Ermanno Olmi: “Torneranno i prati e li coltiveremo” [di Federico Pontiggia]
MicroMega.com 7 maggio 2018. Ricordiamo il grande regista ripubblicando questa intervista uscita nel 2014 sull’Almanacco del cinema di MicroMega. Dalla sua casa di Asiago, là dove il primo conflitto mondiale oggetto del suo ultimo film infuriò con particolare violenza, Ermanno Olmi si chiede, una volta di più: ‘Perché la guerra?’. Una domanda che è importante porsi, sostiene il regista di Torneranno i prati, nella misura in cui celebrazioni e versioni ufficiali comprendono sempre ‘percentuali di bugie’, mentre l’unico modo per dare una riposta alle migliaia di giovani morti nelle trincee italiane rimane quello di cercare di capire. Ermanno Olmi in conversazione con Federico Pontiggia, da MicroMega 9/2014 Ad Asiago c’era la neve. C’è ancora, cent’anni dopo, ma «torneranno i prati». Il regista Ermanno Olmi ne è certo, e passa lo sguardo sulle ferite delle trincee, leva con i suoi 83 anni la sutura dell’oblio: «Perché la guerra, perché la più grande stupidità criminale che l’umanità possa commettere?». Freud, Einstein e lui, Olmi, che non ha mantenuto la promessa: «Non farò più film». Dopo Il villaggio di cartone, non s’è fermato: la prima guerra mondiale, poveri contro poveri. Cent’anni fa erano nelle trincee, guerra di posizione e sangue in movimento: «Chi meglio di un povero sa che cos’è la povertà? Italiani e austroungarici si conoscevano, erano la stessa cosa: poveri, strappati al latifondo, sulla guerra nemmeno un pensiero. Dovevano farla, la facevano, e basta». Niente di nuovo sul fronte, niente di nuovo in fronte: giovani mandati al macello, e i loro comandanti che oggi sono monumenti, pietra e marmo sui piedistalli: «Bisognerebbe scriverci sotto criminale di guerra». E allora cinema, allora un altro film, che «quando vedo quella cosa lì, la macchina da presa, non so allontanarmi, non ce la faccio». Torneranno i prati ci riconsegna uno dei pochi superstiti maestri del cinema italiano, capace con Il posto (1961), L’albero degli zoccoli (Palma d’Oro, 1978), La leggenda del santo bevitore (1989, Leone d’Oro a Venezia) non solo di conquistarsi un posto al sole nella storia del cinema, ma anche un posto speciale nei nostri occhi, nei nostri cuori. Padre ferroviere, madre contadina: su quali binari, su quali catene si è mosso il suo cinema? Ovvero, come – da uomo ancor prima che da cineasta – ha tradotto le sue origini? La diga del ghiacciaio, Tre fili fino a Milano, Un metro è lungo cinque: il suo cinema è nato in fabbrica, ma in realtà l’ha mai abbandonata? La rivoluzione industriale italiana era partita nel secondo dopoguerra, da un’economia agricola: le due anime erano ancora presenti, perché coloro che lavoravano alle macchine si erano formati nel mondo rurale. All’uscita dalle officine, in periferie povere ma dignitose, nei terreni abbandonati, gli operai si facevano i loro orti, il mondo contadino continuava a esistere. Bene, alla nostra nascita abbiamo avuto quella chiave di violino e le nostre melodie le suoniamo con quella: nei 15 anni passati all’Edison, lungo il mio percorso, ho sempre trovato inconsapevolmente quella doppia realtà, l’eredità contadina negli operai. Operai i cui figli erano già proiettati in un futuro diverso: il ragazzino andava a sostituire il vecchio operaio, nasceva lo studente lavoratore. Una nuova generazione, nel dopoguerra non c’era più mondo rurale, l’operaio conosceva la possibilità del riscatto sociale attraverso lo studio, la scuola. E suo padre? Nel 1959 debutta con il lungo Il tempo si è fermato, poi con Il posto prendi davvero posto nel cinema italiano (e non solo): perché quel titolo, perché quell’idea? Poesia anche questa? Oggi, si dice, esordire è difficile, fare l’opera seconda ancor più: quali ostacoli, quale frustrazione, quali difficoltà ha dovuto superare lei? Mai pensato di smettere, allora o più tardi? In Il posto e I fidanzati, l’operaio inizia già a divenire un tecnico specializzato e viaggia, chiamato a seguire grandi imprese e non la manifattura dietro casa. Dopo I fidanzati, Un certo giorno è appunto il momento in cui la nuova borghesia affronta i problemi che una grande trasformazione si trascina dietro: un dirigente, con posizione gerarchicamente elevata, comincia ad avere i problemi della borghesia. Proviamo a ripercorrere brevemente le tappe della sua carriera? Ed ecco la nevrosi lavorativa, la nevrosi della carriera. L’albero degli zoccoli, la separazione generazionale molto evidente nel mondo contadino: fare l’agricoltore di padre in figlio, quella era l’unica via praticabile. E arriviamo al 1978, un anno chiave della sua filmografia: concorda? Adesso stiamo celebrando L’albero degli zoccoli che torna, tra slow food e diritto al cibo, perché tra tutte le civiltà vissute, comprese quella industriale, tecnologica ed elettronica, l’unica che sopravvive, l’unica che è punto di riferimento per il futuro è la civiltà rurale. Qual è il segreto? Un esempio? Il nostro cinema è d’accordo? Torniamo alla sua filmografia, ovvero E venne un uomo: Giovanni XXIII, canonizzato di recente, chi era per lei, chi è nel suo film? Come ha scansato il pericolo dell’agiografia, del santino? Ogni giorno si sedevano al desco familiare, ringraziavano Dio perché attraverso il creato procurava di che sopravvivere: era un mondo educato dalla terra, il contrario del mondo industriale e scientifico che sulla terra fa azioni di prepotenza. Ma oggi non c’è più la religione della terra, almeno per potentati economici la terra è business. Una follia. Si produce più cibo di quel che si consuma e quel che non si consuma si butta via: e gli ottanta milioni di persone che muoiono di fame? È la scelta del denaro, anziché la scelta dell’anima. Tornando al film, papa Giovanni neanche veste da prete, è l’uomo: E venne un uomo, l’uomo interlocutore del creato. E, per chi ci crede, Dio ha già fatto un film su papa Francesco: zio Zaverio era il più anziano, anche se non sposato, era il capofamiglia e, scrive nel suo diario papa Roncalli: «Ho imparato molte cose dai libri e dal mondo, ma da voi ho imparato la più importante». Ebbene, anche papa Francesco è figlio di un’umanità contadina che ancora costituisce una garanzia. Con L’albero degli zoccoli vince a Cannes e regala al nostro cinema, e non solo al nostro, una impareggiabile elegia del mondo contadino, colto nella sua purezza senza oleografia, paternalismo e altri -ismi: che aneddoti custodisce ancora oggi e, soprattutto, come ha piantato nella sua filmografia, e nel nostro immaginario, quest’albero sempreverde? Sì, non era affatto un odore sgradevole. Ecco, da bambino io provavo fastidio per l’odore delle macchine: pur amandolo, il mondo operaio non lo sentivo mio, nemmeno dal punto di vista olfattivo. Invece dalla nonna credevo fosse il luogo in cui spendere la mia vita: non sono diventato un contadino, ma il mondo contadino non si è mai più affievolito dentro me. Ebbene, L’albero degli zoccoli è il film che più di tutti mi rappresenta, perché se anche altri, quali Il mestiere delle armi, li riconosco, va oltre: inquadra l’unica civiltà che sopravvive e continuerà a vivere, mentre le altre decadono. Da Milano ad Asiago, per ora sola andata: via dalla pazza folla, diceva qualcuno, come la scelta di questa location esistenziale si riverbera sul suo cinema? Eppure, non abbiamo forse ancora ben capito la perdita, non avendo più silenzio per stare con noi stessi. Come mi ha detto un mio amico un po’ particolare, un anacoreta, non abbiamo più tempo per il silenzio, il silenzio non c’è più. Dopo la malattia, Lunga vita alla signora! e, mi permetta di aggiungere: Lunga vita a lei!, anamnesi e decorso sono fatti clinici e privati, ma quanto il cinema l’ha «aiutata» a guarire, quanto il cinema, in definitiva, può aiutare l’uomo, se non a cambiare il mondo? Renzi che potere è? Macché, tutti pronti a bastonare, anziché a dire: «Proviamo a dare aiuto, proviamo a dargli fiducia, cosicché si impegna ancora di più». Ma è il mondo degli invidiosi, a cui chiedo: «Che cosa hai fatto tu, prima di criticare?». E mi riferisco anche alla stampa, che faceva finta di criticare Berlusconi, usando estrema prudenza. Mi ricordo certe serate televisive, Berlusconi con l’arroganza che ha sempre avuto, e i giornalisti tutti lì intimoriti. Avevano forse paura? Torniamo al cinema: La leggenda del santo bevitore. Il libro di Joseph Roth per soggetto, cast internazionale, lingua inglese e location a Parigi, parrebbe il controcanto di L’albero degli zoccoli, che cosa l’ha colpita? Ogni volta che il nostro protagonista trova duecento franchi, s’è dato l’impegno di restituirli alla piccola Thérèse, ma all’ultimo momento disobbedisce, perché trova qualcuno con cui andare a bere nel segno della condivisione, della comunione: disobbedisce per amore, per questo in realtà non ha alcun debito. Da parte mia, non c’è preghiera più bella che dividere un bicchiere di vino con duecento franchi. Verso la fine delle riprese, non ci crederete ma anch’io ho trovato duecento franchi per strada con mia moglie: prima di ripartire, sono andato a darli a Thérèse a nome di Jospeh Roth. Ripeto, la poesia non solo anticipa gli accadimenti, li provoca. Dopo, 1993, Il segreto del bosco vecchio: un altro libro, di Buzzati, e Paolo Villaggio protagonista: perché lui, che cosa ci ha colto, che cosa le ha dato sul set? Io non ero convinto, ma chissà forse la novità di non collocarlo solo in Fantozzi… e ho accettato. Ma non era all’altezza del personaggio, meglio, ho scoperto che non era all’altezza del personaggio per come lo sentivo io: lui il colonnello Procolo l’ha fatto benissimo, ma appunto come può farlo Villaggio che non è esattamente quel che volevo io. Con lui il concerto è stato per tromba e orchestra, mentre io l’avevo scritto per violino e orchestra. 2001 e 2003, Il mestiere delle armi e Cantando dietro i paraventi, guerra e (non) pace, Cina e furore: Giovanni dalle Bande Nere resuscitato con rigore filologico e toni iperrealistici; l’Estremo Oriente, la piratessa Ching e Bud Spencer per un esotico lirismo, che cosa tiene insieme i due film? Che cosa le ha fatto scegliere queste storie, che cosa cercava di dirci? Borges mi ha dato l’opportunità di riscoprire un autore che in Cina è come Omero, e mi è piaciuta l’idea di potere, un potere che anziché cannonate lancia aquiloni. Tutti e due, Giovanni e Ching, sono mestieranti della guerra, ma i due film ci raccontano una storia di pace che è storia di perdono: non può esistere pace senza perdono. Alla fine l’imperatore premia la vedova Ching, e la accoglie di nuovo come farfalla. Infine, Centochiodi, una sorta di sequel di L’albero degli zoccoli, e Il villaggio di cartone: quale status hanno nel suo cuore, nei suoi pensieri e quanto – penso ai migranti del Villaggio – le istituzioni, al contrario, non sanno tutelare, proteggere, semplicemente vedere i più deboli e indifesi? Nel Villaggio di cartone, viceversa, c’è un prete in crisi, perché quando gli smontano il tempio teme di aver perso la sua funzione umana. Ma non è così: quando arrivano gli sbandati, capisce che c’è qualcosa di più importante di una predica alle panche vuote, che il bene vale più della fede. Questo ha causato polemiche, ma lo dice anche il papa: via gli orpelli, i paramenti, via la liturgia celebrativa, andiamo direttamente a incontrare i fedeli di un’altra religione nel villaggio di cartone. Nella sua filmografia, c’è qualche film, qualche scelta che oggi non riconosce o, meglio, vorrebbe non aver fatto? Il villaggio di cartone doveva essere il suo ultimo film, ma fortunatamente non lo è: con Torneranno i prati Ermanno Olmi torna? Dobbiamo capire perché la guerra, perché questa guerra mondiale è accaduta. Non sono andato alla Mostra di Venezia perché Torneranno i prati non è fatto per il cinema, ma di cinema, per dare una risposta ai 60 mila giovani che attendono ancora di sapere perché sono morti. La storia non aiuta? Oggi siamo alla vigilia di qualcosa che rischia di somigliare molto, ma con conseguenze ben più gravi, a quella prima guerra mondiale. Perché ancora si parla di guerra? Ma possibile che la civiltà non aiuti a capire le cose più ovvie e scontate, che la guerra è l’atto più stupido che l’umanità possa compiere? Come è possibile? Allora la celebrazione cosa deve essere? Proprio questo: voglio capire perché, perché non succeda un’altra volta. Però anche queste cose quante volte le abbiamo sentite dire, e le abbiamo dette? Olmi, pessimista? Le affermazioni di principio ci danno il merito apparente di aver pronunciato un bel concetto, una bella frase, ma noi dobbiamo arrivare a capire. Chi la scrive la storia? Ecco negli anni Ottanta furono incaricati degli storici austriaci e italiani di scrivere la storia della prima guerra mondiale, soprattutto circa i due paesi, sulla base di dati inconfutabili e senza retorica. Dico subito una cosa e l’annuncio con un aforisma: sapevano veramente tutto ma solamente quello. Perché non conoscevano direttamente la realtà di cui stavano parlando. Dunque, che fare? Bene, la verità l’ho trovata lì, perché anche il testimone scrittore non dimentica di essere scrittore. Chi invece ha scritto quelle testimonianze le ha scritte o per sé o per i propri familiari. Ho letto delle pagine struggenti. Ripeto la domanda: chi scrive la storia? Quella ufficiale gli intellettuali, quella reale coloro che non hanno parola. Ci sono agitazioni ormai intrattenibili, popoli che sono stufi di essere soltanto un gregge comandato, ma che chiedono per diritto la libertà di esistere secondo il proprio progetto di esistenza. Ecco perché non possiamo limitarci solamente a dire: non va bene, disapprovo, sottoscrivo il manifesto. Ciascuno di noi è una parte del tutto e quindi ciascuno di noi deve agire, comportarsi, vivere secondo quel progetto di democrazia, conquistata con i sacrifici di cui tutti sanno e di cui molti oggi dimostrano di fregarsene. Sapete chi sono i peggiori di questa categoria? Quelli che non vanno a votare, quelli che non hanno mai conosciuto il diritto/dovere che ci hanno procurato quelle generazioni in quel momento storico. Allora fu un momento terribile, oggi dobbiamo impegnarci ancora di più. Diceva Camus: «Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna prima che cambi la vita di colui che lo esprime, che cambi con l’esempio».
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