Lu Contu Curiosu ovvero de La Foca Monaca (III) [di Franco Mannoni]
La veglia, la ‘egghja era un misto di comunità e di passatempo. Da novembre iniziava l’inverno, al paese. Uso il tempo passato, perché quella consuetudine si è lentamente affievolita e poi estinta. Con essa il modo stesso di scandire il tempo e il procedere della giornata. Del resto come sarebbe conciliabile, quella usanza, con le serate televisive dominate dai varietà di Pippo Baudo o dalle serie di Montalbano? Il ciclo del giorno e della notte, del pranzo o della cena è ora dettato dai telegiornali, da Carosello, dallo sceneggiato di prima serata. Allora no, non ancora. Aldianoa viveva una sua realtà pre moderna. Si sa che, con l’abbreviarsi del giorno, i tramonti si spostano sempre più a sud sulla linea dell’orizzonte, dalle cinque inizia l’imbrunire, ed è subito notte. Il paese conobbe la luce elettrica solo in prossimità della metà del secolo. Si ricorreva, per combattere l’oscurità, a mezzi approssimativi di illuminazione. L’uso del petrolio era riservato a chi poteva sostenerne il costo, le steariche si esaurivano in fretta e occorreva rimpiazzarle. Riunirsi intorno a un focolare dopo il tramonto consentiva di risparmiare legna e petrolio. In attesa delle tempo propizio al sonno, si trascorrevano lunghe ore intorno al camino a scambiarsi notizie, a rievocare storie vecchie e recenti, a ricostruire vicende neglette o volutamente messe da parte. Non mancavano i pettegolezzi e le storie piccanti, a risvegliare attenzioni altrimenti in scivolata verso il sonno. La veglia era una cosa seria, il luogo in cui i vecchi avevano una parte rilevante, di testimoni del passato e dispensatori di storie che essi stessi avevano recepito, in altre veglie dai loro anziani. Era il luogo in cui si trasferiva la memoria del vissuto da una generazione alla successiva. Forse per questo motivo i bambini cercavano di trattenersi resistendo al sonno, incuriositi dai racconti che dai ricordi degli anziani si srotolavano davanti al fuoco languente. Le vicende narrate si arricchivano di particolari, di integrazioni, di correzioni, sì che alla fine si ricavava una versione diversa dalla primitiva, più completa. Il vincolo della verità, sia pure osservato nelle intenzioni, subiva le deroghe procurate dallo sfrangiarsi dei contorni a causa del tempo e delle tappe che la narrazione aveva percorso. Si componeva la memoria collettiva estraendo dai ricordi di ciascuno ciò che poteva aiutare a costruirla. Non era un consesso fatto di giovani borghesi riservati. Anzi se ne sentiva di cotte e di crude, durante la veglia. Venivano portate in luce vecchie inimicizie fra famiglie, vendette e riconciliazioni. C’era chi eccelleva in storie di matrimoni combinati e disfatti, in storie di amori clandestini, di tradimenti volutamente ignorati nonostante fossero di comune conoscenza, di avventure galanti, persino di episodi boccacceschi. Non si eccede a dire che sotto la superficie di quel paese scorreva un fiume impetuoso di passioni, per convenienza ignorato e, sostanzialmente, neppure evocato nei lustri a venire. L’usanza di costruire matrimoni era assai diffusa, così come si conveniva i una società statica, ove le convenienze erano strumento di sopravvivenza e le relazioni fra i giovani dei due sessi alquanto sporadiche. In alcuni casi la combinazione tendeva a mettere insieme consistenti patrimoni, a unificare, ad esempio, la proprietà di stazzi confinanti. Altre volte l’intento era più modesto, rivolto a trovare un marito ad una brava fanciulla in pericolo di zitellaggio, oppure a sistemare con una vedova benestante un giovanotto non più in fiore, dotato di belle speranze, ma di scarso impegno per il lavoro. Però tutto questo era anche un incubatore di ipocrisie, una sorgente di vite parallele nascoste, delle quali emergeva solo ciò che faceva comodo emergesse. L’adulterio diffuso e tollerato costituiva l’altra faccia dei matrimoni combinati. Gianninu non c’era cascato. Zia Antunietta era una che di legami ne aveva combinati, seguendo una vocazione che la spingeva a svolgere questa funzione peraltro conosciuta e riconosciuta. Abitava nel vicinato dei Biancareddu, circostanza che la motivava ad occuparsi delle loro faccende personali. Aveva progettato un soluzione matrimoniale per Gianninu, vecchju agghjanu in buona salute e ancora valido e attivo, affiancandolo a una vedova già matura, ma non ancora avvizzita e, particolare non trascurabile, proprietaria di diverse case e di un orto. La soluzione sembrava piacere a Lariucciu e anche a Mimmina, mossi in gran parte dal desiderio di vedere assicurata al fratello una vecchiaia protetta, ma in piccola parte, non confessata, dalla prospettiva di liberarsi di lui. Dopo i primi approcci, Gianninu pensò bene di sollevare tutti dall’impegno, dichiarandosi indisponibile a qualsiasi prospettiva del genere suggerito e chiudendosi a lungo in uno dei suoi inespugnabili silenzi. Durante i quali le sbuffate del suo immancabile toscanello aumentavano d’intensità e frequenza. Non che disdegnasse la vicinanza di una donna. Semmai ne avvertiva l’attrazione, alla quale, si diceva, trovasse modo di far fronte nelle condizioni che il paese offriva. Non era possibile però che derogasse allo status che si era costruito, di lupo solitario e indipendente, ai contorni di uomo chiuso nel suo inespugnabile bozzolo. Ormai era così e basta. Ciascuno è una cosa, ma anche il contrario. Tende però a mostrare quella parte di sé che ha adottato, o che gli hanno consegnato confezionata. Si mimetizza nel personaggio che gli è stato assegnato o ha scelto come guscio/rifugio. Gianninu non faceva eccezione.
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