L’Italia fratturata dove sono in crisi anche i corpi intermedi [di Marco Damilano]
L’Espresso 16 marzo 2018. Chiesa, industriali, sindacati, magistratura. Dopo il voto anche la società è divisa. Specchio della politica paralizzata. E del governo impossibile. Tutti aspettano le consultazioni, quel momento informale in cui le delegazioni dei partiti sfilano davanti al presidente della Repubblica nello studio della Vetrata al Quirinale, quando prendono forma indicazioni, decisioni, veti e si compone la maggioranza che sosterrà il futuro governo di fronte alle Camere. C’è da chiedersi, però, se questa volta sia una prassi superata, o da rivedere, alla luce del terremoto elettorale del 4 marzo. Comporre la maggioranza: una politica (impossibile, per ora), una di scopo, una à la carte. Una maggioranza qualunque. È l’impasse del sistema politico provocata dal trionfo elettorale dei due vincitori, il Movimento 5 Stelle e la Lega di Matteo Salvini, non così forti però da produrre una maggioranza autonoma, auto-sufficiente, in grado di governare senza alleanze spurie e sgradite. Uno stallo e una situazione inedita che potrebbero estendersi già dalla prossima settimana al livello istituzionale: l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, il ruolo del Quirinale come motore per far partire la legislatura e il nuovo governo, le scadenze del nuovo Parlamento di cui in pochi sono disposti a parlare in pubblico e che invece nei palazzi tengono banco perché sono imminenti. A due settimane dal voto i partiti usciti vincenti dalle urne si ritrovano impossibilitati nel formare un governo. Ma nel Paese ci sono fratture ancora più profonde, come quelle tra l’elettorato e i cosiddetti “corpi intermedi” come i sindacati, la Chiesa, il mondo delle imprese, la magistratura. Mondi travolti dal voto e ora divisi, spaccati, rimescolati. Nuove alleanze si formano e vecchi sodalizi sono stati sciolti. L’Espresso racconta queste fratture, simbolo di un’Italia spezzata e di un governo forse impossibile. Il direttore Marco Damilano spiega cosa trovate sul nuovo numero in edicola da domenica 18 marzo. L’elezione di un giudice della Corte costituzionale al posto di Giuseppe Frigo, che si è dimesso quattordici mesi fa. L’elezione dei membri laici del nuovo Consiglio superiore della magistratura che dovrà governare le toghe nei prossimi quattro anni, con tante nomine importanti, a partire dalla designazione del successore alla guida della procura di Roma di Giuseppe Pignatone, in scadenza per limiti di età. La nomina del nuovo Consiglio di amministrazione Rai, quello attuale termina il suo mandato in estate, il nuovo sarà formato con i criteri della nuova legge voluta dal governo di Matteo Renzi: quattro membri eletti da Camera e Senato, due scelti dal Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Economia, più uno votato dai dipendenti della Rai. Anche questa, come tante, era una legge che presupponeva maggioranze forti, leader stabili pronti ad prendersi tutto, con poche garanzie nei confronti delle minoranze, e oggi potrebbe rivelarsi una beffa per chi l’ha voluta, il premier venuto da Rignano. In gioco, ci sono il controllo della magistratura e dell’informazione pubblica. E poi Cassa depositi e prestiti, i cui vertici sono a fine corsa. E non è finita: nel 2019 ci sarà il grande risiko degli incarichi europei, dopo le elezioni del nuovo Parlamento Ue. Presidenza del Parlamento, presidenza della Commissione, nuovi commissari. E, infine, l’addio di Mario Draghi alla presidenza della Bce con la necessità di proporre un nome italiano per il Comitato esecutivo della Banca. In ciascuno di questi passaggi servono maggioranze semplici, maggioranze qualificate, governi in grado di prendere decisioni. Ma le parole maggioranza e governo sembrano un miraggio in questa convulsa fase post-elettorale. Nessuno sembra in grado di raggiungere il magico numero che porta alla fiducia parlamentare di un nuovo governo, tutti hanno voglia di potere e di comando, ma in pochi desiderano davvero governare. Per molti anni la maggioranza parlamentare è stata lo specchio di una maggioranza nel Paese, di un blocco sociale di riferimento. Un reticolo di associazioni, categorie, mondi di rappresentanza di valori e di interessi, lobby che come per incanto, come per effetto di una mano invisibile simile a quella del mercato di Adam Smith, tutte insieme componevano la Maggioranza. A tutto questo si riferiva l’espressione maggioranza silenziosa, evocata dal presidente Usa Richard Nixon negli anni Settanta: quel centro della società che è stabile e governativo per sua natura, gli elettori moderati che non si iscrivono a partiti, che non militano e che non si mobilitano, che restano a casa quando le piazze si riempiono, ma che fanno la differenza alle urne. La maggioranza silenziosa cui si è appellato Renzi per ben due volte, in occasione del referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 e del voto politico del 4 marzo, uscendone drammaticamente sconfitto. La novità di questi anni è infatti che non solo in Italia ma in tutta Europa la maggioranza silenziosa non esiste più. O meglio, si rivolge verso i valori opposti da quelli frequentati in passato: la rivolta al posto della moderazione, l’instabilità in luogo della stabilità, l’opposizione invece del governo. Si è visto in Inghilterra con la Brexit e in Usa con la vittoria di Donald Trump: anche se poi i risultati delle urne, con queste motivazioni, consegnano al sistema più problemi che soluzioni. A venire meno, in questa condizione inedita, sono tutti i canali di collegamento tra politica e società, i mediatori sociali, i corpi intermedi, come si sarebbe detto un tempo. Se non c’è più la Maggioranza, sono loro i primi a essere scossi, scissi, colpiti al cuore nella loro funzione di rappresentanza: i sindacati, le cooperative, le associazioni di categoria di lavoratori e di imprenditori, e di commercianti, coltivatori diretti, pensionati, studenti. Attraversati da una crepa che li divide all’interno, una separazione, una frattura tra i vertici, i dirigenti che si sentono ancora parte dell’antica classe dirigente, istituzionale per definizione, e la loro base che invece non si riconosce più nella mediazione, usufruisce di vantaggi e servizi garantiti dall’appartenenza all’associazione, ma vota e si comporta in modo autonomo, indipendente, solitario, al contrario di quanto avveniva in passato, quando candidare un esponente di Confindustria o della Cgil o della Compagnia delle Opere di Comunione e liberazione significava per un partito conquistare in partenza milioni di voti. Cuius regio, eius religio, si diceva un tempo. Se conquistavi il principe, o un presidente di categoria, convertivi al voto un intero popolo. I corpi intermedi sono finiti sotto tiro negli ultimi anni, anche in un Paese come l’Italia che ha sempre potuto vantare una presenza e una vivacità della società civile, e un suo protagonismo politico, superiore per numeri e per qualità rispetto ad altri paesi europei. Una società civile che in molti casi ha svolto una funzione di supplenza della politica: vertici sindacali (Sergio Cofferati, Guglielmo Epifani, ma anche Sergio D’Antoni) e confindustriali (Alberto Bombassei, Federica Guidi) chiamati a ruoli politici, i progetti agitati da parti opposte (Italia futura di Luca Cordero di Montezemolo di cui era motore organizzativo il ministro Carlo Calenda, la coalizione sociale dell’allora capo della Fiom Maurizio Landini) destinati a fallire ma significativi di un movimento. I magistrati entrati in politica per fondare un partito e sostituirsi ai politici di professione: Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris, Antonio Ingroia. Il serbatoio inesauribile di figure politiche e di voti prodotto dal mondo cattolico nelle sue varie sfumature, dopo la fine della Dc venticinque anni fa. «Il messaggio di accoglienza di papa Francesco non è stato accolto. E per questo anche noi dobbiamo fare una lettura profonda». Parla Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio. E sull’Espresso in edicola da domenica 18 marzo, l’inchiesta sulla crisi dei “corpi intermedi” La disintermediazione ha colpito al cuore questo sistema di consenso e la prima vittima è stato proprio il leader che di questo nuovo verbo aveva fatto una bandiera, Matteo Renzi. È stato lui il presidente del Consiglio che ha sbarrato la sala verde di Palazzo Chigi alla concertazione delle parti sociali, lui a disertare sistematicamente le assemblee di Confindustria e dei sindacati, lui a dichiarare chiusa quella stagione a sinistra. Uno strappo compiuto nel momento di massima mediocrità delle organizzazioni sociali, prive di leadership forti e riconosciute, di agganci con le loro basi sociali, in mezzo a una sfida senza precedenti nel mondo del lavoro. Il risultato, in ogni caso, è l’atomizzazione dei legami, la solitudine di imprenditori, lavoratori, autonomi, precari, tutti votano da soli, senza essere rappresentati da nessuno. Il voto può essere letto anche così. E questo spiega perché i vertici sindacali e confindustriali si sono affrettati, dopo il voto, a inseguire i loro elettori che erano andati da una parte opposta rispetto alle indicazioni della vigilia. Un caso di collateralismo alla rovescia. Resiste meglio di altri il mondo cattolico nelle sue varie ramificazioni . Forse perché in quel caso la crisi è arrivata prima. Forse perché questo voto è il vero, effettivo debutto sulla scena della Chiesa italiana formato Bergoglio, coincide con i cinque anni di pontificato di papa Francesco. La Conferenza episcopale ha scontato anni di sbandamento: il dopo-Ruini, il cardinale che muoveva i politici come pedine e ha prodotto il conformismo di associazioni e centri culturali, con i loro esponenti appassiti e esangui. Il vecchio establishment ecclesiastico è stato spazzato via dalla rivoluzione di Bergoglio, prima che dalla tempesta del 4 marzo, e ha già attraversato (non ancora concluso) il suo passaggio nel deserto. La Chiesa si ritrova all’appuntamento del dopo 4 marzo più debole e più sola, sconfitta almeno nel nord chiuso alle ragioni dell’accoglienza e della solidarietà verso i migranti, sfidata dal vento di destra nazionalista e clericale che Salvini ha agitato in piazza Duomo giurando sul Vangelo. Il distacco dalla propria base di fedeli domenicali, nel Nord della Lega e nel Sud dei Cinque stelle, coinvolge anche le gerarchie ecclesiastiche e i cenacoli intellettuali che si sono fatti sempre più ristretti. Ma la Chiesa può tentare di interpretare la società italiana meglio di altre agenzie, il Paese reale contrapposto al Paese legale, che in fondo è una delle eredità del cattolicesimo italiano del secolo scorso, però Viste dalla società, le fratture del 4 marzo sono più profonde perfino di quelle che dividono gli schieramenti politici oggi in Parlamento, come raccontano le pagine che seguono, un’inchiesta sull’Italia sconvolta e lacerata del dopo-voto, in cui è svanita la stessa idea di Maggioranza, ma resta irrisolta la questione della rappresentanza. È l’altra faccia di questa stagione di individui soli, che si affidano ai social network nell’anonimato della loro esistenza per far sentire la loro voce. Ricostruire, ricucire le fratture, era un’urgenza non soltanto metaforica già due anni fa, all’epoca della terrificante sequenza di terremoti nell’Italia centrale. Oggi è più che mai un’emergenza, come sa bene chi per dovere istituzionale ha il compito di trovare un percorso nelle macerie, l’inquilino del Quirinale Sergio Mattarella. Sull’Espresso in edicola da domenica 18 marzo l’inchiesta suila crisi di rappresentanza d Chiesa, associazioni di industriali, sindacati e magistratura
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