Prove tecniche per una feroce dilapidazione della vita sociale (su “Spazio e politica” del filosofo francese Henri Lefebvre) [di Mario Pezzella]
il manifesto del 13 marzo 2018. In questo libro (così si legge nella bella introduzione di Francesco Biagi), Lefebvre descrive lo spazio come prodotto sociale. Non si producono «cose nello spazio» ma lo spazio stesso, entro cui esse prendono forma. Il capitalismo ha colonizzato lo spazio esistente, in funzione della produzione e della fantasmagoria delle merci. Anche il tempo viene misurato in valore, secondo la velocità con cui le distanze sono percorse: «Il capitalismo si è conservato estendendosi allo spazio intero». LO SPAZIO COSTRUITO dal capitale tende a cancellare la distinzione fra tempo di lavoro e tempo di vita, uniformati in un unico tempo di produzione. Non si tratta più solo di riprodurre i mezzi, ma anche i rapporti di produzione: «Essa si realizza nella quotidianità, nel tempo libero e nella cultura… attraverso l’intero spazio». Il capitale nella sua fase attuale è – secondo Lefebvre – congiunto-disgiunto. DA UN LATO, disgiunzione e disarticolazione di tutti i centri: quelli urbani, ma anche quelli produttivi (fabbriche, laboratori, etc.). Le città di dilapidano in una urbanizzazione estensiva e nella ruralizzazione delle periferie. A questa disgiunzione, fa però da contrappeso una congiunzione coercitiva all’insegna del consumo. Gli elementi della vita sociale vengono disgiunti; e riunificati astrattamente come valori di scambio. È questa «l’unità del potere nella frammentazione». La produzione capitalistica dello spazio dissolve la città antica, con la sua idea di centro e la lenta accumulazione di esperienza che ne faceva un’opera. La città è ora divenuta un prodotto. L’urbano, che ha sostituito la città, non ha un nucleo unico e riconoscibile, ma si disperde in più centri commerciali: ogni centro «…si distrugge per saturazione; si distrugge perché rinvia a un’altra centralità; si distrugge in quanto provoca l’azione di coloro che esclude ed espelle verso la periferia». AL CONTEMPO, le antiche città sono sopraffatte dall’estetismo monumentale di uno spazio visuale-fallico: una «dittatura dell’occhio», che celebra la propria potenza in torri, grattacieli, verticalità di ogni tipo, che non rinviano ad alcuna trascendenza. L’altezza dei grattacieli in cui si configura e si raccoglie il potere dello Stato e della finanza esalta gli «sguardi sovrani della presenza statuale. Controllo. Dominio astratto sulla natura che implica e cela il dominio concreto sugli uomini riuniti in società». LA PRODUZIONE capitalistica dello spazio produce nuova scarsità. Mentre beni che erano rari vengono messi a disposizione del consumo, la penuria riguarda ora forme elementari della vita, come l’acqua, l’aria, la terra, che divengono commerciabili, hanno un prezzo ed «entrano così nel circuito degli scambi». Lefebvre distingue tra l’epoca urbana in cui siamo entrati e quella industriale. In quest’utima il tempo-spazio era omogeneo e continuo; noi invece viviamo in spazi-tempi differenziali che «si sovrappongono e si intrecciano, dalle reti stradali ai canali d’informazione, dal mercato dei prodotti allo scambio di simboli». Le forze produttive perdono la stabilità di luogo e divengono sempre più flussi, energie, informazioni, in continua metamorfosi nello spazio e nel tempo. La creazione di questi differenziali, benché attualmente dominati dal capitale, contiene un possibile utopico. Lo spazio omogeneo visuale-fallico con il suo funzionalismo impietrito, la sua verticalità impositiva, è dominato da una pulsione distruttiva; un nuovo inizio può scaturire dalla liberazione dei flussi, della loro molteplicità: «Lo spazio visuale-fallico decreta la morte del corpo dopo quella dell’uomo, della storia, di Dio». L’affermazione di spazi-tempi differenziali richiede però la loro inclusione in una unità sociale non economica, che concepisca i siti come luoghi di incontro e riconoscimento di differenze (umane, culturali, estetiche). IL DOMINIO DEL MERCATO determina l’articolazione dello spazio a livello mondiale. Le diverse aree del mondo vengono sezionate e utilizzate secondo il margine di profitto economico che in esse si può ricavare e i modi più o meno primitivi o evoluti dell’estrazione di plusvalore. Lo spazio dominato dal capitale è comunque segnato da contraddizioni: l’automazione – che oggi rende il lavoro precario – potrebbe consentire l’utopia concreta della sua scomparsa o della sua trasformazione in gioco, secondo l’anticipazione immaginaria di Fourier: «Ciò che compare all’orizzonte è il non lavoro». L’organizzazione dello spazio articola gerarchie di potere, diviene strumentale, come già nella Parigi di Haussmann: ma può essere ritorta contro se stessa. La Comune di Parigi fu, tra l’altro, un tentativo di riappropriarsi dello spazio, che Haussmann aveva sottratto ai ceti popolari: «Tentarono di riprenderne possesso, in una atmosfera di festa (guerriera, ma radiosa)». |