Sardegna laboratorio per uno sviluppo diverso. Note a “Oltre il capitalismo” di Giulio Sapelli [di Franco Mannoni]
Da una lettura stimolante una riflessione sulle prospettive della Sardegna. Le elezioni ultime hanno esteso all’Italia lo sconquasso degli assetti politici e di governo che attraversa l’Europa. Dappertutto si registra uno spostamento a destra degli orientamenti elettorali e l’estrema difficoltà dei partiti di ispirazione socialista. Cosa ha prodotto tutto questo? Concordo con Claudio Martelli. “E’ stata la globalizzazione che ha sottratto interi continenti al sottosviluppo, ma che, in Occidente, ha arricchito minoranze ricche e dinamiche e impoverito i più poveri e una parte del ceto medio”. Aggiunge poi che “cogovernando la globalizzaione e trascurando le sue vittime la sinistra ha eroso le sue basi sociali e elettorali.” Se è così, se le cause dello sconquasso e della caduta di consenso affondano le radici in ragioni strutturali , più che su errori contingenti, pur madornali, di ciascuna componente politica, occorrerà guardare agli scenari di lungo termine per capire quali possano essere le vie di mantenimento della democrazia e di ripresa riformatrice per le forze socialiste, al fine di ricercare un assetto sociale meno squilibrato dell’attuale e conquistare spazi di eguaglianza e di equità. Viviamo in una sorta di “interregno”, scrive Carlo Bordoni, rifacendosi a Gramsci, nel suo denso saggio “Fine del mondo liquido”. Siamo a cavallo fra l’era nazionale che muore e l’era cosmopolitica che nasce”. Navighiamo in mare aperto senza che si intravveda un approdo. “Le grandi masse, scriveva Gramsci, si sono staccate dalle idee tradizionali e non credono più in ciò che credevano.” Hanno, in altri termini, revocato le deleghe alle élites . Quello che è stato nominato “il popolo degli abissi” si è mosso e ha scavalcato chi lo doveva rappresentare e, fino allora, lo aveva rappresentato. Se è così, il problema non si risolve con la tattica o con un aggiustamento delle tecniche di comunicazione, ma va affrontato nelle sue scaturigini, che sono tutte collocate nel cambiamento o, meglio, nelle metamorfosi che sono intervenute e interverranno nel mondo della produzione e del lavoro. Il capitalismo non è in crisi, è riuscito anzi a riciclarsi appropriandosi del progresso scientifico e tecnologico, così da dominare la produzione e la distribuzione. Addirittura per virtù della tecnica, ma come risultato di scelte politiche, ha conquistato libertà nello spostamento dei capitali, ha sottratto le transazioni al dominio delle norme nazionali. Il risultato si riscontra nella concentrazione di ricchezza nelle mani di pochissimi, mentre crescono le moltitudini che hanno perso diritti e sono soggette alle scelte dell’impresa finanziaria. E’ fatale tutto questo, inevitabile conseguenza della forza e delle leggi del mercato alla cui cogenza non è dato sottrarsi? Forse non è così. Seguo qui Giulio Sapelli che nel suo recente libro seminale “Oltre il capitalismo” ci avverte che “ la globalizzazione è più un fenomeno dalle radici politico culturali che economiche”.Essa infatti si è attuata collateralmente a grandi processi di cambiamento politico e si è giovata della stipula di nuove regole sulla liberalizzazione degli scambi. La globalizzazione e le modalità del suo attuarsi sono dipese da ideologie e da interessi che hanno preso il sopravvento nei paesi guida. Attraverso questi passaggi la teologia ordoliberista ha impresso una impronta marcata al processo. Ancora Sapelli richiama la connessione fra il ciclo economico e l’andamento dei cicli politici. E’ la politica che, indebolendosi, ha accettato ciò che le esigenze del profitto, della creazione di valore come oggi si dice, richiedono. Ma non è stata estranea, anzi ha determinato le condizioni dello sviluppo distorto. La novità che oggi si aggiunge allo scenario è costituita dal profilarsi sempre più incombente della decrescita del lavoro. Non si tratta del risultato di un processo virtuoso di liberazione dell’uomo dalla fatica, quanto piuttosto della ricaduta di processi impetuosi di espansione della tecnologia e dell’intelligenza artificiale che rendono il lavoro salariato eccedente rispetto ai bisogni dello sviluppo capitalistico. Le proiezioni in avanti effettuate evidenziano prospettive difficili da dominare con gli attuali strumenti a disposizione dei governi e delle parti sociali interessate. In sintesi il sistema procede con le caratteristiche sue proprie di polarizzazione della ricchezza prodotta nelle mani di pochi, di aumento delle diseguaglianze determinate da scarsa occupazione e precarietà, eccedenza dell’offerta di lavoro sulla domanda, emigrazione e crisi demografica. Nonostante tutto occorrerà guardare avanti non con l’idea di ostacolare la corsa dell’innovazione, ma con l’intento di scoprire e praticarne i sentieri verso segmenti di sviluppo fondati su principi e qualità differenti da quelli che sembra suggerire quella che definiscono la legge del mercato. La sinistra avrà molto da dire in proposito se saprà recuperare la piena adesione ai principi e agli obiettivi originari, di liberazione, uguaglianza, solidarietà, mutualità, socialità. Scaricandosi del sovrappiù di delusioni e fallimenti che ne hanno determinato la crisi. Nel 1995, tanto tempo fa, Rifkin affermava che “le nuove tecnologie ci stanno portando verso un’era di produzione senza lavoro proprio nel momento in cui la popolazione mondiale esplode.” Nei vent’anni successivi la velocità della crescita tecnologica è aumentata con ritmi simili a quelli enunciati nella legge di Moore. La crisi del lavoro già si manifesta nel colpire le aree geografiche e sociali meno dotate ed efficienti, quale la Sardegna, ad esempio. Reddito di cittadinanza, di inserimento e simili sono tentativi di compensazione e arginamento delle conseguenze di ciò che sta già avvenendo. In qualche misura un tentativo di mitigazione degli effetti sociali della contrazione dell’area del lavoro. Non toccano però il meccanismo di crescita nella sua tendenza a perpetuare diseguaglianze e iniquità sociale. Non mancano tentativi di dare una risposta tecnologica al problema. “Il progetto politico per il XXI secolo deve essere quello di costruire un’economia in cui la sopravvivenza delle persone non dipende più dal lavoro salariato.” Così Nick Srinicek e Alex Williams in “Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro”. Anche Rutger Bregman costruisce la sua “Utopia per realisti” per la trasformazione radicale della società fondata sul progresso tecnico, il reddito di base garantito e la settimana lavorativa di quindici ore. Io seguo piuttosto il percorso di Guido Sapelli, che cerca nella trasformazione culturale e sociale basata sul recupero del socialismo comunitario e delle esperienze del comunitarismo di Adriano Olivetti. La nuova rivoluzione delle macchine. Un’immensa forza di trasformazione si sprigiona dalla nuova rivoluzione delle macchine. L’intelligenza artificiale, la prototipizzazione, la diffusione attraverso la rete delle fasi del processo di produzione di beni, annullano i tempi delle transazioni e portano a localizzare i centri di produzione, mediante la trasformazione delle informazioni in oggetti, nel centro della città o nei villaggi più piccoli. E il lavoro? La sostituzione di un numero sempre più significativo di attività umane con le macchine intelligenti, che devono essere solo vigilate e manutenute, diminuisce lo stock di lavoro richiesto e condanna masse sempre più vaste alla sottoccupazione o alla disoccupazione. Incidentalmente mi viene spontaneo domandarmi: in un futuro come quello ipotizzato, nella delineazione del quale interverranno fenomeni come l’emigrazione di massa, quale può essere lo spazio e la caratteristica di una nuova rinascita della Sardegna? Riprenderò poi questo tema. Torno a Sapelli e all’idea di un socialismo comunitario che sostiene nel suo libro più recente. Additive manifacturing. Il motore di questa nuova fase dello sviluppo sta nelle applicazioni dell’intelligenza artificiale e, più specificamente, dell’additive manifacturing. Si prospetta un forte cambiamento nell’area delle produzioni di oggetti e di macchine con l’introduzione di modelli avanzati di stampanti 3D. Le previsioni rivelano un ulteriore risparmio di lavoro conseguente all’introduzione di innovazione e al marcato aumento della produttività e dei profitti. Solo una società che si riorganizza può far fronte alle contraddizioni create dal risparmio di lavoro tradizionale, dall’aumento della durata della vita, dalla crisi del welfare pubblico e centralizzato. “Solo la rinascita della comunità come sistema di relazioni e di valori d’uso-spesso a fianco e non prevalente sul valore di scambio- potrà consentire la riproduzione di società che sempre meno sono fondate sul solo meccanismo produttivo di creazione del profitto capitalistico, ma altresì sul lavoro non pagato delle reti amicali, parentali e sociali comunitarie, appunto, che consentono la stessa crescita economica e disperdono le tensioni della decrescita…” Oltre il capitalismo, pag 123.E, più oltre: “La ricerca della mutualità diviene quindi la realizzazione della polis, del bisogno di relazione e di sostegno comunitario.” Qual è il collegamento fra queste tesi e le questioni politiche che si pongono a chi, oggi, in Sardegna, voglia ricercare una svolta verso un futuro che non perpetui la stagnazione perniciosa dell’attualità? La storia dell’autonomismo sardo è largamente basata sul riconoscersi in un sistema di vita e di norme scritte e non scritte radicate nella storia del popolo poi travolte, a più riprese, dal processo di modernizzazione spesso indotto e forzato. Il conflitto di ordinamenti a cui si riferisce Antonio Pigliaru e il filone culturale che alla sua lettura si è ispirato, raccontano di un percorso di contraddizioni che hanno caratterizzato nel novecento la vicenda della Sardegna. Che oggi riattraversa un momento di difficoltà che sembra riprodurre la situazione degli anni che precedettero il primo piano di rinascita.Si è aperta infatti una faglia ancor più profonda fra le esigenze dell’Isola e le politiche nazionali, oggi del tutto omologhe alla logica imperante nel sistema dello sviluppo finanza-capitalistico. Una delle cause è nella la mancanza di politiche governative di riequilibrio, di sostegno alla difficoltà indotta dalla sparizione di uno sviluppo industriale deciso centralmente e centralmente liquidato, dal vuoto di investimenti nell’innovazione. Si definisce così una situazione di conflitto fra popolo sardo e stato centrale, che non ha ancora attinto il livello di consapevolezza necessario a trasformarlo in lotta politica. Tuttavia il conflitto è evidente e tende ad allargarsi e la coscienza collettiva di esso maturerà nel breve. In quella fase la rivendicazione graduale ma effettiva di strumenti di autogoverno necessiti di essere sostenuta da una innovativa visione della società e dello sviluppo. Qui il nostro intento e il nostro ragionamento si avvicina all’indirizzo che il formidabile saggio di Sapelli delinea. Il punto centrale del ragionamento sta nel promuovere uno sviluppo diverso, che non allevi in sé la distruzione del lavoro e, come unica alternativa, il finanziamento della disoccupazione e sottoccupazione a carico della comunità.La diversità consiste nel far prevalere le caratteristiche di produzione e di mercato che non privilegiano la rendita finanziaria sul lavoro e determinano l’incremento delle diseguaglianze.E’ la politica dei common goods, per un’economia dove trova largo spazio l’impresa no profit, l’impresa cooperativa, la sussidiarietà, le reti di relazioni sociali, la fiducia. Sgombriamo il campo da possibili equivoci. Non si tratta di un’economia fuori mercato, perché anche l’investitore paziente, quello che non ha l’ossessione dello short term, è sempre un investitore che cerca gli utili. Imprese no profit, fondazioni, cooperative operano nel mercato e con le sue regole. Sono però legate al territorio, alla platea dei soci, a quella degli stake holders. Non corrono appresso alle delocalizzazioni e alle speculazioni finanziarie. La storia della Sardegna dall’ottocento a oggi, è costellata dalle gesta avventurose di speculatori, siano investitori piemontesi o sceicchi che creano ed estinguono compagnie di navigazione, inquinano, poi spariscono lasciando dietro di sé lande impraticabili. Si tratta di circuiti perversi che trovano ancor oggi solerti replicanti. Circuiti da interrompere. Non si tratta dell’idea della decrescita felice e neppure di puntare a un’economia della stagnazione, tutt’altro. L’ipotesi sulla quale lavorare è quella di un tessuto sociale ricco di relazioni e di fiducia, di imprese di trasformazione e di servizi arricchite dall’apporto delle intelligenze artificiali e della creatività che nasce nella nostra civiltà e nel territorio. Questa può essere l’indicazione sommaria di una via che permette di avviare un processo nuovo e non dipendente da decisioni importate. C’è da trasferire queste intuizioni nel campo dell’assetto territoriale, per definire in termini democratici l’assetto delle città e i rapporti tra zone rurali e quelle urbane. Come anche nel campo della scuola e della sanità, per procedere qui per cenni. Si tratta, infine, di darsi un ruolo e un destino in un mondo nel quale il capitalismo e il mercato hanno i secoli contati, come è stato scritto, ma nel quale si può coltivare, in virtù di una condizione territoriale specifica e di una volontà politica di autodeterminazione e cambiamento, una diversa e più equa modalità della crescita. |