La sinistra e i contenuti, ovvero Keynes e la mucca nel corridoio [di Vincenzo Maffe]
il manifesto, 3 aprile 2018. Una ricostruzione della sinistra in Italia non può prescindere da una critica impietosa che riguardi i contenuti della proposta politica prima che il modo in cui essa è stata presentata. Una critica che non può trascurare di aprire finalmente gli occhi sulla «mucca che è nel corridoio»: la precarietà del lavoro. Intendo sostenere che questo problema, ampiamente denunciato, non è mai stato in realtà affrontato sul serio, per lo meno da parte della sinistra finora rappresentata in Parlamento. Ci si è baloccati con idee bizzarre quali gli incentivi ai rapporti di lavoro stabili (come se la ricattabilità dei lavoratori non fosse l’incentivo più auspicato dalle imprese), gli articoli 17 e mezzo e amenità simili. Soprattutto non ci si è resi conto che l’abbattimento della precarietà del lavoro è in realtà il presupposto imprescindibile di una politica coerente per l’occupazione, e non qualcosa a cui si possa pensare in un secondo momento, quando l’auspicata ripresa economica sia stata avviata. Prendiamo per esempio il caso di Liberi e Uguali. Come ribadito sulla Repubblica del 18 febbraio, il programma economico di Leu si ispirava ad una “visione keynesiana”, che si concretizzava in “due punti fondamentali”: l’aumento della “spesa pubblica per investimenti ad alto moltiplicatore” e la riduzione dell’imposizione fiscale, ma solo nei limiti consentiti dal recupero dell’evasione. Com’è noto, Keynes riteneva che l’occupazione e il reddito possano crescere soltanto come conseguenza di un’espansione della domanda aggregata, e cioè della domanda complessiva di beni e servizi. Alla politica economica era assegnato il ruolo di sostenerla, qualora essa si fosse rivelata insufficiente; l’aumento iniziale del reddito e dell’occupazione generato dall’intervento pubblico avrebbe a sua volta alimentato la crescita dei consumi privati ̶ che dal reddito dipendono ̶ dando così luogo ad un’espansione ulteriore della domanda. E’ in quest’ottica, dunque, che il programma di Liberi e Uguali proponeva di sostenere gli investimenti pubblici “ad alto moltiplicatore”, e cioè quelli in grado di determinare gli effetti più significativi sul reddito e sull’occupazione. Quelli, in altri termini, capaci a loro volta di fornire maggiore alimento alla spesa per consumi che dovrebbe essere stimolata dall’intervento iniziale dello stato. Eppure, nella dichiarata adesione di Leu ad una prospettiva keynesiana c’è qualcosa che non torna; qualcosa che riguarda la questione, centrale nell’analisi di Keynes, della relazione tra la domanda aggregata e la distribuzione del reddito. Keynes riteneva che il volume della domanda aggregata, e in particolare il livello dei consumi, non sia indipendente dalla distribuzione del reddito tra le classi sociali. Questo perché i ceti sociali più benestanti risparmiano in genere una quota significativa del proprio reddito; quelli relativamente meno abbienti ne consumano invece una quota molto elevata. Di conseguenza quanto più il reddito è concentrato in poche mani, tanto maggiore sarà la percentuale di esso che verrà risparmiata, e quindi tanto più contenuto sarà il livello dei consumi. Un alto grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito limita dunque la crescita dei consumi e, con essa, l’espansione della domanda aggregata e dell’occupazione: la propensione al risparmio dei membri più ricchi della società, affermava Keynes, può essere incompatibile con l’occupazione dei suoi membri più poveri. Una politica economica di ispirazione keynesiana non può dunque prescindere dalla questione delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, soprattutto quando queste sono molto accentuate e vanno addirittura aumentando, come accade ormai da molti anni. Se questa tendenza dovesse persistere, sarebbero ben poco efficaci gli aumenti della spesa pubblica per investimenti auspicati da Leu. Sarebbe, inoltre, completamente esclusa la possibilità che essi possano rivelarsi “ad alto moltiplicatore”, dato che la loro efficacia nell’alimentare la crescita dei consumi dipende in maniera cruciale dal livello della propensione al consumo della collettività. In passato questo problema tendeva almeno in parte a risolversi man mano che l’intervento pubblico, avviando una ripresa dell’occupazione, contribuiva ad accrescere la forza contrattuale e quindi le retribuzioni dei lavoratori. In questo modo l’incremento dell’occupazione, determinato inizialmente dall’intervento dello Stato, veniva poi alimentato dall’espansione dei consumi che era consentita anche dal mutamento della distribuzione del reddito. Tutto questo non è più possibile. Le norme che sono state via via introdotte hanno favorito il dilagare dei rapporti di lavoro precari, con la conseguenza di ridurre drasticamente la forza contrattuale dei lavoratori. Anche in presenza di una ripresa dell’occupazione non c’è da aspettarsi un incremento dei salari reali che possa invertire la tendenza all’aumento delle disuguaglianze. E’ stato insomma creato un contesto istituzionale che favorisce una distribuzione del reddito via via più sperequata: un elemento che, come abbiamo visto, tende a limitare la crescita dei consumi e, più in generale, della domanda aggregata. Insomma, non c’è poi molto da aspettarsi, in termini di crescita del reddito e dell’occupazione, da una semplice politica di investimenti pubblici. Una politica economica di impostazione keynesiana deve dunque prevedere un’immediata e drastica riduzione della precarietà dei rapporti di lavoro. In mancanza di questa, è illusorio pensare ad un aumento degli investimenti pubblici come ad una seria possibilità per una ripresa della crescita; ancora più illusorio è parlare di investimenti “ad alto moltiplicatore”. Nel programma di Liberi e Uguali lo “scandalo” della crescente disuguaglianza dei redditi viene sottolineato. Si ritiene però che la “via maestra per la redistribuzione di redditi e ricchezza è quella verso la piena e buona occupazione, da stimolare tramite un piano straordinario di investimenti”. La redistribuzione del reddito viene dunque considerata un risultato della crescita dell’occupazione, e non come la condizione necessaria perché essa si realizzi. Sembra sfuggire che l’auspicata crescita dell’occupazione non può realizzarsi senza la preliminare rimozione dell’ostacolo alla redistribuzione del reddito costituito dalla precarietà del lavoro. Certo, nel programma di Liberi e Uguali viene affermata la necessità di interventi orientati a cancellare il “ricatto della precarietà”. E’ difficile tuttavia sfuggire alla sensazione che l’aumento degli investimenti pubblici sia considerato il vero provvedimento urgente, mentre il “superamento” dei rapporti di lavoro precari sia una questione di più lungo periodo, da affrontare una volta che siano stati realizzati incrementi apprezzabili dell’occupazione. Non si spiega altrimenti perché dell’abbattimento della precarietà non sia stata fatta una vera e propria bandiera elettorale (nelle dichiarazioni pubbliche si è parlato prevalentemente di cancellazione del Jobs Act, come se prima di questo la precarietà non fosse già dilagante!). Un atteggiamento dettato forse dalla convinzione che, almeno in una prima fase, un aumento della forza contrattuale dei lavoratori possa danneggiare la ripresa dell’occupazione. Questo significherebbe però, parafrasando Keynes, essere ancora “schiavi” di un’impostazione economica che l’identità e il programma di una sinistra adeguata ai tempi dovrebbe considerare sostanzialmente “defunta”.
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