Democrazia ed efficienza: la difficile quadratura del cerchio. Conversazione con Yves Sintomer [di Davide Cadeddu]
MicroMega 2 marzo 2018. Quale modello di democrazia per il XXI secolo? Questo il tema della lecture che il sociologo e politologo Yves Sintomer ha tenuto lo scorso 6 febbraio a Milano. Un incontro che si è svolto nell’ambito di una serie di appuntamenti con studiosi, protagonisti della politica, giornalisti organizzati dalla Fondazione Feltrinelli per accompagnare le settimane che precedono il voto. Il ciclo di incontri si concluderà l’8 marzo 2018 con il Forum di Democrazia Minima, diretto da Nadia Urbinati. Davide Cadeddu ha incontrato Sintomer a margine dell’incontro. Durante la tua lecture hai ricordato come la democrazia sia, almeno formalmente, in espansione (e questo possiamo considerarlo un dato positivo), ma al contempo sia in crisi o sembri essere in crisi soprattutto in quei paesi – i paesi occidentali – in cui per prima si è affermata come prassi di governo della cosa pubblica. Vorrei chiederti preliminarmente se in questo mondo sempre più rapido, sempre più complesso, che ha bisogno di decisioni politiche in qualche modo lontane dalle capacità di visione del senso comune, è davvero ancora la democrazia una forma efficace per individuare e formulare le politiche pubbliche più adeguate. La soluzione può essere quella di rendere plausibili le prassi di sorteggio – da te studiate in passato – nella individuazione dei rappresentanti politici? Oppure occorre creare una nuova aristocrazia della politica, che scaturisca da un innovativo processo di selezione? Non penso ci sia un legame immutabile tra democrazia ed efficienza. Penso che ci siano varie possibilità e che cambi molto a seconda dei tempi e dei paesi. Prendiamo la Svizzera, l’Europa del Nord: sono paesi, comparativamente, anche con dei limiti, molto democratici, che funzionano benissimo. Se si prende all’opposto la Cina, non è un sistema democratico, ma funziona abbastanza bene anche lei. Dunque si può vedere già che la risposta deve essere complessa. Penso che la democrazia per essere efficiente deve riposare su elementi di sistema: la possibilità di una deliberazione, un sistema di checks and balances, eccetera, che ormai non funzionano più bene nel modello classico inventato dai padri fondatori della Repubblica francese e americana. Si può fare un bilancio molto negativo dell’estensione al resto del mondo di questo sistema di democrazia formale, diciamo liberale, che in pochi paesi è stato un successo: invece di afferrare l’opportunità dell’estensione della democrazia al di là dell’Occidente per innovare, per proporre altri modelli, si è pensato che fosse sufficiente riprodurre il vecchio modello. E infatti si può vedere come è andata in Russia, in Europa dell’Est, in molti paesi africani. E vero, bisogna fare i conti con la necessità di una expertise, la necessità di una certa meritocrazia. È evidente, non se ne può fare a meno, ma ci sono vari modi di democratizzare un sistema che sia più efficiente. Per esempio abbiamo bisogno di più expertise su tanti soggetti, dal riscaldamento globale allo sviluppo delle nuove tecnologie, ma anche expertise contraddittoria e la democrazia potrebbe venire lì, nella discussione delle expertise contraddittorie: anziché pensare a un’expertise neutrale, pensare a una pluralizzazione delle expertise e a una discussione democratica su questo. Ci sono stati per esempio esperimenti abbastanza interessanti in cui si sono dati a un pubblico sorteggiato di cittadini con formazione la possibilità di dare un parere su questi temi. Penso che in questa direzione di combinazione della meritocrazia e della democrazia si possa andare avanti. Alla fine del tuo ragionamento – dopo aver accennato a due possibili scenari alternativi, la post-democrazia e l’autoritarismo – hai fatto riferimento a una nuova democrazia, la democrazia 4.0, variamente combinata e ibridata come ora stavi dicendo, che potrebbe essere realizzata grazie a una rivoluzione. Hai precisato che questa rivoluzione non va intesa canonicamente, bensì concepita come una rivoluzione senza leader, senza armi, senza cambiamenti di governo, una rivoluzione sostanzialmente culturale – hai ricordato la rivoluzione femminista – che potrebbe cambiare lo stato delle cose. Secondo te, questa rivoluzione può essere pensata come qualcosa di immanente nello sviluppo futuro della storia e nell’evoluzione dell’umanità? Non stiamo forse andando in una direzione, determinata dal tentativo di soddisfare le nostre esigenze e i nostri bisogni, che implica la necessità di questa rivoluzione culturale? Io propongo l’idea di una rivoluzione che non sia la rivoluzione classica, quella francese, russa o anche cinese, di un partito o di una forza che in un momento prende il governo o il potere statale e che fa cambiare tutto. Penso che questo sia alle nostre spalle. La rivoluzione che ci auguro è una rivoluzione culturale ma in un senso molto ampio della parola, perché se facciamo riferimento alla rivoluzione femminista è stata culturale, ma anche legale – la fine delle disuguaglianze giuridica tra uomini e donne; è stata anche una rivoluzione nelle politiche sociali, lo sviluppo per esempio di modi per avere cura dei bambini al di fuori della famiglia, offrendo alle donne la possibilità di lavorare e avere figli nello stesso tempo; è stata anche una rivoluzione nella ricerca, nella scienza, che ha cambiato la nostra visione. E stata anche una rivoluzione nella politica, con l’arrivo purtroppo ancora minoritario di donne nei posti di responsabilità politica. La rivoluzione democratica che potrebbe seguire questo modello complesso non è però – all’opposto della vecchia concezione della rivoluzione – una rivoluzione che sta per avvenire nel corso naturale della storia, perché abbiamo imparato che non c’è il corso naturale della storia, non c’è lo sviluppo progressista inevitabile, che può essere più o meno rapido, che può avere delle patologie ma che ha un senso che possiamo già individuare. Invece dobbiamo pensare alla storia come a una storia aperta, come a una storia in cui tutti i sistemi hanno una faccia oscura e una chiara. Perché anche questa democrazia 4.0 avrebbe dei limiti, dovrebbe far fronte a delle sfide importanti. Dunque è una possibilità, ci sono esperimenti che vanno in questa direzione e possiamo appoggiarci su questi esperimenti che sono esperimenti reali e anche aspirazioni molto profonde che si fanno vive. Ma ci sono anche aspirazione contrarie, esperimenti molto diversi, autoritari. Una possibilità obiettiva ma non una necessità obiettiva. Non sono gli intellettuali a produrre la rivoluzione, ciò che possono fare gli intellettuali è analizzare le sfide, lavorare sulle aspirazioni e le dinamiche di critica e giustificazione che accadono nella società. Possiamo per esempio mettere in risalto gli esperimenti che hanno una certa rilevanza e proporre ai cittadini che ognuno può fare la stessa cosa nei propri contesti. Dobbiamo capire che nell’articolazione, spesso incosciente, di tanti attori, possiamo andare avanti. Contano anche la politica tradizionale, i movimenti sociali, le ong. Si devono organizzare delle convergenze, ma non c’è una via unica che dovrebbe essere seguite da tutti. Prima hai giustamente osservato che per esprimere un resoconto storico sull’evoluzione dei sistemi politici e sui cambiamenti sociali occorra avere uno sguardo che non abbracci solo l’Europa o il mondo occidentale, ma tutto il pianeta. Com’è possibile immaginare una nuova democrazia globale senza quel soggetto mediatore che nel corso del Novecento è stato il partito politico di massa? Potrebbe essere il federalismo, un certo federalismo sociale prima che istituzionale, come veniva in qualche modo suggerito da Nadia Urbinati, la soluzione per un nuovo costituzionalismo globale? È assolutamente necessario fare una storia che non sia solo occidentale e bisogna ancora di più oggi pensare lo stato della politica e della democrazia in una prospettiva globale. Per capire la politica nel XXI secolo bisogna andare al di là dell’Italia, della Francia e degli Stati Uniti e vedere molto più ampiamente. Dobbiamo essere franchi: non abbiamo la risposta a questa domanda fondamentale. Da una parte si può pensare a ciò che Nadia Urbinati proponeva come un nuovo tipo di federalismo che potrebbe andare molto al di là del federalismo classico tra Stati e includere forze come le aziende internazionali, i poteri delle grandi burocrazie internazionali, le Ong. Sarebbe evidentemente la possibilità obiettivamente più democratica. C’è però un’altra possibilità: il modello cinese, cioè un partito-massa che ha tutto il potere, che ha scontri interni forti ma che permette anche una meritocrazia efficiente, che può funzionare per il popolo ma non è il potere del popolo, anche se permette una comunicazione reale tra il popolo e i dirigenti. Sembra l’opposto del modello democratico di federalismo nuovo, della democrazia 4.0. Forse saranno questi due i modelli che dovranno confrontarsi in questo secolo.
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