Ma la sinistra ha un futuro in Sardegna? [di Franco Mannoni]
A guardarsi in giro, sembra che abbiamo perduto la dimensione del futuro, perché le condotte di quelli che potremmo definire i grandi player appaiono rivolte al tempo breve, a garantirsi la continuità e la difesa dello status quo. Le questioni della sopravvivenza dell’uomo al rischio nucleare, del riscaldamento del pianeta, della pace e delle grandi migrazioni sono considerate solo nelle loro ricadute a breve e, specificamente, con riferimento alla difesa di quel tanto di vantaggi e diritti di cui si è in possesso. I nazionalismi e i populismi sono la proiezione politica e istituzionale del bisogno di sicurezza al presentarsi del rischio, sempre più fondato, di veder messo in forse lo status, pur precario, di cui si è dotati. Non trovano invece ascolto le analisi e le proiezioni che si fanno carico della complessità dei problemi e dei pericoli incombenti e tentano di articolare un discorso rivolto all’avvenire. Se risaliamo all’indietro troviamo le radici delle contraddizioni attuali. Perché di contraddizioni si tratta visto che il progresso tecnico non solo non si è fermato, ma, al contrario, conosce un’accelerazione senza pari e la produzione di ricchezza continua a crescere. Sappiamo che siamo nel tempo delle metamorfosi, come ha spiegato Ulrich Beck nel suo libro ultimo, pubblicato postumo, e che queste travolgono i capisaldi della vita associata così come erano stati costruiti dalla modernità. La globalizzazione ha elevato il tenore di vita di masse enormi, ma ha anche messo a confronto le diversità e le diseguaglianze. Nel contempo ha depotenziato il primato di quelle nazioni, occidentali, che nel novecento hanno conosciuto il benessere. All’interno di esse, nel decadere dei margini di profitto, si è aperta una faglia di diseguaglianza e di insicurezza, che da una parte vede gli inseriti e protetti, dall’altra gli esclusi e privi di sicurezza, su un versante gli anziani che godono delle tutele del passato e sull’altro i giovani senza tutele, su un versante gli abitanti delle metropoli e sull’altro i cittadini in fuga dai paesi. L’Italia riassume in sé gran parte di queste contraddizioni, alle quali contribuiscono negativamente la carenza di senso civico e la crisi specifica delle sue élites, che dura da decenni, nonché la stessa sua storia dell’Unità e, specificamente, il divario nord-sud. Non si riesce a valutare appieno il risultato elettorale del 4 marzo senza queste premesse. Il successo, assai parziale, ma evidente, ha arriso al populismo dei pentastellati e al nazionalismo, anch’esso populista, del centro destra a trazione leghista. Che hanno giocato le loro carte collocandosi nei punti di frattura esistenti e promettendo di risaldarli con un messaggio astuto, ma rivolto al breve. Nel profluvio di commenti sul voto, ancora in corso, mi ha convinto quello formulato non da specialisti demologi, ma da due economisti, Lucrezia Reichlin e Fabrizio Drago. Due non specialisti, quindi. Il focus del loro articolo è calibrato sul rapporto fra spesa pubblica, gestione di essa e ruolo delle élites. Adottano una tesi sostenuta da diversi analisti nel recente passato, quali Giulio Sapelli e, in Sardegna, da Pietro Maurandi e da Gianfranco Bottazzi. Secondo la quale, negli anni dello sviluppo sostenuto dalle risorse pubbliche, particolarmente nella fase del declino dello sviluppo industriale forzato, il ceto politico è diventato acquisitore e principale erogatore di risorse. Questo ha generato, in tempi di finanza abbondante, il crearsi di una figura di politico imprenditore, garante ed erogatore di risorse, una sorta di cacicco. Quando, per il concorso di più elementi, ma specificamente per la crisi della finanza pubblica, si è prosciugata tale possibilità, le condizioni dell’economia e della società meridionale sono peggiorate ed è scomparsa la via di acquisizione del consenso. Così è, in tutto o in parte, comunque così appare. Nella congestione di un sud senza lavoro, mentre il Nord si avvicina a tassi di occupazione eccellenti, povero di servizi, ossessionato dalle migrazioni enfatizzate dall’informazione, i partiti tradizionali hanno fatto flop, incapaci per un verso di rinnovare il circuito del potere e, per altro verso, di produrre una proposta nuova e credibile, di programmi e di personale politico. Ha funzionato la contrapposizione dei partiti populisti nei confronti di una politica facilmente rappresentabile come casta eterna e non scalabile. Sono considerazioni che mi sento di applicare tout court alla Sardegna, in questo caso in nulla diversa dal Meridione. Qui la crisi politica, irrisolta e ascendente alla metà degli anni novanta, con la decadenza del ruolo di rappresentanza dei partiti, ivi incluso il Psdaz che aveva conosciuto l’avanzata del decennio precedente, è dato permanente. L’alternanza imperfetta fra centro sinistra e centro destra al governo della Regione si è trasformata in una guerriglia con andamento a somma zero. La crisi generale di quest’ultimo decennio ha segnato un arretramento generale relativo dell’Isola rispetto al resto del paese e del Nord in maniera specifica. Esser ritornati ad un reddito inferiore al 75% della media dei paesi d’Europa è il segno palese di questo regresso. Ma è anche il risultato di due concorrenze. Una è il ritrarsi dello Stato italiano dai suoi doveri costituzionali che riguardano la promozione dello sviluppo e l’attuazione della cittadinanza. Il contenzioso con il governo centrale è stato stemperato dall’insufficienza e dall’ossequioso assenso dei partiti operanti in Sardegna ma proni alla volontà centralistica. Quando non dalla stretta osservanza filogovernativa delle giunte come quella in carica. E questa è la seconda concorrente ragione. Con queste premesse, peraltro annunciate, per chi non mettesse la testa sotto la sabbia, dai risultati del referendum del 4 dicembre 2016 e dalle ricorrenti sconfitte nelle elezioni comunali, cosa avrebbe potuto sperare il PD? Solo l’ufficializzazione di un disastro già scritto. Quello che è giunto dall’elettorato non è, a mio modo di vedere, un avviso, un messaggio, ma molto di più. E’ l’avvio impetuoso di un movimento comunque travolgente e dagli esiti imprevedibili. Non escluderei che, in un possibile quadro di Governo fra i vincitori delle elezioni nazionali, che gli stessi fondamenti dell’autonomia regionale non vengano messi in forse. Comunque il rischio che corriamo con le prossime elezioni regionali, in caso di vittoria dei Cinquestelle, è quello dell’omologazione ulteriore agli schemi italiani e, quindi della definitiva subordinazione dell’autonomia speciale. Possibile che un rivolgimento così imponente lasci intatto , nello spazio che corrisponde all’attuale ambito dei partiti in maggioranza del Consiglio Regionale e a quelli dell’area dell’indipendenza, lo stato dei rapporti e l’assetto dei gruppi dirigenti? Mi riferisco in particolare al PD. Che a mio parere nell’attuale configurazione di succursale del PD nazionale ha esaurito il suo compito. Ha senso invece che chi ha militato e milita in quella formazione politica, con una dirigenza del tutto rinnovata, riapra, senza perder tempo, una fase nuova di contatto, discussione e federazione con i soggetti che credono nella capacità dei sardi di autogovernarsi. Per costruire le condizioni di una politica riformista e di autogoverno della Sardegna. Non possiamo attendere che altri, ancora una volta, decidano per noi i sentieri del nostro futuro. Dove nostro non riguarda ciascuno di noi, ma quelli che ci saranno, e comunque il Popolo sardo.
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