Allora saremmo un po’ meno succubi di tutte le cose che ci vendono come reali: saremmo tutti un po’ più capaci di distinguere l’oggetto rappresentato dallo sguardo che veicola quell’oggetto. Chissà, forse saremmo anche più capaci di riconoscere un’immagine d’autore in grado di abbreviarci il percorso a delle intuizioni importanti che possono aprire nuove visioni della realtà.

Possiamo dunque parlare di utilità della fotografia? La fotografia può essere considerata un valore nella realizzazione di processi urbani e territoriali e, al contempo, si può riconoscere un valore alla fotografia? Ci sono dei progetti che ritiene significativi in questo senso nel suo percorso come autrice?

Credo che il ruolo dell’autore sia molto cambiato in questi ultimi vent’anni. Quando ho cominciato a lavorare come fotografa, circa trent’anni fa, la fotografia che rappresentava l’architettura era colta, con ampi spazi interpretativi. Il fotografo aveva spesso una cifra personale ed attingeva a codici di rappresentazione mutuati da vari ambiti artistici.

Ma questo spazio interpretativo era già a suo modo normato: in quanto interprete del pensiero di un altro dato (la forma di un edificio è già di per se stessa una rappresentazione) l’autorialità del fotografo aveva codici rigorosi di relazione con il soggetto, il punto di vista doveva pur sempre essere funzionale a meglio comprendere l’opera. Molto più libera invece l’interpretazione per paesaggi antropizzati, considerata quasi un elemento di ordine nel caos generato dalle sovrapposizioni di pensieri molto spesso non in dialogo tra loro.

Nell’evoluzione di questi ultimi vent’anni, se da una parte si è ristretto il campo interpretativo dell’immagine di architettura a favore di un’immagine che più che indagare sembra voler promuovere gli edifici che rappresenta, dall’altro la fotografia di paesaggio, privata di una committenza pubblica capace di garantirne lo status di ricerca, ha restituito sempre più un’immagine veicolabile nelle gallerie d’arte, un’immagine estetica che molto spesso diviene autoreferenziale, in cui la restituzione dell’oggetto viene sacrificata in nome di una malintesa autorialità.

Più recentemente alcuni fotografi, perlopiù appartenenti alle nuove generazioni, hanno sentito la necessità di superare questo limite estetizzante dell’immagine di paesaggio, recuperando i suoi valori di indagine. Hanno fondato collettivi che hanno realizzato ampie campagne in un regime di autocommittenza e confronto, sostenuti in buona parte dalle nuove economie di crowdfounding.

Pensiamo alla mostra ATLANTE.IT curata da Massimo Sordi e Stefania Rössl per il SIFEST del 2014, che ha saputo mettere insieme tutte queste sinergie, progetti sviluppati incredibilmente nello stesso periodo da gruppi di fotografi sorti in diverse parti d’Italia, progetti che sembrano generati dalla stessa regola di necessità, a prescindere dalla regione di appartenenza. Anch’io ho lavorato e lavoro in questa direzione dal 2008, mettendo insieme progetti collettivi in cui tendo a non figurare, che hanno indagato territori complessi quali la Sardegna, il Veneto e L’Aquila post-sisma.

Si tratta di inventare un nuovo modo di fare fotografia, che permetta di colmare quell’enorme lacuna tra una fotografia colta e una fotografia “di gattini”, che occupa i due estremi che nel mondo del cinema corrispondono ai film svedesi d’avanguardia da un lato e ai cinepanettoni dall’altro, come ha recentemente sintetizzato con lodevole ironia Roberto Tomesani. Una fotografia, insomma, capace di farci guardare con altri occhi i territori in cui viviamo, e in cui un nuovo sguardo dei cittadini può essere il primo passo per una loro riqualificazione.

Infine, partendo dai suoi ultimi incarichi, mi piacerebbe evidenziare come sia possibile conciliare i progetti autonomamente prodotti con il lavoro professionale, riflettendo anche sull’orientamento professionale che la pratica della fotografia di architettura può assumere e sul suo ruolo in relazione alla progettazione

Fotografare quasi ogni giorno ha modificato il modo con cui mi approccio al mondo. Mi piace quando mi fa dimenticare chi sono, cercando di trovare una forma che permetta di aderire il più possibile a quanto sto fotografando. Certamente alcuni progetti sono più entusiasmanti: la stratificazione di senso che emerge in alcuni casi è decisamente più ricca di livelli interpretativi che in altri.

Il lavoro sull’architettura è un lavoro di decodificazione, è importante dotarsi di strumenti ma rimane fondamentale il rapporto con la committenza. Ci sono architetti che vedono nel racconto fotografico l’esito del loro processo progettuale, che vogliono rigidamente controllare, e architetti che ritengono che lo sguardo che il fotografo aggiunge, in una condizione di autonomia, possa arricchire il loro pensiero, rivelando degli atti inconsci che si rivelano ad uno sguardo altro. Per questo motivo prediligo lavorare con architetti, quali ad esempio lo studio APML (Alessandro Pedron e Maria Pia La Tegola), disponibili ad entrare in sinergia con uno sguardo autonomo, che credono che quello che un fotografo può rendere visibile sia un arricchimento. Mi sento allora libera nella mia interpretazione.

Poi però, a fine giornata mi capita anche di chiedermi se mi basta. Quando mi guardo attorno in molti casi provo sconforto e mi dispiace vedere che la regola del profitto appiattisce altri valori che sarebbe interessante rivalutare. Allora forse il mio fare fotografia può essere utile a far vedere la bellezza delle cose da valorizzare, così come a evidenziare l’incongruenza e la violenza di altre ancora che noi tutti ci siamo abituati a subire. Dopotutto condividere uno sguardo equivale a condividere un pensiero nella sua forma emotiva.

*Foto di Alessandra Chemollo: Serie di foto commissionate dalla Regione Sardegna nel 2008

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