Superpoliticamente apolitico. L’uso dei corpi [di Lorenzo Chiesa]
MicroMega.it 16 aprile 2018. Qualche anno fa, nel 2014, Giorgio Agamben ha chiuso il ciclo di “Homo sacer” con la pubblicazione di “L’uso dei corpi”*. In questa recensione, uscita originariamente sullo Stanford University Blog in occasione della traduzione in inglese del libro, Lorenzo Chiesa ne ha approfittato per fare il punto sul significato complessivo della operazione filosofica agambeniana, mettendone in luce tanto la coerenza quanto le ambiguità. L’uso dei corpi ruota attorno a ciò che, citando l’Antigone di Sofocle, Agamben chiama “superpolitico apolitico” (hypsipolis apolis). L’espressione compare soltanto due volte nel libro ma è del tutto decisiva. Che cos’è vivere in quanto “superpolitico apolitico”? È vivere e, allo stesso tempo, pensare una politica liberata da ogni “figura della relazione” (e della rappresentazione) nella quale, tuttavia, “siamo insieme” al di là di qualsiasi relazione. Questo essere-insieme non relazionale richiede l’“uso dei corpi” – nel senso soggettivo del genitivo. Ovvero, un altro corpo – improduttivo, non strumentale – è possibile per l’essere umano nella misura in cui emerge una “zona d’indifferenza” tra il proprio corpo e quello di un altro. L’uso diventa uso comune. Il “superpolitico apolitico” comporta pure un ambizioso disinnesco dell’intero dispositivo della metafisica occidentale, come intesa a partire almeno da Aristotele. L’ontologia, in quanto inscindibile dalla politica, è infatti fondata sulla relazione di bando, la quale in definitiva fonda qualsiasi tipo di relazione. Il primo volume della serie Homo sacer sosteneva che la separazione tra la vita naturale (zoè) e la vita politica (bios) – ossia il nostro comprendere la soglia antropogenetica come una frattura tra vita e linguaggio – coincide sempre con la messa al bando – o meglio l’“esclusione inclusiva” – della “nuda vita” (la vita sprovvista della sua forma) dalla polis. L’uso dei corpi comprova e complica questa ipotesi. Ontologicamente, è la nozione stessa di soggetto, l’hypokeimenon aristotelico in quanto esistenza singolare, “che deve essere insieme esclusa e catturata nel dispositivo”. È soltanto attraverso la destituzione dell’ontologia tradizionale che la forma di vita (sempre più riducibile alla nuda vita nella modernità e nella contemporaneità) può esprimersi come una forma-di-vita senza soluzioni di continuità, nella quale la vita vive immanentemente il suo modo di essere in un “contatto” non relazionale con il suo contesto e trova la “felicità”. La forma-di-vita come un essere in comune non relazionale con l’altro contestuale può anche venire compresa nei termini di un annullamento della relazione aristotelica tra potenza e atto. In quanto uso, la forma-di-vita è una potenza che non viene esaurita dal passaggio all’atto (o essere all’opera), ma, contemplandosi come disattivazione dell’atto, diventa inoperosa, potenza di potenza. L’uso dei corpi risponde alla tesi centrale, e all’epoca piuttosto enigmatica, proposta in Homo sacer I – quella di una nuova politica intesa come relazione non relazionale – con il “superpolitico apolitico” come ulteriore ossimoro. Ma non si tratta di una semplice impasse. L’ossimoro (nelle sue diverse varianti) viene sia dispiegato – attraverso una discussione approfondita dei concetti di uso e di forma-di-vita – che usato come un indicatore concreto della crisi radicale in cui versano le nostre categorie politiche e ontologiche – e in questo modo funziona anche come un incitamento pratico a renderle del tutto inoperose. All’inizio di L’uso dei corpi Agamben si oppone a ogni divisione netta tra la pars construens e quella destruens di un’opera. Rigetta pure l’idea stessa di conclusione. Eppure il lettore non può evitare l’impressione, forse ingenua, che questo libro in un certo modo concluda costruttivamente – e ostinatamente – la serie Homo sacer nel suo complesso. Qui bisogna innanzitutto riconoscere ed elogiare la tenace determinazione necessaria per portare a termine un progetto ventennale, un’impresa monumentale che ora mette in mostra un raro livello di consistenza. Agamben viene troppo spesso riverito – e vanamente emulato – per la supposta irriverenza del suo stile impressionistico, quasi aforistico, e tortuoso. Ciò è altamente fuorviante, specialmente se consideriamo in modo retroattivo l’intera serie Homo sacer. Volutamente o meno, Agamben ne emerge come uno dei pensatori più sistematici del nostro tempo. Il suo stile frammentario (e la nozione di stile viene associata strettamente all’idea di forma-di-vita in L’uso dei corpi) equivale forse a niente meno di quanto Agamben stesso chiamerebbe una “segnatura” del suo sistema filosofico. Stabilire se le sue conclusioni siano condivisibili – e se sì in quale misura – resta una questione completamente diversa. Facendo nostra l’ammissione dello stesso Agamben, in Il fuoco e il racconto, che “l’elemento genuinamente filosofico” contenuto nelle opere degli autori da lui amati corrisponde alla loro “capacità di sviluppo”, proviamo anche noi a sviluppare alcune delle sue conclusioni – e così anche, inevitabilmente, a iniziare a metterle alla prova. Ad un certo punto L’uso dei corpi sostiene senza mezzi termini che “ontologia e politica si corrispondono perfettamente”. Altrove nel libro si afferma pure che l’ontologia modale, ovvero l’ontologia dell’uso, “coincide con un’etica”. Il soggetto che si costituisce nell’uso in quanto forma-di-vita e “contemplazione di una potenza” viene a sua volta specificato, in varie occasioni, come indiscriminatamente etico e politico. Inoltre, l’opera del tardo Foucault sulla cura di sé in quanto uso dei corpi riuscirebbe a fondere positivamente etica ed estetica. Data questa vertiginosa serie di inaspettate equazioni – che aggiornano con coraggio i rami tradizionali della filosofia ma rischiano pure di renderli indistinguibili – come può la filosofia, alla quale viene ancora affidato esplicitamente il compito supremo di “costruire una vita insieme ‘superpolitica e apolitica’”, preservare qui il suo ruolo autonomo? Si tratta forse di “dire di sì” criticamente al linguaggio (come si concludeva nell’enormemente sottovalutato Il sacramento del linguaggio)? Oppure – più problematicamente, a mio vedere – si tratta invece di un filosofo-poeta, o di un poeta-filosofo, che contempla il suo abitare il linguaggio (come accennato in Il fuoco e il racconto)? A prescindere dal fatto che in L’uso dei corpi Agamben distanzia rigorosamente il suo pensiero da quello di Heidegger (molto più che nel resto della sua opera), se dovessimo optare per la seconda via, come potrebbe il filosofo evitare di imitare goffamente l’“abitare la vita” (come forma-di-vita) hölderliniano, il quale, secondo lo stesso Agamben, fece al contempo “andare in pezzi la lingua di Hölderlin”? Altrove ho cercato di dimostrare che la filosofia di Agamben equivale in ultima istanza a un sofisticato, elegante, e paradossale tipo di vitalismo linguistico. La potenza del pensiero sembra identificare il sommo obiettivo ontologico con una comprensione della “natura del pensiero”, e quindi del linguaggio, dalla prospettiva della “vita […] come una potenza che incessantemente eccede le sue forme e le sue realizzazioni”. La forma-di-vita – per quanto “immanentemente” e superando la dicotomia aristotelica tra potenza e atto – pre-suppone ancora una forza-di-vita. Eppure L’uso dei corpi sorprendentemente ma decisamente respinge il vitalismo: “portare alla luce – al di fuori di ogni vitalismo – l’intimo intreccio di essere e vivere: questo è certamente oggi il compito del pensiero (e della politica)”. Resta comunque inevasa la questione di come, in parole povere, l’onto-logia politica della forma-di-vita non assegni alla vita una precedenza rispetto alla sua forma. Siamo qui di fronte a un punto spinoso che riguarda da vicino la maggior parte dei pensatori biopolitici italiani più affermati, indipendentemente dal fatto che sostengano apertamente il vitalismo o meno e che si rendano conto o no delle sue connotazioni cristiane latenti – l’evangelium vitae, o logos della vita, come un paradigma tacito (o non così tacito). In L’uso dei corpi, Agamben smarca senza dubbio la sua posizione da quella del francescanesimo – nei libri precedenti, questa demarcazione era più difficile da notare, il che poteva portare a dei fraintendimenti. Il concetto francescano di uso si baserebbe su un atto di “rinuncia”, e quindi sulla “volontà del soggetto”; al contrario, l’uso in quanto forma-di-vita deve essere fondato sulla “natura delle cose”. Ma se ci opponiamo alla “vita eterna” cristiana – che ora la Chiesa ormai laicizzata tende essa stessa a ridurre a mera “sopravvivenza” biopolitica – come dobbiamo concepire tale “natura delle cose”? In che modo la “vitalità o forma di vita dell’individuo” non-soggettivato, o l’“impulso” e la “virtù” della “vita in quanto tale” non ricadrebbero nel vitalismo? Negli ultimi due decenni, Agamben è stato ripetutamente collegato, in modo più o meno convincente, a una sinistra radicale che, attraverso autori quali Badiou e Žižek, sta cercando di promuovere una nuova “ipotesi comunista”. La conclusione della serie Homo sacer rende perfettamente palese che Agamben non è un marxista – ma, a dire il vero, non si era mai realmente prestato a un tale equivoco. La “forma di produzione” di Marx non è la forma-di-vita di Agamben, anche solo perché la seconda coincide con una “forma di inoperosità”, che rende inoperose le opere e così facendo le usa. Secondo Agamben, Marx non sarebbe riuscito a pensare l’inoperosità, come risulterebbe chiaro dalla sua idea di “attività umana nella società senza classi”, ovvero nella vita comunista. Per quanto tale interpretazione dell’esito del percorso marxiano sia discutibile, interessa qui sottolineare che l’inoperosità stessa (in quanto uso dei corpi della forma-di-vita) ci permetterebbe di cogliere la “società senza classi” come “già presente nella società capitalistica”. Agamben non si sta qui riferendo alla presenza della marxiana classe-dei-senza-classe nella società capitalistica (sia essa il proletariato o qualsiasi delle sue altre figure contemporanee). La società senza classi che sarebbe già presente – “in forme eventualmente infami e risibili” – equivale di nuovo all’“uso comune”, nel quale ciò che soprattutto conta – come già anticipato vent’anni prima in Mezzi senza fine – è la “comunicazione non di un comune, ma di una comunicabilità”, ovvero di una potenza. È sul serio possibile pensare e vivere in una comunità basata esclusivamente sulla potenzialità in quanto essere-in-comune? Possiamo ancora chiederci legittimamente se il concetto di forma-di-vita – come uso dei corpi – cerchi di pensare una versione rinnovata e aggiornata al ventunesimo secolo dell’anarchismo. Tuttavia bisogna aggiungere subito due clausole a questo riguardo. Innanzitutto, elaborando le intuizioni dell’ultimo Pasolini, la vera anarchia è, per Agamben, quella del potere statale e della sua sovranità. In secondo luogo, e in stretto rapporto con ciò, l’anarchismo di Agamben – se di anarchismo si tratta – pensa con determinazione proprio l’archè. Come suggerito brevemente in Il fuoco e il racconto, l’origine (e il principio) in questione non equivalgono affatto a un punto remoto nel tempo, ma invece a un “a priori storico, che resta immanente al divenire e continua ad agire in esso”. Per quale ragione? Perché la struttura dell’archè (non soltanto in politica e nell’ontologia, ma anche nel diritto, nell’amministrazione, e nella definizione stessa dell’umano) segue una strategia precisa: “qualcosa viene diviso, escluso e respinto al fondo e, proprio attraverso questa esclusione, viene incluso come archè e fondamento”. Eppure, se, come suggerisce lo stesso Agamben, questo “meccanismo dell’eccezione” è strutturalmente collegato con il linguaggio e con l’antropogenesi, che cosa implicherebbe veramente per l’animale parlante rendere inoperosa, archeologicamente, la struttura dell’archè – ovvero, esibire il vuoto al suo centro? La forma-di-vita “anarchica” proposta da Agamben è pronta a sopportare tutte le conseguenze di “una vita inseparabile, né animale né umana”? Nella nostra società la forma-di-vita non esiste ancora “nella sua pienezza”. Ma vi sono luoghi “non edificanti” in cui si possono già comprovare esempi di vite inseparabili dalle loro forme. L’uso dei corpi abbonda quindi di riferimenti positivi al sadomasochismo come un’“intimità” inappropriabile che frena l’avanzata del possesso geloso, alla perversione sessuale in genere come una sorta di “vita beata”, e a un certo Sade che ci offrirebbe un paradigma parodico ma anche “serissimo” dell’uso dei corpi come essere-in-comune. Non si tratta qui semplicemente della perversione intesa nei termini di una delle possibili forme basilari di soggettivazione e sessuazione, che, seguendo la psicoanalisi lacaniana, sarebbe in quanto tale eticamente neutrale (infatti la forma-di-vita come uso dei corpi pretende di essersi sbarazzata della soggettività tout-court, per quanto scissa ed evanescente possa essere). In queste esperienze desoggettivate nelle quali la vita “è stata messa interamente in gioco ” in un certo “comportamento perverso” ci troviamo piuttosto di fronte a ciò che Agamben stesso deve riconoscere come delle patologie… almeno “nelle circostanze presenti”. Questa “zona di irresponsabilità” – secondo Agamben vissuta in prima persona da Foucault – corrisponde davvero a quanto di più vicino abbiamo, per il momento, a un modello del “superpolitico apolitico”? *Lorenzo Chiesa dirige la GSH – Genoa School of Humanities e insegna al Freud Museum di Londra. È stato professore ordinario di pensiero moderno europeo alla University of Kent dove ha fondato e diretto il Centre for Critical Thought. Ha scritto libri e curato volumi sulla psicoanalisi (Subjectivity and Otherness, MIT Press, 2007; Lacan and Philosophy, Re.press, 2014; The Not-Two, MIT Press, 2016) e sul pensiero biopolitico (The Italian Difference, Re.press, 2009 [con Alberto Toscano]; Italian Thought Today, Routledge, 2014; The Virtual Point of Freedom, Northwestern University Press, 2016). ** Recensione pubblicata originariamente in inglese su The Stanford University Press Blog (http://stanfordpress.typepad.com/blog/2016/07/superpolitically-apolitical-.html) (ristampa: Journal of Italian Philosophy, Volume 1 (2018)). Traduzione italiana dell’autore.
|