Il voto del Sud è una ribellione da non leggere con superficialità [di Francesco Drago e Lucrezia Reichlin]

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Corriere delle Sera del 13 marzo 2018L’Italia che traspare dal voto del 4 marzo è spaccata in due: Nord e Sud. Nella storia del nostro Paese una divisione così netta nelle preferenze politiche non si vedeva dai tempi del referendum sulla monarchia. Il voto al Sud è stato attribuito alla domanda di assistenzialismo e alla chiusura della società meridionale tipicamente avversa al cambiamento e alla globalizzazione.

Si è anche detto che l’esito elettorale del nostro Mezzogiorno è simile a quello di altri Paesi europei dove la crisi ha minato la fiducia nei partiti tradizionali e premiato i partiti «antisistema».

Studi recenti hanno dimostrato che questa sfiducia è presente quando c’è un visibile peggioramento delle condizioni economiche. Ciò che sembra contare infatti è il cambiamento di Pil e disoccupazione, più che il loro livello. Effettivamente il voto nel nostro mezzogiorno sembra confermare questo dato: la crisi è arrivata dopo rispetto al resto del Paese e ha prodotto tassi di disoccupazione che sfiorano il 20 percento e in alcune regioni il 60 per quella giovanile.

Ma queste similitudini non raccontano tutta la storia. Il caso del Sud d’Italia ha specificità proprie. Per esempio, mentre nel resto dell’Europa l’effetto del calo di fiducia nei partiti tradizionali porta anche a una alta percentuale di astensionismo che mitiga il successo dei partiti antisistema, nel nostro Mezzogiorno l’affluenza è rimasta stabile, in controtendenza con il resto del Paese, premiando il partito antisistema con un voto trasversale che coinvolge tutti i settori della società e che quindi manda un messaggio forte, diremo quasi di rivolta.

Questo tsunami si può solo capire se si prende atto del fallimento delle politiche per il Sud portate avanti sia dalle élite locali che dai partiti nazionali. I meccanismi di distribuzione della spesa pubblica che passano attraverso la politica locale si sono prosciugati nel tempo erodendo l’aspetto clientelare del voto nel Mezzogiorno.

Se prima la macchina politica e le élite locali potevano attingere con disinvoltura a una cassa per distribuire prebende e posti di lavoro, negli anni recenti vincoli e procedure di spesa (ad esempio quelli che passano dalla comunità europea) hanno ristretto la platea dei benificiari del sistema clientelare ma non si è costruito un piano B che potesse mobilitare le forze più dinamiche di queste regioni. La crisi ha fatto il resto.

Tutto ciò è avvenuto mentre, a livello nazionale, si sono rafforzate le misure di protezione a favore delle fasce più deboli. Pensiamo, per esempio, al reddito di inclusione ma anche al bonus degli 80 euro. Queste politiche sostengono il reddito in modo diffuso e centralizzato e tolgono quindi potere di spesa alle élite locali. Paradossalmente però, i partiti tradizionali che le hanno promosse adottando sistemi di welfare più evoluti – in questo caso il Partito democratico —, non ne traggono un beneficio elettorale.

La ragione è che essi non sono in grado di trasmetterne le ragioni perché la loro struttura organizzativa si è praticamente dissolta ed è assente nel territorio. La mancanza di una presenza capillare, di un rapporto con i cittadini, che era stata la loro forza nella Prima Repubblica, li rende oggi incapaci di comunicare un messaggio quando c’è e di elaborarne uno nuovo convincente. Nella campagna elettorale di tutti i partiti è stata assente un’idea coerente su come risollevare le sorti di un’area del Paese che ha subito in modo drammatico gli effetti della crisi e che rischia di accentuare la sua divergenza con il Nord.

In questo vuoto si è scelto spesso quindi la strategia di candidare notabili locali, i «mister preferenze» perdendo così ogni legittimità. Ma questo non funziona più. Per via di questa mancanza di legittimità agli occhi degli elettori, i «mister preferenze», mentre sono stati in grado di «portare» voti nelle elezioni locali – ad esempio nelle elezioni regionali in Sicilia di pochi mesi fa —, hanno fallito in un contesto di elezione nazionale.

La società meridionale ha risposto con un messaggio forte. Logorata da un tasso di mobilità intergenerazionale estremamente basso, si è ribellata alle dinastie nelle posizioni chiave nelle istituzioni (università, professioni, sanità, politica). Quelle dinastie che hanno mal speso o non speso i fondi europei della coesione territoriale e che difendono da sempre privilegi acquisiti.

In questo contesto il M5S è l’unico partito che ha fatto uno sforzo di inclusione e selezionato i suoi rappresentanti (con metodi certamente discutibili) pescando in tutta la società. Questo ha trovato ascolto proprio perché l’ascensore sociale in questa parte del Paese funziona male con la conseguenza che la competenza dei candidati o la incoerenza delle politiche proposte dal M5S con i vincoli di bilancio diventano fattori secondari rispetto al valore simbolico che ha l’aprire le liste a chi è estraneo alle élite.

Rattrista vedere come il voto sia stato letto quasi ovunque in modo semplificato, come domanda di assistenzialismo o paura di cambiamento. Non semplifichiamo. La domanda di assistenzialismo nel Sud c’è sempre stata e sicuramente c’è ancora oggi, ma la società meridionale il 4 marzo ha detto qualcosa di più. Abbandonando i partiti tradizionali incapaci di rispondere ai suoi bisogni, ha espresso piuttosto una disponibilità a sperimentare qualcosa che non si conosce e che potrebbe essere migliore dello status quo. Il contrario di una avversione al rischio.

Difficile non nutrire seri dubbi sulla capacità dei vincitori di rispondere a questa aspettativa, ma questa ribellione nell’arena politica nel mezzogiorno non si vedeva da tempo. Il messaggio va accolto e non banalizzato.

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