Riformiamo la politica [di Carlo Arthemalle]

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L’Unione sarda ha ordinato una indagine demoscopica dalla quale risulta che, per le prossime elezioni regionali, la maggioranza degli intervistati sono tentati dall’idea di disertare le urne.  Noi non siamo d’accordo con questa scelta ma sappiamo benissimo che i nostri concittadini hanno maturato tale orientamento solo perché sono stati provocati pesantemente.  Proviamo a fare un rapido esame della situazione:

I sardisti decidono di appoggiare il centro destra dopo un’altalena tra destra e sinistra che è durato dei mesi e che ha fatto assomigliare i dirigenti del più antico partito politico italiano a dei sensali che vivono  con l’idea fissa di vendere al prezzo più alto possibile le poche melanzane avanzate nel loro negozio.

Il PD, che molti davano per favorito, organizza le primarie per scegliere il candidato governatore, poi decide di cambiare cavallo perché la signora che aveva vinto quella competizione risulta coinvolta nell’inchiesta sui fondi dei gruppi.  Ci complimentiamo per la rigorosità dimostrata ma veniamo subito dopo a sapere che una pattuglia di ex consiglieri che si trovano nella situazione della defenestrata  sono stati, invece, inseriti nella lista  per le prossime elezioni.

 La destra, che (s)governava la Regione nella legislatura uscente, si ritrova completamente scompaginata perché  coinvolta nel naufragio del berlusconismo e perché i suoi rappresentanti indigeni ne hanno combinato di tutti i colori. Per le elezioni qualcuno si è costruito una lista personale, altri hanno trovato alloggio in ricoveri di fortuna, altri ancora  non possono candidarsi perché sono a Buoncammino  oppure ai domiciliari.  Cappellacci, il Governatore uscente, fa storia a se perché destinatario di diversi avvisi di reato.  Noi non entriamo nelle sue vicende giudiziarie;  ci chiediamo soltanto come sia possibile che un Governatore di Regione possa incontrare un personaggio come Flavio Carboni e farsi indicare da lui gli uomini da piazzare alla testa di un Ente Regionale.  Insomma stiamo dicendo che Cappellacci è disonesto ma anche un poco pirla.

Michela Murgia, una signora che ci ispira simpatia si presenta alle elezioni con la credenziale di aver pubblicato qualche romanzo. Il suo approdo alla politica potrebbe essere interpretato positivamente se lei  si limitasse a proporre un contributo come intellettuale, facendo parte di una squadra dove altri assicurano competenza nelle più disparate discipline, abbiano coscienza di cosa è la pubblica amministrazione e posseggano l’esperienza necessaria per cimentarsi nell’arte più difficile del mondo. Ma Michela propone un altro film: lei vuol fare il governatore e pensa di promuovere al ruolo di assessore  gli amici con i quali prede il te ogni pomeriggio.

I grillini, che appena avantieri  avevano riscosso un clamoroso successo  raccontando le stesse cose e usando gli stessi toni che oggi adopera la signora Michela, ci hanno messo meno di un anno per accodarsi al peggio del peggio. Si sono cavati gli occhi tra di loro per i posti in lista e hanno costretto  il comico genovese a negar loro l’uso del simbolo.   Quanto è successo in questa area è, però, una delle poche notizie confortanti che ci arriva dalla cronaca.   Serve a dimostrare che statisti non ci si improvvisa e che in politica, per durare più di una stagione, se non hai i soldi e le TV di Berlusconi, devi essere portatore di una idea di governo, ti devi sottoporre a un doveroso tirocinio e devi accompagnarti a persone capaci e competenti.

Sospendiamo a questo punto l’esame dettagliato del momento preelettorale, senza avventurarci nella fatica di illustrare i curriculum dei millecinquecento candidati che affollano le ventinove liste capeggiate da nove aspiranti governatori.  In quella folla c’è di tutto: dilettanti allo sbaraglio, velleità di rivincita sociale, gente che ha vendette da consumare e persino qualche persona perbene che non sta attenta alla gente che frequenta.  Tanto disastro e tanta gente che accorre fanno pensare ad Olbia dopo l’uragano.  Ma molti dei convenuti, nel dopo uragano della politica, non arrivano  in veste di soccorritori.  Sono solo sciacalli che sperano di fare bottino.

C’è da stupirsi, quindi, se in tanti minacciano di non andare a votare?  No, non c’è da stupirsi, ma in questo caso il rimedio sarebbe davvero peggiore del male  perché a decidere, nell’urna, sarebbero solo gli elettori che con la cattiva politica fanno a pappa e ciccia:  i clienti, gli amici degli amici, quelli che affollano le cene elettorali e praticano il voto di scambio.

La politica deve essere salvata dalla gente perbene  perché questo strumento  serve alla democrazia e serve, soprattutto, ai cittadini delle zone più svantaggiate del Paese.  Se la Sardegna è venuta fuori dal medioevo nel quale era ancora immersa negli anni del secondo dopoguerra  lo deve il gran parte alla politica.  La nostra Isola, lo diciamo per i giovani ma anche per gli anziani dalla memoria corta, si distingueva per un tasso di analfabetismo da terzo mondo, per le malattie endemiche causate dall’ambiente malsano  e dal cattivo nutrimento.  Eravamo la Cayenna in cui si inviavano i funzionari disonesti, la terra buona per fornire donne di servizio e carne da cannone per le guerre.

La società non evolve mai per germinazione spontanea.  Il Piemonte e il nord ovest dell’Italia si sono sviluppati  perché la grande borghesia e l’industria di Stato hanno fatto da apripista.  Nel nord est del Paese è stata la piccola imprenditoria a trainare lo sviluppo, altre regioni hanno messo in campo la cultura, il turismo e la capacità manifatturiera.   In Sardegna queste risorse erano presenti in maniera assolutamente insufficiente ed è stata la politica a supplire;   è stata lei che ci ha compattato e ci ha dato una fisionomia come popolo, ci ha dotato di  nuovi strumenti normativi e di risorse materiali, ha agevolato l’ascesa sociale di centinaia di migliaia di persone e ha contribuito a modernizzare i costumi e la mentalità.

A far funzionare la politica come locomotore dello sviluppo hanno provveduto, lavorando da angolazioni diverse, tanto i partiti che stavano al governo che quelli relegati all’opposizione. Tra loro si combattevano aspramente e prospettavano soluzioni contrapposte sia sul piano strategico che per le scelte di medio periodo.  Democrazia Cristiana e partiti della sinistra lavoravano con prospettive differenti ma tuttavia spingevano in avanti e tutti e due parlavano di riscatto del popolo sardo.  In certe occasioni la loro azione ha persino avuto modo di convergere.

Ma ad un certo punto della nostra storia il giocattolo si è rotto;  la politica ha smesso di avere lo sviluppo come obbiettivo centrale e i partiti hanno smesso di riferirsi al popolo sardo come ad una entità unitaria.  Ciascuno pensava alla propria parrocchia:  i moderati curavano un elettorato che a vario titolo campava sulle spalle del bilancio regionale mentre la sinistra tirava avanti anchilosata, incapace di difendere quel mondo del lavoro in cui era nata e cresciuta.  Quando è stato chiaro che i partiti non erano più in grado  di tutelare i loro mondi di riferimento – anche perché era esplosa la crisi globale e la Banca europea faceva le pulci all’Italia –  il sistema politico isolano si è frantumato ed è diventato la palude dei millecinquecento che oggi si candidano a governare. Ho semplificato moltissimo il racconto ma nella sostanza le cose sono andate davvero così.  

Che fare ?  si chiedeva a suo tempo una nostra vecchia conoscenza. …..  Credo che per prima cosa occorra un esame di coscienza collettivo.  Le persone oneste non si limitino a piangersi addosso  e le persone oneste e capaci la smettano di farsi aristocraticamente da parte per paura di essere confuse con la marea dei gentiluomini (e delle gentildonne) che affollano l’Agorà di questi tempi.  La politica ha fatto molto per noi sardi, abbiamo detto.  E’ il momento che i sardi adesso facciano qualcosa per la politica, aiutandola a venir fuori dalla palude nella quale si è impantanata.

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