Il concetto di patria ha fatto solo danni. Cominciamo a parlare di Matria [di Michela Murgia]

matria

L’Espesso15 novembre 2017. Per sconfiggere i nazionalismi serve una nuova categoria, che sconfigga alla radice il maschilismo strettamente legato al concetto di patriottismo. La sfida della scrittrice.

Non c’è un’accezione amabile della patria, e se c’è è forse proprio quella che dovremmo temere di più. La terra dei padri, questo significa patria, è un concetto letterario le cui ambiguità è utile tenere ancora presenti, se non altro perché dimenticarle ci ha dato lezioni amare per tutto il ’900.

La prima ambiguità è nelle parole stesse: la patria non è una terra, ma una percezione di appartenenza, un concetto astratto, tutto culturale, che si impara dentro alle relazioni sociali in cui si nasce e dentro alle quali, riconosciuti, ci si riconosce. In un mondo dove i rapporti di confine tra le terre sono cambiati mille volte e le culture si sono altrettanto intrecciate, dire “la mia patria” riferendosi a una terra significa creare di sé un falso logico, oltreché geologico.

La seconda ambiguità è in quel plurale monogenitoriale, quel categorico “padri” che solleva simbolicamente dalle loro tombe un’infinita schiera di vecchi maschi dal cipiglio accusatorio rivolto alla generazione presente. Le madri nella parola patria non ci sono, benché per definizione siano sempre certe, né generano appartenenza, nonostante ce ne sia una sola per ognuno di noi. Non possono esserci perché nell’idea del patriottismo è innestata la convinzione profonda che la donna sia natura e l’uomo cultura, cioè che la madre generi perché è il suo destino e l’uomo riconosca la sua generazione per volontà e autorità, riordinando col suo nome il caso biologico di cui la donna è portatrice.

È in quanto estensione del maschile genitoriale che la patria è divenuta fonte del diritto di identità, perché è il riconoscimento di paternità che per secoli ci ha resi figli legittimi, né è un caso che le rivoluzioni culturali post psicanalisi si definissero anche come “uccisioni dei padri”. Gli apolidi dentro questa cornice si portano inevitabilmente addosso l’aura del figlio bastardo, gli espatriati per volontà sono sempre traditori della patria e gli emigrati economici hanno il dovere morale di coltivare e manifestare a chi è rimasto a casa un desiderio di ritorno, pena il passare per rinnegati.

E se per una volta – solo una, giusto per vedere l’effetto che fa – provassimo a uscire dalla linea di significati creata dal concetto di patria? Averlo caro del resto non ha alcuna attualità; appartiene a un mondo dove il diritto di sopraffazione e la disuguaglianza sociale ed economica erano voci non solo agenti, ma indiscutibilmente cogenti: per metterle in crisi ci sono volute rivoluzioni di pensiero prima ancora che di piazza, e quelle rivoluzioni ci hanno lasciato in eredità il dovere di fare un atto creativo nei confronti di tutte le categorie che non bastano più a raccontare la complessità in cui siamo.

E se proprio non è possibile uscire dalla percezione genitoriale dell’appartenenza collettiva – padre, ma anche l’ossimoro madre patria – potrebbe essere interessante cominciare a parlare di Matria.

La prima utilità di questo cambio di senso sarebbe immediata: ci costringerebbe a ripensare la cittadinanza così come la conosciamo. Legarla alla patria (e quindi alla paternità) ha infatti confermato solo le appartenenze che storicamente vengono dai padri: consanguineità e patrimonio, cioè ius sanguinis e ius soli, entrambe matrici squalificanti e divisive dello stare insieme.

Lo ius sanguinis è il principio di tutti i patriarcati e di conseguenza di tutti i nazionalismi, perché se il sangue genitoriale definisce la tua appartenenza allora non importa più chi sei, ma solo di chi sei. Il singolo non ha valore se non come estensione dell’identità collettiva. Chi difende lo ius sanguinis pretende che tutte le relazioni individuali siano subordinate alla relazione collettiva originaria, quella dell’essere sangue del sangue di un cittadino italiano.

Per questo non importa da quanti anni sei nato qui, se ci lavori, se ci sei cresciuto o ci sei andato a scuola: senza quell’atto d’origine non sei nella nostra genealogia sociale, sei nessuno. Con lo ius soli non va molto meglio e per questo la battaglia pur necessaria per ottenerlo anche in forma blanda è una battaglia di retrovia storica, già superata dalle esigenze del presente.

Il diritto del suolo ha fondato infatti gli imperialismi e le colonializzazioni, perché se è la terra che possiedi a darti l’identità, è legittimo e indispensabile accaparrarsene quanta più possibile, non importa come, e difendere quella che hai con ogni mezzo. Perché la terra ti definisca come proprio è infatti indispensabile che tu a tua volta la definisca come tua in modo non sindacabile, altrimenti chiunque ti porti via la terra ti porterebbe via anche l’identità. Paradossalmente si sono fatte più guerre per lo ius soli che per lo ius sanguinis, perché la terra, a differenza del sangue ricevuto una volta per tutte, è sempre a rischio di sottrazione.

Va da sé che fondare cittadinanza su questi principi – entrambi strutturali al concetto di patria – porta e ha portato già a tragedie diverse, tutte non augurabili. Pensarsi come Matria consente di sradicare questa prospettiva, perché la madre nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata. Simbolicamente intesa, la maternità è un’esperienza relazionale elementare, perché nutre e si prende cura.

Prima di suscitare timore, suscita amore. Prima di evocare autorità, evoca gratitudine. Nella prospettiva dell’appartenenza, il materno è uno spazio dove a legittimare l’esistenza e l’identità è quello che ti offrono, che è la matrice e non la conseguenza di ciò che poi offrirai tu. Non è strano che le persone che arrivano qui scappando dal proprio paese a volte possano dire: «Mi sento a casa».

Non è un esproprio, ma la prova che stanno ridefinendo la loro appartenenza dentro alle relazioni anche istituzionali che hanno incontrato. Lo slittamento semantico cambia la prospettiva, perché tra patria e matria c’è la stessa differenza che esiste tra una somma e una moltiplicazione: se la patria è il luogo che ti riconosce, la matria è quello in cui tu impari a riconoscere chiunque. Sarebbe un grosso errore pensare che solo uno dei due sia il luogo della politica.

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