Tre scenari politici per l’Italia del 2018 [di Michael Braun]
Internazionale 28 dicembre 2017. “Non mi va più di leggere il giornale”, si sfoga l’amica. Non ce l’ha però con la stampa, cartacea o online. Ce l’ha con le notizie. È una persona interessata alla politica, dal forte senso civico, che un tempo avremmo definito “impegnata”. Ma ora il suo sentimento dominante è uno solo: lo scoraggiamento. Uno scoraggiamento alimentato dai leader della politica mondiale – da Trump a Putin, da Erdoğan a Kim Jong-un – ma soprattutto dagli scenari della politica nazionale italiana. E chi se la sentirebbe di contraddirla? Il 2017, per l’Italia, è stato un anno strano. Finalmente il paese sembra essere uscito dalla crisi cominciata nel 2008. Dopo anni in cui il prodotto interno lordo (pil) è diminuito – con una perdita di 15 punti percentuali rispetto agli anni precedenti alla crisi – si è diffusa la sensazione che il paese stia risalendo la china. Il pil cresce di un insperato 1,5 per cento, aumentano i posti di lavoro, la bilancia commerciale è in attivo, trainata da molte industrie che hanno difeso o ritrovato la loro competitività sui mercati internazionali, crescono i consumi, si acquistano di nuovo macchine e case. Ma se l’economia finalmente ha ricominciato a tirare, la politica italiana si presenta sotto altri segni. Forse ricorderemo il 2017 come l’anno in cui la seconda repubblica, nata negli anni di Tangentopoli sulle ceneri della prima, si è avviata verso il suo definitivo tramonto. La notizia in sé non sarebbe poi così triste. Saranno pochi a rimpiangere vent’anni dominati da uno strambo bipolarismo. Da una parte l’accozzaglia del centrodestra guidata da Silvio Berlusconi, dall’altra quella del centrosinistra, un’armata Brancaleone tenuta insieme soprattutto dalla battaglia contro un avversario comune. Il vero dramma però è un altro: fra tramonti e resurrezioni non si intravede una via d’uscita, una terza repubblica che possa promettere ai cittadini governi più efficaci, stabili e onesti. Tramonti. Ma andiamo con ordine, cominciando dai tramonti, e in particolare da quello del Partito democratico e di Matteo Renzi, che in meno di quattro anni si è trasformato da astro nascente a stella cadente. Quando nel dicembre del 2013 conquistò la segreteria del Pd e nel febbraio 2014 la guida del governo, quando poi alle elezioni europee del 2014 raggiunse uno spettacolare 41 per cento, erano in tanti a vaticinare una nuova epoca, quella del renzismo, successiva al ventennio berlusconiano. Ma più che un’epoca, sembra sia stato un episodio della storia italiana. Renzi somiglia a quei personaggi che vincono il terno al lotto, ma poi si perdono il biglietto. Già sul finire del 2016 ha dovuto incassare due colpi durissimi, quello del referendum costituzionale perso e quello della bocciatura della legge elettorale – il cosiddetto Italicum – da parte della corte costituzionale. Senza legge elettorale maggioritaria e una maggioranza nel paese, il premier è sembrato invecchiato anzitempo, come un pugile suonato. Invece di invertire la rotta e cambiare il modus operandi – da quello sempre all’attacco a uno più dialogante – ha voluto rivendicare il 41 per cento al referendum costituzionale del dicembre 2016 come sicuro patrimonio elettorale del Pd e come sicura base per la riconquista dello scettro di presidente del consiglio. E ha voluto continuare a scontrarsi sia con i nemici interni – Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e Roberto Speranza – sia con quelli esterni, identificati nel Movimento 5 stelle (M5s). Così, per uscire dall’angolo in cui era finito nel 2016, ha pensato bene di assestare un uno-due-tre, che però non ha colpito gli altri, ma se stesso. Il primo colpo era la scissione del Pd. L’uscita delle truppe di D’Alema e Bersani dal partito più che subita sembrava salutata con favore da Renzi, convinto che quei voti persi a sinistra (a suo parere pochi) sarebbero poi stati riguadagnati ampiamenti al centro. I sondaggi di questi giorni ci dicono il contrario , e cioè che c’è stata una consistente perdita di consensi per il Pd. I democratici rischiano di essere spettatori di una contesa elettorale in cui arriveranno terzi Non contento di essersi liberato dell’opposizione interna, Renzi ha voluto ridimensionare i cinquestelle, congegnando – insieme a Berlusconi – una legge elettorale pensata per danneggiare il partito fondato da Beppe Grillo, grazie per esempio al “premio di coalizione”, inutile per il M5s, che notoriamente non stringe alleanze né prima né dopo il voto. Solo a legge elettorale varata, il Pd si è accorto che con ogni probabilità il primo a perderci sarà lui: la sua coalizione si è infatti liquefatta. La sinistra di Liberi e uguali correrà da sola. Mentre quel che resta degli alfaniani senza Alfano, dei pisapiani senza Pisapia, più le minuscole schegge di verdi, socialisti e radicali (neanche tutti) sembra una triste e ridicola riedizione dell’Ulivo che fu. Così, invece di battagliare con i grillini per la guida del paese, i democratici rischiano di essere spettatori di una contesa elettorale in cui arriveranno terzi, superati di gran lunga dal M5s e dalle truppe di Berlusconi, le uniche avvantaggiate da una legge elettorale fatta su loro misura. Il terzo colpo che Renzi ha voluto piazzare per dare il giusto brio alla campagna elettorale imminente è la commissione banche. Invece di starsene zitto, di contare sulla memoria corta dei cittadini – visto che il caso Banca Etruria è di due anni fa – il Pd ha ritirato fuori quella storia per far fare brutta figura alla Banca d’Italia e alla Consob, con il mirabolante risultato di far titolare tutti giornali sul coinvolgimento della sottosegretaria Maria Elena Boschi nella vicenda. Bel colpo di genio! A fine anno il Pd si trova così in discesa, anzi in caduta libera, non raggiungendo neanche i risultati, giudicati a suo tempo disastrosi, da Bersani nelle elezioni del febbraio 2013 (la famosa “non-vittoria”), diretto verso una disfatta alle elezioni del marzo 2018 da cui forse non si riprenderà più. Resurrezioni e aspirazioni. Chi invece si è ripreso alla grande, chi ricorderà il 2017 come un anno meraviglioso, è Silvio Berlusconi. Se Giulio Andreotti è stato la volpe della politica italiana, Berlusconi è il gatto dalle sette vite. Dimessosi miseramente da capo del governo nel novembre 2011, all’apice della crisi dell’euro, uscito di scena dopo la condanna per frode fiscale, che gli ha fatto abbandonare il senato e gli è valsa l’ineleggibilità alle prossime elezioni, in qualsiasi paese dell’Europa occidentale sarebbe fuori dai giochi politici per sempre. Ma non in Italia. Qui è tornato in auge, ironia della sorte, come “argine ai populisti”, come difensore dell’Europa unita, alleandosi con la Lega di Matteo Salvini, che intanto è diventata un partito sovranista in combutta con la leader populista francese Marine Le Pen e con i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Quel polo ormai è l’unico a poter sperare, raggiungendo il 40 per cento, di avere una maggioranza nel futuro parlamento. E l’Italia sarebbe punto e a capo. Fra la discesa di Renzi e l’ascesa di Berlusconi va notata la tenuta, anzi la crescita del M5s. Quel partito che non vuole essere trattato e raccontato come un partito tradizionale, ormai aspira a essere la forza politica più forte del paese. Ha contro quasi tutti i mezzi di informazione – situazione mai successa nell’Italia repubblicana – ma cresce nei consensi, arrivando ormai alla soglia del 30 percento. Se Beppe Sala, sindaco di Milano in quota Pd, è indagato, i giornali gli riservano un trafiletto nascosto tra le altre notizie, ma se Virginia Raggi rischia un’indagine i giornali le riservano titoli in prima pagina. Ogni argomento è buono contro i grillini,persino “spelacchio”, com’è stato chiamato l’albero di Natale messo dal comune di Roma a piazza Venezia. Tutti danno addosso ai grillini – e nel loro piccolo una mano la danno anche loro. |