Negiba [di Gianni Loy]
La prima chiamata arrivò al 115 alle sette e mezzo del mattino: dalla zona di via S. Paolo si era levata una colonna di fumo. No. Non sembra un grande incendio – aveva risposto una voce maschile al centralinista dei Vigili del fuoco che domandava maggiori dettagli – Ma non si sa mai. E’ sempre meglio fare il nostro dovere di cittadini e segnalare ogni anomalia. Invieremo una pattuglia per controllare. Nel campo di Via S. Paolo si era formato un cerchio spontaneo di alcune centinaia di persone. Donne con lunghe gonne colorate, con ori e argenti sul collo, uomini alcuni con baffi bianchi arricciati e con un capello nero sulla testa, stavano in silenzio attorno ad una baracca di legno, una di quelle del campo dei Rom korakané, di fianco alla strada per l’aeroporto. Una baracca grande, ma ad un piano, osservata dall’alto, con civetteria, dalle vicine baracche che di piani, invece, ne ostentavano due. Safet avvicinò una torcia alle esche di legna e carta già predisposte sulla porta della casa. Il fuoco si guadagnò la strada a poco a poco, strizzò l’occhio tra le prime assi di legno, poi arrivò alle tende ed infine la fiammata divampò improvvisa a rischiarare la luce ancora incerta del mattino, ad arrossare per un attimo quei volti scavati, ad illuminare lo stupore dei bambini. Poi si levò una piccola colonna di fumo. Proprio in quel momento, il signor Frau si era affacciato alla finestra, probabilmente per osservare il tempo e decidere se prendere con sé l’ombrello per la consueta passeggiata mattutina, ed aveva avvistato le prime colonne di fumo. In quel preciso momento terminava la sua esistenza la casa terrena di Negiba. Negiba, la madre di innumerevoli figli, la sua vita terrena l’aveva restituita tre giorni prima. L’aveva restituita a poco a poco, divorata da un male che le aveva succhiato tutte le energie. Aveva fatto ricorso alle sue ultime forze per tentare di restare aggrappata a quei figli che le stavano intorno lacrimando in silenzio, fumando una sigaretta dietro l’altra, stringendole la mano. Poi aveva smesso di respirare, con gli occhi aperti fissando un punto dello spazio che nessun altro poteva vedere.Così, Negiba, aveva restituito la sua vita! Ma, prima di morire, aveva visitato le porte di mille città. Aveva conosciuto una casa di pietre, da bambina, in Montenegro, e strade su cui giocare, prima che tutta la sua famiglia, e tante altre di korakané come la sua, fossero cacciate lontano per uno stupido pregiudizio.Eppure era stata fortunata, perché altri erano stati presi da uomini in uniforme e portati lontano su treni blindati, di loro non se ne era più saputo niente. Lei, invece, aveva potuto provare stupore per mille albe e per altrettanti tramonti, aveva teso la mano sulle scale di mille chiese, aveva respirato i fumi delle auto di mille semafori, quando era ancora bambina, ed era un gioco per lei, che non capiva il naso storto di signori eleganti e di signore imbellettate che la osservavano con uno sguardo oscillante tra il disprezzo e la commiserazione. Negiba era passata dal gioco alla vita senza quasi rendersene conto. Assecondando il volere dei genitori era diventata moglie di un ragazzo poco più grande di lei. Poi aveva appreso a leggere la mano, piccoli inganni per guadagnare le lire, aveva imparato a nascondere qualche oggetto sotto le gonne, poi erano arrivati i figli, uno dopo l’altro, inframmezzati da aborti spontanei. Alcuni li aveva potuti accudire per poco, perché Tiziana era stata presto stroncata da una broncopolmonite, in una notte d’inverno, un’altro era rimasto soffocato nel rogo di una rulotta. Oh, quanto li aveva amati, accuditi, ed educati. I superstiti erano cresciuti sani. Da piccoli li aveva portati nelle scalinate delle chiese e nei semafori, dove a volte si divertivano. Non viaggiavano più, perché la loro casa era orami quel campo di periferia da dove, quel giorno, si era levata la colonna di fumo. Il suo marito-ragazzo si era fatto uomo, si era lasciato crescere i baffi, si procurava il rame e lo lavorava, così come aveva appreso dal padre, ed il padre dal padre di suo padre. Ma prima ancor che il suo pelo diventasse grigio, quando si era appena lasciato contagiare dal vezzo di arricciarsi i baffi, come capita ad una certa età, era morto. Negiba era rimasta sola con i suoi otto figli rimasti, nella sua baracca, a strigliarli ad uno ad uno mentre si facevano uomini e donne. Ad uno ad uno vedendoli andar via, prendere moglie o marito e costruirsi ciascuno una piccola baracca nello spiazzo antistante, finché la sua baracca era diventata il centro di un piccolo agglomerato, la sua grande famiglia. E lei, anche se donna, era diventata la capofamiglia, ed i figli, anche i figli maschi, i figli maschi forse ancor più delle femmine, l’avevano venerata e l’avevano accudita. Un giorno era arrivata nel campo una donna gaggé che presto aveva incominciato a parlare con gli uomini della comunità, allora Negiba non lavorava quasi più. Quella donna aveva fatto portare un cubo di cemento proprio vicino alla sua piazza. Alcuni dei suoi figli l’avevano aiutata ad allestire quel cubo di cemento che, in poco tempo, era diventato una scuola con tanti banchi ed una lavagna. La donna gaggè che parlava con gli uomini aveva detto che scuola sarebbe stata aperta solo alle donne. Per questo vi erano stati mugugni, ma alla fine molti uomini avevano permesso alle loro mogli di frequentare la scuola, qualche volta custodendo i bambini piccoli mentre le loro mogli apprendevano a leggere, a scrivere ed a far di conto. Negiba, mentre le loro madri frequentavano la scuola, custodiva i nipoti, perché le si addiceva, perché era già vecchia, anche se di anni non ne aveva molti, ma aveva molto vissuto. Aveva preso l’abitudine di affacciarsi alla finestra della scuola, tenendo in braccio uno dei bambini più piccoli, per ascoltare le maestre. Così, a poco a poco, aveva fatto amicizia con la donna gaggé che aveva portato la scuola. A volte prendevano assieme il caffè turco, e parlavano. La donna gaggè, un giorno, le aveva detto che le avrebbe insegnato a leggere, se avesse voluto. Aveva insistito, ma Negiba si era schernita, perché veniva dal Montenegro, perché aveva viaggiato molto ed aveva lavorato ancora di più, ed i suoi figli avevano tutti una famiglia, ed era bene che fossero loro ad imparare, perché lei sentiva che la sua ora si avvicinava, che non era più il tempo. Il giorno dopo la sua morte era arrivato un marabut, nero, mussulmano come lei. Aveva recitato le sue preghiere in arabo, accompagnato da una specie di assistente marocchino che mostrava di capire quella lingua, che ogni tanto rispondeva qualcosa che somigliava ad un Amen.La bara era stata collocata proprio al centro della piazza, davanti alla sua baracca, i korakané erano tutti in cerchio. Alcuni gaggè, loro amici, assistevano da più lontano. Quando la cerimonia stava per terminare, Kassom, uno dei figli di Negiba, si era avvicinato al bordo del campo ed aveva fatto segno alla maestra gaggè di avvicinarsi. La maestra, che sino a quel momento, per discrezione, era stata in disparte, si era avvicinata alla bara ed aveva osservato a lungo il volto dell’amica che non aveva voluto imparare a leggere: era nel suo vestito di festa, con le labbra dipinte di carminio. I korakané si erano allontanati e lei era rimasta sola, al centro di una corona di uomini e donne in silenzio, si era chinata sull’amica e l’aveva baciata sulla fronte, poi era tornata al suo posto. Così Negiba aveva ricevuto l’ultimo saluto. Poi i figli avevano deposto il coperchio sulla bara. Due giorni dopo, quando Negiba era già stata sepolta, portandosi dentro il loculo due bottiglie di caffè ed il suo tappeto, il signor Frau passeggiava per la via Roma, aveva preso il suo cappuccino seduto ad un tavolino del Caffè Torino e si avviava a comprare il latte, prima di far rientro a casa. In quello stesso momento, decine di korakané, in cerchio come due giorni prima, osservavano in silenzio il fuoco che si prendeva la casa. Tra le fiamme che si aggrovigliavano attorno ai cartoni delle pareti ciascuno intravedeva un suo sogno od una sua paura, i bambini più di tutti. Nel limitare della piazza brontolava il motore di alcuni furgoni, carichi di tutto quanto serve ai Rom per spostarsi da una prateria ad un’altra. Le donne erano già dentro, i bambini erano affacciati ai finestrini. I figli maschi di Negiba erano ancora accanto alla pira, le pareti erano già crollate, il grande falò si disperdeva in focolari residui. I figli di Negiba partivano, perché non avrebbero potuto sopportare di vivere in un luogo dove erano stati felici con la loro madre. Per questo bruciavano la baracca, secondo il costume che era stato dei loro genitori e dei loro avi, partivano per evitare che il loro cuore si spezzasse, sarebbero andati lontano per abituarsi alla mancanza della loro madre. Probabilmente sarebbero tornati, dopo qualche mese o qualche anno, se non tutti almeno una parte di essi, perché quella prateria sulle rive dello stagno, dove erano nati i loro figli, era diventata la loro casa. Quando i vigili del fuoco arrivarono, sopra i mucchi di cenere rimanevano soltanto poche fiammelle, sembravano ceri votivi. Capirono subito che non occorreva il loro intervento. Tuttavia, il più giovane della pattuglia disse che avrebbe azionato la pompa per spegnere i resti di quel fuoco, ma il comandante lo fermò: No! Rispetta il loro rito. Essi sanno da sempre come comportarsi, altri, e non loro, sono i responsabili dei roghi che in questi ultimi anni hanno causato danni in città. Cinque uomini diedero un ultimo sguardo ai resti della baracca della loro madre, inclinarono lo sguardo verso terra, entrarono nei loro furgoni, ingranarono la marcia e si avviarono, senza mai voltarsi indietro, verso il porto. Solo allora il comandante si avvicinò ad un vecchio korakané che se ne stava in disparte. Il vecchio aveva capelli bianchi, naso aquilino, baffi folti che gli scendevano sin sotto il mento, guance solcate da rughe, occhi celesti e profondi. E’ successo qualcosa? Chiese il comandante al vecchio.Il vecchio si voltò, lo fissò negli occhi e gli rispose: Niente. Assolutamente niente. E’ già tutto finito. Il signor Frau rientrò dalla sua passeggiata verso le nove e mezza, con una scatola di latte dentro una busta di plastica ed il giornale sottobraccio. Non appena rientrato in casa corse alla finestra e scrutò in direzione dello stagno per controllare se si vedessero ancora i segni dell’incendio. Non vide nulla, proprio neppure un filo di fumo. Quindi entrò dentro casa e disse alla moglie: I vigili del fuoco, grazie alla mia segnalazione, hanno già domato l’incendio, possiamo star tranquilli. Cagliari 3 marzo 2003
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