Lu Contu Curiosu ovvero de La Foca Monaca (II) [di Franco Mannoni]

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Il periodo aureo di Gianninu giungeva con la primavera. Quando le giornate si allungano verso le ore della sera, il sole scalda i corpi rattrappiti dall’inverno, il mare acqueta il suo moto e le scogliere ridiventano praticabili. Quello era il tempo di riprendere con impegno il suo percorrere scogli e litorale e trarne di tutto.

Sui versanti verso il mare si ravvivano colori, profumi e umori. Come se la natura, pregna, contenesse un’attesa di compimento. Piante e animali si sentono partecipi di una trasformazione che nella ciclicità chiude la bocca ai dubbi, alle incertezze e alle elucubrazioni degli uomini.

Le acque lasciate tranquille dal maestrale dispensano brevi bagliori, a rivelare anfratti inattesi. Era il tempo, per Giannino, di uscire al mattino, la canna sulla spalla e il cestino appeso al braccio, per puntare ai luoghi ritenuti, quel giorno, i più promettenti. Se la meta lo permetteva, si serviva della bicicletta per una marcia di avvicinamento alla costa attraverso stradine di campagna.

La bicicletta era il risultato della trasformazione di un residuato bellico. L’aveva recuperata nel quarantatré, quando i tedeschi avevano abbandonato precipitosamente Aldianoa per raggiungere, ahi loro, la vicina Corsica. L’aveva trovata presso un muretto a secco, fra le erbacce e l’aveva portata con sé, sebbene mancasse della ruota anteriore e mostrasse qualche altra ferita. Una bicicletta robusta, però, militare, ovviamente, dotata di freni a bacchetta, fornita di due portapacchi, uno su ciascuna ruota, verniciata di verde a chiazze mimetiche.

L’aveva sistemata sotto la tettoia, nascosta sotto alcune frasche, in attesa di renderla funzionale. Esplorando officine e depositi, recuperò una ruota, sia pure di diametro ridotto rispetto all’originale, e persino uno pneumatico rabberciato. Quando riuscì a ultimare il restauro si sforzò di non rendere di comune ragione il possesso del suo personale bottino di guerra. Ma non poté resistere alla tentazione di utilizzare il mezzo per una escursione a Santa Reparata.

Da quella volta, rotto il ghiaccio, la bici divenne un veicolo ordinario di mobilità, soprattutto per percorrere i tratti di strada che potevano avvicinarlo alle zone di pesca. Poté ampliare così le aree raggiungibili e risparmiare il tempo e la fatica di lunghe camminate.

Quella che Gianninu svolgeva non era propriamente o esclusivamente un’attività di pesca. Assomigliava piuttosto a un prelievo professionalmente organizzato e caratterizzato, a seconda delle stagioni e delle caratteristiche meteo, ma era innanzitutto l’esplicarsi di una passione forte per tutto ciò che stava nel confine labile e mobile fra mare e terra, la manifestazione di un’appartenenza a quel mondo, esercitata in modalità solitaria, ma non esclusiva, nel senso che amava rendere partecipi parenti e amici di questa sua attività.

Per esempio, imbandendo ogni anno, a giugno, il pranzo per il suo onomastico, che coincideva con il compleanno, al quale invitava una stretta cerchia di nipoti, maschi e femmine. Non era impegno da poco, al quale si dedicava nel momento propizio, con la collaborazione /contestazione della sorella Mimmina.

-Spero che quest’anno farai meglio dell’anno scorso. Voglio vedere se potremo assaggiare le orticate fritte!

– Sigundu nun t’andani di traessu!. Mi pari chi felmarei cu la gana!

-Chi graziosu! Sidd’era pal te saria molta di fami. Cilca ja di dimmi cos’aemu di pripparà, siddu nun voi fa la figura di li toi.

E così via, agitando tuoni e fulmini di tutta apparenza, ma fine a sé stessi. Nonostante l’esordio pugnace, Mimmina si metteva totalmente a disposizione già qualche giorno prima, a preparare ciò che poteva essere utile ad integrare quanto Gianninu   avrebbe ricavato dalle sue scorribande. Così in una ricorrenza a metà circa degli anni cinquanta, Giugno, il mese migliore di Aldianoa, sole sfavillante e lunghe calme di vento. I due giorni prima di San Giovanni, li occupò nella ricerca di quanto poteva tornare utile all’allestimento del pranzo, tutto progettato con ciò che poteva essere estratto o pescato dagli scogli.

Le patelle, i bocconi e le caracole furono il frutto di un passaggio mattutino sui graniti di La Colba, dove scoprì non poche tane di granchi, che riuscì a catturare con consumata abilità. Innescò la canna da pesca e un bollentino che lanciò dalla roccia piatta sulla quale si era sistemato, verso il mare aperto. Andò avanti così per lunghe ore, interrompendosi per consumare un po’ di pane e formaggio e un sorso di vino che traeva dalla borraccia.

I pesci venivano su con continuità, sarrani, barchette, scorfani, qualche sarago, ghiozzi. Quanto serviva per l’immancabile zuppa di pesce e per una successiva frittura. E così, con qualche variazione, anche nel mattino successivo, ma con rientro anticipato per consentire la preparazione del desinare.

La tavola fu imbandita alla buona, come nelle case dei poveri, tovaglia bianca, bottiglione di vino rosso al centro, la corona di pane fresco, la lolga, ancora intatta. Vennero le nipoti, portando con sé una torta casalinga. Quattro, cinque ragazze, fra i quindici e vent’anni. Qualcuna attratta dai cibi di mare, qualche altra meno disponibile, che storceva il naso per gli odori forti provenienti dalla cucina.

Mangiarono patelle, bocconi e caracole come antipasto, poi si passò ai piatti principali. Ogni presentazione era accompagnata da gridolini di apprezzamento e da interventi di Gianninu che raccontava dei luoghi nei quali aveva fatto bottino. Venne la zuppetta, un brodo ristretto servito nei piatti fondi con il pane raffermo. Poi si passò alla frittura croccante, a seguire la quale, sorpresa, un assaggio di orticate fritte. Gianninu aveva ascoltato la sorella e, brontolando, l’aveva accontentata. Mimmina finalmente sorrise, se si può dire così di una bocca sdentata, manifestando la sua contentezza.

Lariucciu mangiò in silenzio, accompagnando il cibo con bicchieri del suo vino, a quel punto dell’anno ormai aspro, ma prossimo all’esaurimento. Atteggiava l’espressione come se seguisse la conversazione, ma in sostanza alternava brevi sprazzi di veglia a più durature pennichelle.

Il festeggiato mostrava in simili circostanze la sua vera natura, che era di persona legata all’ambito familiare, pronto a mettersi a disposizione di esso, silenzioso, ma incline alle battute salaci e sorprendenti. Si trovava a suo agio con i giovani, ai quali era pronto a dedicare ciò di cui abbondava, il tempo, le storie e i saperi ricavati dall’esperienza e dalla tradizione orale. In attesa della torta, che avrebbe concluso il pranzo, la conversazione diveniva più vivace soprattutto per le domande che le ragazze ponevano al festeggiato.

-Zio Giannì, chiese la più ardita, voi che conoscete ogni tratto delle nostre scogliere saprete qualcosa di questa storia del Bue Marino che si dice sia presente nella zona delle Bocche. Quando ancora andavo a scuola c’era chi raccontava che questo animale era stato avvistato più volte dai pescatori.

– Boiu Marinu, Vecchiu Marinu, Foca Monaca come la chiamano, l’ho sentita nominare più volte, ma non l’ho mai vista. E non ho incontrato qualcuno che sia certo di averla incontrata a sua volta. D’inverno, quando le serate sono lunghe e bisogna trovare storie per riempirle, allora si allungano i discorsi e si scavano i ricordi, come le fantasie.

-Toccherà anche a noi fermarci in vegghja per saperne di più, soggiunse la ragazza.

-Fai così, perché ora non ho altra voglia che chiacchierare del Bue, chiuse brusco il festeggiato, recuperando il tratto burbero del suo carattere,- Adesso la torta e poi ognuno a casa propria.

 

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