Lu Contu Curiosu ovvero de La Foca Monaca (I) [di Franco Mannoni]
Il ricordo della seconda guerra mondiale era ancora fresco nella testa e nei discorsi che si intrecciavano fra i pochi abitanti di quell’angolo di mondo che era Aldianoa. C’era chi si curava ancora le ferite, del corpo e dell’anima, chi parlava dei caduti o di coloro che non erano tornati e non si sperava più di rivedere. Per altri, ad esempio i combattenti in Russia, si teneva viva una fiammella di speranza. Il villaggio non era certo partecipe del rilancio che sospingeva il Paese col la p maiuscola all’esordio degli anni Cinquanta. Sembrava rinchiuso in un tempo spezzettato, ostaggio di un orizzonte quotidiano entro il quale si chiudevano piccoli calcoli e progetti. Una sorta di accettazione, per lo più, seppur ravvivata dalla speranza che qualcosa si muovesse, che il mondo si ricordasse anche di loro. A dire il vero, molti ritenevano che il loro posto nel mondo fosse quello ereditato dal padre e dal nonno, con la casa e il mestiere. Per cui, a seconda dei casi, divenivano contadini di una terra aspra e povera di frutti, come una femmina non più feconda, oppure i marinai di una pesca difficile in un mare duro e infido. Oppure donne di casa, sballottate fra le gravidanze e la cura dei figli e della casa. Tutto ineluttabile, fatale. Comunque era una comunità in cui si viveva del poco, dove lo scambio in natura, il baratto, non era ancora, a metà degli anni cinquanta, una reminiscenza, ma una pratica vigente. Il salario era un istituto poco diffuso, riservato agli insegnanti e ai pochi dipendenti pubblici, come agli operai di qualche azienda addetta alle prime opere pubbliche di rilievo.Gli altri si dovevano arrangiare negli orti, nelle botteghe, con pochi soldi, comunque. In quel mondo di vite grame c’erano numerosi scapoli e numerosissime signorine anziane, che la maliziosa arguzia popolare ascriveva alle seguaci di San Gioacchino, protettore delle nubili. Si creavano aggregati familiari formati da anziani giovanotti e anziane signorine, fratelli e sorelle, che non si erano sposati e vivevano insieme nella casa dei genitori. Questa tipologia era piuttosto ricorrente, dando luogo a famiglie improprie formate anche da tre, quattro, cinque persone di età matura che mettevano insieme risorse e povertà, tirando avanti. La famiglia Biancareddu era una rappresentazione di questa modo di vivere di Aldianoa. Anche nel suo ambito c’erano stati i partenti, chi reclutato nella Marina Militare, chi partito come migrante per le Americhe, dalle quali non aveva dato più notizie. Poi quelli che erano rimasti, come esito di una selezione in negativo. Anzi, qualcuno, Gianninu, e siamo al primo personaggio, aveva tentato una sua sortita come imbarcato sulle navi della marina mercantile, ma aveva fatto ritorno anticipato a seguito di una malattia. Lo riprenderemo poi, perché Gianninu sarà il principale protagonista di questo “contu curiosu”. Almeno spero, perché nel procedere si vedrà, secondo la piega che la narrazione potrà assumere. Il secondo, ma non per autorevolezza, era Lariucciu, che gestiva un abbozzo di caffè sulla piazza principale. Questo in origine era stato semplicemente una rivendita, con mescita, del vino ricavato con le vendemmie della vigna. Dopo la guerra aveva provato a introdurre altri prodotti come gassose, caramelle, dolciumi, birra e il caffè. Un passo alla volta, con la prudenza del caso. Pochi tavoli di legno, sedie impagliate, un banco di zinco, sul quale troneggiava un trespolo a reggere delle bolle di vetro contenenti le caramelle. Dietro il banco una pedana di legno, che ospitava lo sgabello sul quale sedeva perennemente Lariucciu. Alle spalle alcune mensole fissate al muro esponevano poche bottiglie: menta, anice, acquavite, tamarindo. Non era una bettola, perché le mancava il vociare alcolico delle bettole e l’abietto trascorrere delle lunghe ore annebbiate dal vino cattivo. Era tutto un poco più rispettabile e, allo stesso tempo, più squallido. I clienti abituali giocavano a briscola, a mariglia, a scopone, e fumavano un tabacco forte e amaro. Lariucciu si spostava raramente dal suo scranno dietro il banco di zinco, dal quale sembrava sorvegliare arcigno l’attività dentro il locale e, attraverso il finestrone, i passaggi sulla piazza. Spesso teneva in mano, verticalmente, come si trattasse di un’arma all’erta, uno strano attrezzo formato da una canna a un estremo della quale aveva innestato una paletta di cartone robusto. Era lo strumento per colpire, con gesto d’insospettata rapidità, la mosca che dovesse imprudentemente poggiarsi nei pressi. Dalla piazza il cliente, o anche il casuale passante, gettando lo sguardo all’interno del caffè, poteva cogliere il cranio glabro del gestore e il mulinare della sua caratteristica arma anti mosca. Fra casa e caffè Lariucciu viveva la sua vita grama, spesso allietata da abbondanti libagioni con il vino prodotto in casa, ma non disdegnando quello di altra origine. Gianninu era un personaggio a suo modo picaresco. Difficile definirne l’età e il mestiere. Si sapeva che ne aveva praticato diverse, di arti, ma ciascuna transitoriamente e con nessuna costanza. Da giovane lo davano per irrequieto, tendente a partenze improvvise e ad altrettanto imprevisti rientri. Lo consideravano un furbacchione, di poca attendibilità, ma sostanzialmente uno che non era capace di far male. Magro, asciutto, i capelli neri e arruffati sotto un berretto con visiera, aveva l’aria di chi si è appena alzato dal letto perché disturbato da eventi improvvisi e non graditi. In realtà era uno dotato di quel tanto di elementare furbizia che gli suggeriva il modo migliore per camparsi sfuggendo alle tante minute insidie che il vivere quotidiano presenta. Se qualcuno avesse voluto fissarne in un ritratto i tratti più caratteristici, avrebbe dovuto raffigurarlo in marcia, calzando i suoi vecchi sandali, con una giacca dall’età indecifrabile quanto quella del titolare, buona per tutte le stagioni. D’inverno, però, indossava un voluminoso cappotto blu scuro, da marinaio, vestigia del tempo dell’imbarco. Più che indossarlo, lo teneva sulle spalle, come se si trattasse di una mantella. Comunque, estate o inverno, avrebbe dovuto porgli sulle spalle una o più canne da pesca e, ad armacollo, un tascapane contenitore di ogni cosa utile a trafficare fra gli scogli e a trarne qualcosa. Coltelli, pinze, ami, filo, sugheri, boccette con l’olio per lucidare la superficie dell’acqua, piombi. Un lupo solitario, che attraversava la campagna o le spiagge sempre alla ricerca di qualcosa. Di fatto qualcosa portava sempre a casa, si trattasse di pesci presi all’amo, di polpi catturati avvistandoli sotto il pelo dell’acqua allisciato dall’olio, di caracole e bocconi, di orticate e persino, raramente, di una murena. Due scontrosi, lui e Lariucciu. Ma mentre questi si ritirava nel posto di controllo della sua bottega di vini e dolciumi, immergendosi in lunghi silenzi, Gianninu faceva valere il suo ruolo di maschio dominante con improvvise inveterate nei confronti di Mimmina, sorella, madre, vittima, ma anche dei parenti che avevano la ventura di incappare nei suoi salti d’umore. Fuori di casa, a parte i silenzi, caratteristica dei Biancareddu, era tutt’altra cosa. La casa in cui vivevano era povera, ma ampia, disposta in due livelli. La cucina, che era la stanza del piano basso più utilizzata, affacciava su un vasto cortile sterrato, nel quale si espandeva l’attività della famiglia. Su un lato era stata ricavata una tettoia nella quale era alloggiato lu fraili, il fornello e l’incudine del fabbro, testimonianza di una pregressa attività, forse del padre dei nostri personaggi. Dominava la corte un vecchio ginepro che, cresciuto per un tratto molto curvo, quasi parallelo al suolo, si era inerpicato poi fino a superare il muro di cinta. Chi andava e veniva fra cucina e la corte era Mimmina, la sorella dei due. Non maritata, aveva continuato a vivere nella casa dei genitori dopo la loro scomparsa e si era messa a disposizione della comunità, ovverosia dei fratelli. Era la parte più debole del terzetto, perché donna e come tale destinata alle attività domestiche e di sostegno. I fratelli non si può dire che la angariassero, perché non ne avevano una vera intenzione, ma certamente non le usavano alcuna attenzione né affetto. Era la loro sorella, era donna e come tale destinata, tra le pareti domestiche, ai lavori più umili e faticosi. Insomma, una ‘ecchja agghjana’ senza gioie, né presenti né trascorse. Non è dato capire con quale animo accettasse la sua condizione, perché in quel tempo le donne tacevano, ma propenderei per una sorta di rassegnazione a una subita ineluttabilità delle cose che la riguardavano. Persino nell’aspetto sembrava rispecchiare questo suo ruolo e condizione. Coperta di abiti vecchi, con scarpe consunte regalate da qualche parente, trasandata, le mani spesso nell’acqua, china su pentole o mastelli. Con Giannino si punzecchiavano di continuo. Se l’una manifestava un desiderio, per quanto banale, veniva rimbeccata ironicamente e così scambiava con il fratello salaci battute. Ciabattava tutto il giorno per mettere insieme il desinare con gli scarsi apporti ricavati dalle provviste e da quel che i due fratelli si procuravano, l’uno con gli scambi fra vino e derrate, l’altro attingendo alle riserve, per lui inesauribili, della scogliera. Era però Mimmina che doveva far tornare i conti e mettere i piatti in tavola. In più doveva districarsi in quella sorta di zoo ospitato nel cortile, nel quale militavano la gatta Muscitta, le galline, il cane Conforto, il pappagallo Cocorito. E per fortuna che avevano smesso di ingrassare il maiale! Non si creda però che il suo ruolo fosse di poco rilievo, data l’umiltà della condizione e, persino, dell’aspetto. Mimmina esercitava una sua centralità, fatta di fatica, di pazienza e di sostegno ai due fratelli scapoli. (1-continua)
|