“C’è un Isola che riparte”? Sì, ma che continua ad andare nella direzione sbagliata: ecco perché i sardi si lamentano [di Vito Biolchini]
Diciottomila posti di lavoro in più in Sardegna? Se lo dice l’Istat e lo mette in prima pagina la Nuova Sardegna di oggi, io ci credo.
Ma credo anche a quei sardi che, a leggere la ricerca Ixé commissionata dalla Fondazione di Sardegna e presentata nei giorni scorsi a Cagliari, hanno una percezione della crisi che va oltre il mero dato statistico (il 57 per cento delle famiglie dichiara un disagio, un dato superiore di nove punti alla media italiana), al punto che il curatore della ricerca Roberto Weber, parla di un fenomeno di “vittimizzazione”. La Sardegna starebbe in pratica diventando in pratica come le altre regioni del sud: che si lamentano a prescindere, anche se i dati della loro economia registrano significativi risultati.
Purtroppo diciottomila posti di lavoro si guadagnano e si perdono nel giro di poco tempo, ma che la Sardegna sia una regione “mediana”, nettamente più ricca e meno in crisi di quelle del sud, è da anni un dato di fatto. Ma è un dato di fatto (che non può essere liquidato in maniera troppo semplicistica) anche il perdurante stato di insoddisfazione che pervade la società sarda. Allora, perché i sardi si lamentano quando invece, dati alla mano, dovrebbero essere ottimisti?
La ricerca è un mare magnum di cifre e spunti, ma insieme a quello della percezione della crisi non supportata da dati economici, ci sono altri due aspetti che meritano di essere sottolineati. Il primo riguarda il concetto di identità: il 51 degli isolani si sente innanzitutto sardo, mentre nel resto d’Italia l’identità locale è sentita preminente solo dal 15 per cento degli intervistati. Lo scarto è significativo e pone delle questioni non da poco alla società, alla politica ma anche banalmente ai partiti dell’autodeterminazione, incapaci di trasformare in consenso un dato così significativo. Cosa stanno sbagliando?
Di certo con questo elemento di autorappresentazione culturale tutti noi dobbiamo fare i conti. È l’annoso dibattito sull’identità che in molti vorrebbero sminuire o nascondere, ma che torna sempre prepotente e mette in difficoltà soprattutto la sinistra.
Il secondo dato riguarda invece il modello di sviluppo che secondo i sardi dovrebbe condurre l’isola fuori dalla crisi. Per gli intervistati dalla Ixè, il primo settore su cui bisognerebbe puntare è il turismo (85 per cento delle risposte), l’ultimo è l’industria (appena il 5 per cento).
È chiaro che non ci può essere sviluppo senza industria, ma l’industria a cui i sardi dicono no è evidentemente l’unica che hanno avuto modo di conoscere negli ultimi cinquant’anni: quella inquinante, perennemente in crisi, senza futuro: una industria “bugiarda”, per parafrasare il titolo di uno spettacolo andato in scena negli anni settanta. Che però politica, Confindustria e sindacati (nell’isola questi ultimi due soggetti propugnano lo stesso, identico modello di sviluppo) continuano incredibilmente a proporre.
Ecco allora spiegato il motivo, nonostante i dati positivi sull’occupazione, di tanta insoddisfazione. Altro che vittimismo: i sardi hanno capito bene quali sono le emergenze da affrontare (la scuola, i trasporti, il turismo) ma vedono una politica e una classe dirigente (Confindustria e Cgil in Sardegna hanno la stessa identica visione del modello di sviluppo) perseguire un modello sbagliato, sostanzialmente antitetico. E che si pone altre priorità, le persegue a dispetto anche di una opinione pubblica che chiede un deciso cambio di rotta.
Una svolta, che però all’orizzonte non si vede. Per cui è vero, come titola l’Unione Sarda di oggi, che “C’è un’Isola che riparte”: il problema è che continua andare nella direzione sbagliata. E i sardi questo lo hanno capito.
Post scriptum La ricerca Ixè è interessante e dovrebbe essere oggetto di una riflessione comune. Presenta però un limite: perché non è stata registrata anche la percezione che i sardi hanno dalla qualità della loro pubblica amministrazione? Forse da quel dato si sarebbero capite molte cose.
|
È evidente che percezione e realtà non possono essere elementi che si specchino fedelmente. È un dato naturale, tant’è che sia la politica che il marketing commerciale fanno levasulla percezione per offrire immagini alterate di una realtà che ama nascondersi.