Il 2014 sarà un anno di svolta?Analisi e prospettive dell’economia italiana [di Antonella Crescenzi]
Un anno, dodici mesi, è sicuramente un arco di tempo troppo limitato per poter valutare con efficacia lo stato e le prospettive dell’economia. Eppure, la storia insegna che a volte eventi imprevisti, unendosi a moti profondi e sotterranei della società, si catalizzano in un unico momento, imprimendo cesure e cambi di passo all’evoluzione dei fenomeni economici. Per rimanere negli ultimi cinquanta anni, possiamo, ad esempio, identificare alcuni “punti di svolta”: il 1971, con la sospensione della convertibilità dollaro-oro decretata dagli Stati Uniti che ha provocato l’abbandono degli accordi di Bretton Woods e del sistema dei cambi fissi; il 1973, con la guerra del petrolio che ha comportato l’inversione pressoché permanente delle ragioni di scambio tra paesi industrializzati e paesi produttori di materie prime; il 1989, con la caduta del Muro e la progressiva apertura economica dei mercati dell’Est; il 2002, con l’entrata in vigore dell’euro nei paesi aderenti all’Unione Economica e Monetaria dell’Unione europea; il 2008, con il fallimento della Lehman Brothers, innesco della Grande Crisi diffusasi dagli Stati Uniti a tutto il mondo, micidiale per l’Europa, di cui ha mostrato -e continua a mostrare- le gravi carenze istituzionali, drammatica per l’Italia, ancora avvolta nelle sue spire. Allora, ci domandiamo, il 2014 sarà un anno di svolta? Distinguiamo subito. Per l’economia mondiale, nel quadro di prospettive generali sostanzialmente positive, le novità sembrano essere due, entrambe legate a cambiamenti nella conduzione della politica monetaria di grandi paesi: negli Stati Uniti, la nomina di Janet Yellen a Presidente della Federal Reserve suscita grandi speranze in merito al tanto atteso riequilibrio tra gli eccessi della finanza creativa, una delle cause all’origine della Grande Crisi, e la debolezza dell’economia reale, in particolare dell’occupazione; in Giappone, la Abenomics (da Abe, l’attuale primo ministro giapponese e Economics, economia), già avviata con successo nel corso del 2013, potrebbe risollevare il paese dalla depressione economica che lo affligge da quasi venti anni attraverso l’utilizzo di una serie di strumenti, tra cui una politica monetaria tesa a creare inflazione, deprezzare lo yen e rilanciare le esportazioni. Queste novità potrebbero imprimere maggiore fiducia e più slancio alla crescita mondiale nel 2014, forse una vera svolta, anche se, occorre ricordarlo, ormai soggetti principali dell’economia globale sono, accanto a Stati Uniti, Giappone e Europa, i nuovi “competitors” (Cina, India, Russia, Brasile…). E al momento non sembra che in quei paesi siano in arrivo cambiamenti di policy così radicali. Per l’economia europea, le prospettive per il 2014 sono meno favorevoli: ai passi avanti compiuti a livello delle istituzioni comuni in tema di coordinamento delle politiche economiche, di Unione Bancaria e Vigilanza, di prevenzione delle crisi finanziarie, di strumentazione monetaria, si oppongono gli scetticismi e i ripiegamenti degli Stati nazionali, timorosi di arrivare troppo presto alla messa in comune dei singoli destini in quello unico del continente. In questo alternarsi di speranze e delusioni, in questa politica dei “piccoli passi” che sembra però aver perduto la “vision” e l’originaria ambizione dei Padri Fondatori, la crescita langue, la disoccupazione aumenta e i divari macroeconomici tra i paesi del Nord e del Sud dell’Europa si approfondiscono, rendendo così sempre più inadeguate le politiche fiscali (restrittive) e quelle monetarie (espansive) uniformemente applicate. In tale contesto, nel 2014 le novità potrebbero provenire dai risultati delle elezioni di maggio. I cittadini europei chiamati al voto vorranno gettare il cuore oltre l’ostacolo e puntare all’Unione politica, agli Stati Uniti d’Europa? Oppure, come i recenti sondaggi sembrano indicare, vinceranno la stanchezza e, in alcuni casi, il rancore? I cittadini europei vorranno rientrare nei propri confini nazionali e abbandonare l’euro, illudendosi di ritrovare così il perduto benessere? Oppure, i risultati saranno ambivalenti, confusi e lasceranno aperte le diverse opzioni, confermando l’attuale stallo politico? Difficile rispondere a questi interrogativi. Certamente, se le indicazioni provenienti dai sondaggi fossero avvalorate dal voto, il 2014 aprirebbe una fase nuova, molto difficile e persino rischiosa.Da più parti, si è persino evocato il fantasma del 1914: esattamente un secolo fa l’Europa, padrona del mondo, mostrò di non saper gestire la propria forza, dilaniandosi in una guerra fratricida. In ogni caso, diventerà necessario, dopo le elezioni, un cambiamento nella conduzione delle politiche economiche, con un allentamento, seppur limitato, dei vincoli di bilancio e un maggiore spazio per sviluppo e occupazione. In questa direzione, ad esempio, sembrano andare i “contratti (o accordi) di concorrenza”, un nuovo strumento che punta a scambiare flessibilità sui parametri del deficit con l’avvio di riforme. Per l’economia italiana, recentemente Confindustria, nel presentare il tradizionale Rapporto di previsione di fine anno, ha paragonato gli effetti della Grande Crisi a quelli conseguenti alle devastazioni della seconda guerra mondiale. Certo, sembra una esagerazione, ma… è difficile negare che l’economia italiana abbia sperimentato un netto ridimensionamento del suo apparato produttivo, con innumerevoli chiusure di impianti, fallimenti di imprese, riduzione delle ore effettivamente lavorate. La contrazione del credito, in particolare, e gli elevati premi per il rischio, che hanno tenuto alto il costo del denaro, hanno contribuito al calo degli investimenti e ridotto l’incentivo a investire in ricerca e sviluppo. Il Paese è diventato più fragile, anche sul fronte sociale. Riassumiamo con pochi numeri cosa è successo dall’inizio della crisi ad oggi (i dati si riferiscono al periodo compreso tra il terzo trimestre del 2007 e il terzo trimestre del 2013): l’Italia ha subito due recessioni, la prima nel biennio 2008-2009, con un calo cumulato del Pil del 7,2 per cento, la seconda nel biennio 2012-2013 con un calo del 4,8 per cento; in mezzo, il temporaneo recupero del 2010 e la quasi stagnazione del 2011; nel periodo complessivo il Pil è diminuito del 9,1 per cento; la produzione industriale si è ridotta di un quarto, tornando ai livelli del 1986; i livelli di occupazione sono crollati, sopratutto nell’industria in senso stretto e nelle costruzioni, con perdite, rispettivamente, di circa 800mila e 400mila unità di lavoro; i disoccupati hanno superato abbondantemente i tre milioni e, in rapporto alla forza lavoro, rappresentano il 12,5 per cento; il numero dei poveri è raddoppiato, pari a 4,8 milioni; lo squilibrio fra Centro-Nord e Mezzogiorno si è ampliato; il rapporto tra debito pubblico e Pil ha raggiunto il 130 per cento. I Governi che si sono succeduti in questi anni hanno agito sotto vincoli ben precisi: le regole europee, sempre più stringenti; il giudizio dei mercati finanziari, sempre più severo; l’eredità del passato (ovvero, quasi venti anni di bassa crescita e di mancate, o parziali, o sbagliate, riforme: dall’istruzione alla giustizia civile, dal federalismo alla sanità, dal welfare al lavoro…), perfettamente sintetizzata dall’elevato livello del debito pubblico, sempre più pesante; le difficoltà politiche e istituzionali, sempre più gravi. I risultati dell’azione di governo nell’affrontare la crisi sono stati quindi molto limitati. Certamente, non possiamo negare che il Paese sia uscito dall’emergenza finanziaria in cui si trovava alla fine del 2011, l’attuale livello dello spread BTP-BUND, sceso nei primi giorni del gennaio 2014 sotto i 200 punti base, lo conferma, ma il costo in termini sociali e di economia reale è stato altissimo. La fiducia delle famiglie e delle imprese, vero motore dello sviluppo, stenta a risalire. La società italiana sembra aver smarrito, almeno in alcune sue forti componenti, il senso del bene comune, l’idea del vivere civile, la volontà di “ricostruire”. Si, ricostruire, perché, come i drammatici dati sopra riportati ci hanno confermato, è una vera e propria guerra quella che abbiamo combattuto e che, forse, ora, ci stiamo finalmente lasciando alle spalle. Infatti, le più recenti previsioni di consenso indicano per il 2014 una ripresa dell’economia, anche se modesta. Dopo ben otto cali consecutivi, nel terzo trimestre del 2013 il Pil è rimasto stazionario! Un buon segnale, che sarà seguito, secondo gli usuali anticipatori del ciclo, da una crescita positiva nel quarto trimestre che poi dovrebbe protrarsi nell’anno in corso. Possiamo dire che questo ritorno della crescita previsto per il 2014 rappresenterà una svolta? Che una volta rimessa in moto l’economia dal buon andamento del commercio mondiale, torneranno a crescere come in una magia la produzione industriale, gli investimenti, i consumi, l’occupazione? Che il pericolo di una nuova recessione si è allontanato definitivamente? Assolutamente no! Ben altro è richiesto per poter parlare di svolta…Il coraggio di fare le riforme, poche, importanti, subito! Ricompattare il Paese intorno a una speranza! Questa sarebbe una svolta! Certo, si diceva all’inizio, dodici mesi sono pochi, ma potrebbero essere quelli giusti. Abbiamo visto che a politiche invariate le previsioni per il 2014 (e anche per gli anni successivi) indicano una crescita molto bassa, tra lo 0,5 e l’1 per cento, insufficiente per riassorbire la disoccupazione, ridurre le diseguaglianze, tenere in ordine i conti pubblici. Il sentiero per recuperare il terreno perduto negli anni della crisi è lungo, stretto e ripido. Per questa ragione, per invertire l’attuale processo di impoverimento del Paese, è necessario un salto di qualità, un cambio di passo: l’avvio di politiche innovative non produrrà, ovviamente, crescita nell’immediato, ma attiverà speranze, rimetterà in moto le iniziative, incoraggerà le sfide, tratterrà i nostri figli dall’andare a cercare un lavoro all’estero.Certo, non dobbiamo dimenticare che da più di un quarto di secolo una pesante redistribuzione del lavoro e del reddito tra le aree mondiali, favorita da successivi passaggi di testimone nell’avanzamento della frontiera tecnologica, sta conducendo ad una progressiva riduzione delle disuguaglianze tra paesi avanzati e paesi emergenti cui però si accompagna l’aumento delle disuguaglianze all’interno dei paesi avanzati. L’Italia, come d’altronde l’Europa (cosa altro sono, infatti, le difficoltà che bloccano e/o rallentano il processo di integrazione europea se non gli effetti di un tale sommovimento?), soffre di questo declino, che va però contrastato proprio con il varo di riforme radicali. *Economista, MISE. Direttivo SNOQ |