Francesco Bellomo e la nevrosi della forma [di Elettra Santori]
Micro Mega 9 febbraio 2018. Tutto, nella vicenda del consigliere di Stato cacciato dalla magistratura dopo le accuse di molestie e ricatti, trasuda una delirante ossessione per la vuota forma priva di ogni sostanza umana: i formalismi del ragionamento, la formula del quoziente d’intelligenza, la forma fisica, l’eleganza formale, la forma contratto richiesta a borsiste, borsisti e persino fidanzate, in una nevrosi regolativa che si espandeva a tutti coloro che dovevano rappresentare Bellomo agli occhi del mondo. Visetto grottesco da adolescente attempato, spalle che si intuivano ossute sotto una giacca troppo larga, polso sottile ed effeminato, e quel dettaglio così provinciale del logo in evidenza sulla t-shirt: davvero il Francesco Bellomo che si è visto recentemente in un’intervista televisiva, con la sua corporatura da anatroccolo e gli occhi che strabuzzavano di tic, non aveva nulla di seduttivo, niente a che fare con le foto ufficiali circolate in questi mesi che lo ritraggono sorridente e addivanato, come un Lele Mora etero, in mezzo ad una sfilata di cosce da Moulin Rouge. Se c’è una dote che a Bellomo non si può negare, è di certo la fotogenia. Dello charme irresistibile del giurisperito, per quanto preparato e competente, non avevo mai sentito parlare. Non mi risultavano, prima del caso Bellomo, casi di groupie in delirio per le sofisticate riflessioni di un magistrato sul procedimento antitrust, o sul nuovo art. 612-bis c.p. Eppure, un potere seduttivo dovrà pure averlo, questo giovane giureconsulto barese, se è vero che, come lui stesso afferma, molte delle sue allieve «desideravano avere un rapporto più stretto con lui», e che nella vita non gli sono mancate relazioni sentimentali con alcune di queste. Merito forse della sua Ferrari parcheggiata fuori dalla sede dei suoi corsi? Non voglio nemmeno pensarlo. Merito allora della sua squisita cultura? Non saprei, visto che parla citando nientepopodimeno che Wikipedia, e che dalla sua bocca sgorgano massime di sapienziale grandezza del tipo «Chi va con lo zoppo impara a zoppicare» (dove per “zoppo” egli intende, fuor di metafora, il reietto che non raggiunge il q.i. di 80/100), o anche «Il quadro, per giudicarlo, bisogna osservare la cornice» (quindi di fronte a un Pollock senza cornice il povero Bellomo perde ogni punto di riferimento). Esclusa l’aitanza e scartata la cultura, quale arma seduttiva avrà dunque sviluppato il nostro giovane Licurgo barese? Forse l’intelligenza? «Lo sviluppo del ragionamento è l’aspetto più importante per un magistrato», asserisce lui. Per questo sulla sua rivista “Diritto e scienza” allena i suoi studenti ai rigori della logica formale e alla coerenza del ragionamento deduttivo, cimentandoli sugli argomenti più disparati: come ad esempio le scelte sentimentali di una sua ex allieva ed ex fidanzata ritrovatasi suo malgrado oggetto di acuminata riflessione scientifica su un numero della pregevole pubblicazione: «Cosa può spingere una ragazza che si dichiara profondamente cattolica, educata in modo rigido e ambizioso, a fare sesso a diciassette anni con un soggetto con un q.i. pari a 58?», si chiede il Kierkegaard delle Due Sicilie: domande radicali che aprono squarci di inaudita potenza sulla contraddittorietà dell’animo umano. Dopodiché, si vola alto coi sillogismi: «Premessa minore: la ragazza si fidanza. Premessa maggiore: i fidanzati fanno sesso. Conclusione: lei farà sesso. Oppure non farà sesso. Oppure, siccome il fidanzato vale 58 centesimi, è sfigato, non si fa sesso con gli sfigati». Se questo è un ragionamento rigoroso, io sono Guglielmo di Occam. Viene da chiedersi che razza di magistrati siano quelli che si formano su testi di tale pochezza, maneggiando parole antiumane come “sfigato” (lo strumento di tortura preferito da bulli e cyberbulli di ogni età e latitudine), impregnandosi della cultura volgarmente superomistica, persino sottilmente eversiva, del Nietzsche delle Murge: saranno giudici equanimi, coscienziosi interpreti di una legge uguale per tutti, o non piuttosto tecnocrati del diritto schierati a prescindere dalla parte del più forte? Fino a qui, l’impressione è che l’asserita superiorità intellettuale di Bellomo sia stata un po’ troppo photoshoppata, come paiono esserlo le sue fotografie ufficiali. E tuttavia, un fatto sembra acclarato: i suoi corsi erano affollati e frequentarli garantiva buone probabilità di superare il concorso da magistrato. E qui allora entra in gioco una forma di ingegno che innegabilmente va riconosciuta al Bellomo: quell’intelligenza imprenditoriale, strumentale, che si prefigge uno scopo e spregiudicatamente plasma il mondo per ottenerlo. L’intelligenza cinica che il secolo ammira e desidera per sé. Cercare un rapporto più stretto con Bellomo, come facevano le sue studentesse, era un modo per bere dal suo cranio e appropriarsi del suo talento autoimprenditoriale, e pazienza se questo significava diventare ciò che lui voleva, vestirsi, muoversi, vivere secondo le sue regole. Non c’è sesso né sessismo in rapporti del genere (donne e uomini si sottoponevano indistintamente e volontariamente al trattamento Bellomo), ma solo conformismo e adesione a un modello sociale che, molto probabilmente, avrebbe portato lontano nella scala del successo. E di questo modello, il dress code ‒ chiodo di pelle nera e jeans strappati per lui, minigonna, trucco calcato e french manicure per lei ‒ era parte essenziale, segno distintivo di superiorità psicoattitudinale e abbagliante strumento di autopromozione. La vera intuizione di Bellomo è stata quella di introdurre il glamour in uno dei pochi ambienti che ancora ne erano esenti: la magistratura. Nel 2009, Raimondo Mesiano, il giudice che aveva condannato Fininvest a un maxi-risarcimento a favore della Cir di De Benedetti, venne irriso da un tg Mediaset per i suoi calzini celesti, così mediocri da essere definiti stravaganti. Nell’era Bellomo, invece, il fashion fa finalmente ingresso nei tribunali. Montesquieu auspicava un potere giudiziario «invisibile e nullo», alieno da personalismi e iniziative? E Bellomo lo riveste di luce e paillettes. In lui il personal-stylist cammina fianco a fianco col giurisperito, il nail-artist è tutt’uno col dominatore dei codici. Dopotutto, il diktat del glamour vige ovunque, persino in politica: lo ha lanciato Berlusconi, lo ha reintrodotto Renzi (a cui si deve il primo “chiodo” a fini politici che la storia ricordi), lo ha perfezionato la Boschi. Perché non dovrebbe imperare anche in magistratura? «Il dress code è accettato», si difende Bellomo; e candidamente si domanda: se il pubblico non si scandalizza delle showgirl semisvestite nelle trasmissioni calcistiche, perché mai dovrebbe indignarsi per le aspiranti giudici in minigonna (e in questa candida equiparazione di ruoli e ambienti professionali così distanti c’è tutta la straordinaria ricercatezza della sua cultura e della sua formazione umanistica). Si giustifica affermando che un conto era il suo comportamento da imprenditore, un conto quello da magistrato, e che il dress code “estremo”, riservato solo alle occasioni mondane della sua società di formazione, «trovava la sua ragion d’essere nel ruolo promozionale che il borsista svolgeva, certamente agevolato da un’immagine attraente (cosiddetto effetto alone)». Ma è troppo facile evocare una separazione dei ruoli, quando i tuoi ambienti lavorativi sono contigui, anzi sono l’uno l’anticamera dell’altro. Ed è dura pensare che un borsista intriso di superomismo patinato, una volta vinto il concorso in magistratura, smetta da un giorno all’altro i panni griffati del plusdotato sprezzante di deboli e inferiori e indossi la toga dell’equo ed imparziale servitore dello Stato. Tutto, in questa storia, trasuda una delirante ossessione per la vuota forma priva di ogni sostanza umana: i formalismi del ragionamento, la formula del quoziente d’intelligenza, la forma fisica, l’eleganza formale, la forma contratto richiesta a borsiste, borsisti e persino fidanzate, in una nevrosi regolativa che si espandeva a tutti coloro che dovevano rappresentare Bellomo agli occhi del mondo. Chissà cosa prova (ammesso che davvero provi qualcosa) in questi giorni l’ormai ex magistrato, ora che la sua vita è uscita fuori controllo. Ora che l’oggetto di studio e di pubblica riflessione non è più la sua ex fidanzata, messa alla gogna sulle pagine di “Diritto e scienza”, ma lui stesso.
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Analisi lucida e profonda.
Capace di andare molto oltre il “caso di specie” come dicono gli specialisti del ramo.
I miei complimenti.
AS