Huffingtonpost.it 14 marzo 2018. Prima del vaffa a tutti, c’era stato l’urlo – “con questi dirigenti non vinceremo mai!” – scagliato contro la sinistra: senza parolacce, in giro-giro tondo: “Non avemmo il coraggio, io per primo, di organizzare quel movimento, senza preclusioni per un futuro anche di elezioni”, racconta Paolo Flores d’Arcais, direttore di MicroMega, intellettuale della sinistra più critica nei confronti dei partiti, teorizzatore dell’irruzione della società civile nella politica.
Guardando indietro alla piazza San Giovanni del settembre 2002, riempita da mezzo milione di persone da una manifestazione “organizzata in un mese, insieme a Nanni Moretti, Olivia Sleiter, Pancho Pardi”, d’Arcais imputa anche a se stesso l’errore di aver lasciato disperdere quel desiderio di dire “basta” che c’era nella società, a cui erano riusciti a fare da “catalizzatore”: “L’unico che ebbe l’audacia di dare struttura a un movimento che esisteva nel tessuto sociale italiano fu Beppe Grillo. Lo fece dicendo: ‘Fate tutti schifo”. Versione sguaiata e plebea di quello che aveva detto piazza San Giovanni: ‘I partiti non sono più riformabili'”.
Oggi che il Movimento 5 stelle ha ottenuto più del trenta per cento dei voti alle elezioni quel bisogno “latente” di proclamare un’indipendenza dalla politica così come era organizzata ha assunto una forma “né di destra né di sinistra”, poiché – spiega d’Arcais – gli stati d’animo collettivi non hanno una connotazione politica definita, anzi seguono la strada che traccia chi è capace di interpretarli: “La grande opportunità che ha Di Maio è quella di tentare una ‘mossa del cavallo’: una scelta inaspettata, spiazzante, al limite del temerario”.
Giacché sarebbe un “orrore” l’accordo con la Lega di Salvini e “ancora più difficile” trovare una sintonia con il Partito democratico, concedendo un “vice premier e alcuni ministeri”. Alla fine, risulterebbe una “scelta indigeribile”.
Che consiglia, allora?
“Che il Movimento 5 stelle proponga al capo dello Stato un governo con gli elementi portanti del proprio programma, la cui guida sia affidata a una personalità fuori dei partiti, che scelga ministri tutti della società civile. Sarebbe difficile, per i parlamentari Pd, anche se renziani, dire di no a una proposta che il presidente Mattarella presentasse (e che sarebbe) come la soluzione migliore per l’interesse generale”.
Di Maio ha già detto che il governo deve guidarlo lui, però.
“I 5 stelle dovrebbero avere un enorme coraggio: rinunciare ai posti di comando per realizzare il loro programma. In particolare due: la questione morale, cioè la lotta alla corruzione, e la questione sociale, ovvero il reddito di cittadinanza. Se lo facessero, i dirigenti del Movimento si comporterebbero per la prima volta da statisti, rinunciando al proprio narcisismo identitario (e anche personale) e mettendo il proprio programma veramente a disposizione dei cittadini. Sarebbero premiati per chissà quanti anni”.
Se il partito democratico votasse una proposta del genere non farebbe – per usare un termine che lei ha spesso usato – un inciucio?
“Al contrario, perché in ballo non ci sarebbe nessuna poltrona, ma un programma da realizzare”.
Come convincere il Pd a farlo?
“Se il Pd dovesse rifiutare un governo che abbia come asse prioritario la legalità e l’uguaglianza, guidato da una grande personalità (penso a un Zagrebelsky nella mia generazione, a un Montanari per la successiva), nelle inevitabili elezioni che sarebbero convocate a breve andrebbe sotto al dieci per cento”.
Il suo governo della società civile non assomiglia al governo tecnico di Monti?
“È l’esatto opposto”.
Perché? Anche allora i partiti trovarono una convergenza sui nomi di alcune riconosciute personalità.
“Ma quello era un governo reazionario, composto da elementi del peggiore establishment, mentre la società civile a cui penso io è quella che ha lottato contro questo sistema per trent’anni”.
C’è una società civile buona e una società civile cattiva?
“Sì. O, per essere più esatti, una società civile per il privilegio (che se ne frega della corruzione) e una società civile per l’eguaglianza (che la corruzione vuole aggredirla). Far parte della società civile di cui parlo non significa semplicemente essere fuori dai partiti: significa aver lottato contro Berlusconi, essersi opposti al governo D’Alema e alla partitocrazia protetta da Napolitano con Monti, Letta e Renzi”.
Lei non è cresciuto nei partiti?
“Mi iscrissi al partito comunista quando andai a studiare filosofia all’università, nel 1963: avevo meno di vent’anni. Da cane sciolto, ero stato eletto nella consulta di facoltà e il segretario della cellula comunista universitaria mi avvicinò e mi disse: ‘Perché non entri nel partito?'”.
Perché ne uscì?
“Mi cacciarono, dopo avermi processato”.
Che aveva fatto?
“Avevo maturato, via via, delle posizioni sempre più di sinistra. Mi ero avvicinato alla quarta internazionale; avevo denunciato, in una commemorazione ufficiale di Palmiro Togliatti, i suoi crimini; avevo stretto legami con i protagonisti del dissenso nei paesi dell’est. Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu la vittoria al congresso dell’Ugi nel 1967, l’organizzazione unitaria degli studenti di sinistra. Il partito era molto tollerante con il dissenso, ma non poteva tollerare che il dissenso vincesse. Così mi espulsero, con il voto favorevole del gruppo che di lì a poco avrebbe fondato il Manifesto. Si chiuse un capitolo della mia vita politica e se ne aprì un altro”.
Quale?
“Quello del sessantotto. Improvvisamente, tutti coloro che erano stati emarginati dal partito comunista, si trovarono a essere i protagonisti di un movimento gigantesco. Si realizzò così un singolare paradosso: mentre il partito comunista parlava in continuazione di movimenti di massa, a guidarne uno, nella realtà, si trovarono coloro che il partito aveva espulso”.
Lei non si avvicinò anche al partito socialista?
“Fu il partito socialista ad avvicinare me. Carlo Ripa di Meana mi invitò a organizzare il mega convegno sul dissenso nei paesi comunisti per la biennale di Venezia del 1977. Anni prima, avevo diffuso “Il marxismo polacco all’opposizione”, il libro di Modzelewski e Kuron pubblicato da un editore trozkista. Avevo sposato una donna polacca che aveva fatto il sessantotto sotto il regime filo-sovietico ed era stata imprigionata. Conoscevo molti altri protagonisti di quel movimento di contestazione”.
Non funzionò?
“Funzionò fino a quando non andai contro la linea del partito. Claudio Martelli mi aveva avvicinato, come ogni seduttore, dicendomi quello che avrei voluto sentirmi dire: “Che la loro politica culturale era autonoma dal partito comunista e dalla democrazia cristiana e che loro cercavano intellettuali disorganici, che dicessero quello che pensavano, sempre”. Lo presi sul serio”.
Poi cosa accadde?
“Divenni direttore del centro culturale Mondoperaio quando il segretario del partito, Bettino Craxi, aveva stretto un accordo con Lombardi e Giolitti, le ali sinistre del partito. Poi, per andare al governo, Craxi ruppe l’alleanza. Sull’Europeo” scrissi un articolo che aveva questo titolo: ‘Dal progetto, alle poltrone’. Il giorno dopo Rino Formica mi telefonò e mi disse: ‘Il centro culturale non ha più finanziamenti, non possiamo più pagarti lo stipendio'”.
Con i girotondi come andò?
“Grosso modo c’erano due linee: quella di chi pensava che il movimento dovesse servire a premere sui partiti della sinistra, costringendoli a cambiare il gruppo dirigente; e quella di chi credeva che occorreva dare una forma autonoma a quell’enorme partecipazione che si era manifestata. Io appartenevo alla seconda scuola, ma non ebbi il coraggio di trarne le conseguenze”.
Perché non lo fece?
“Per qualche anno, sarebbe stato necessario dedicarvi ogni energia e tempo. Avrei dovuto lasciare la direzione di “Micromega” e sacrificare la vita familiare. Non me la sentii”.
Lo considera uno spreco?
“Politicamente, sì. Ma i bisogni collettivi vivono nella società e prima o poi qualcuno riesce a interpretarli e guidarli. Allora, c’era un modo iper democratico e di sinistra di dire: ‘Basta con questo sistema’. Poi, ci fu il Popolo viola e altre grandi manifestazioni. Ma le persone che partecipavano erano sempre le stesse. Finché Grillo ebbe l’ardire di fare ciò che noi non fummo in grado di fare”.
Le piacque quel modo?
“Potrei riempire un intero numero della mia rivista con le critiche che ho mosso a lui e ai suoi metodi. Però, riconosco che votare 5 Stelle è l’unica cosa razionale che si possa fare oggi in Italia”.
Lei l’ha fatto?
“No. Quando sono arrivato al seggio, le mie viscere hanno protestato contro le insopportabili cose che hanno combinato negli ultimi mesi di campagna elettorale, e ho votato Potere al popolo”.
È un pentito?
“Mi sono pentito di aver votato per Walter Veltroni nel 2008 per cercare di fermare Silvio Berlusconi. Non mi sono pentito di aver votato per i 5 stelle alle scorse politiche, alle europee, alle comunali, benché a Roma abbiano fatto dei disastri”.
Non teme che al governo del paese possano fare la stessa cosa?
“Tra l’incertezza rischiosa sul cosa faranno e lo schifo che già conosco, preferisco l’incertezza, anche se non mi faccio nessuna illusione”.
È vero che ha origini nobili?
“Una volta, Francesco Cossiga mi chiamò e mi disse: “Flores, lei è estinto”. Nel libro d’oro della nobiltà italiana – che consultava spesso – il nome della mia famiglia non c’era più. In realtà risultava ancora. Ma i titoli nobiliari sono stati aboliti nel 1946. Non se ne dovrebbe più parlare”.
Ma della sua storia familiare va orgoglioso?
Vado orgoglioso di un mio avolo che dissipò l’intero patrimonio familiare dietro una ballerina creola, seguendola sino in Sud America. Patrimonio gigantesco (quasi un sesto della Sardegna) accumulato dal primo “Marchese”, insignito del titolo dai Savoia in quanto loro esattore delle tasse. Un “cugino Salvo” dell’epoca.
Come lui, anche lei ha dissipato un patrimonio, quello dei girotondi?
“In senso politico sì, ma non ne vado affatto orgoglioso”.
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