Ermanno Olmi: “Torneranno i prati e li coltiveremo” [di Federico Pontiggia]

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MicroMega.com 7 maggio 2018. Ricordiamo il grande regista ripubblicando questa intervista uscita nel 2014 sull’Almanacco del cinema di MicroMega. Dalla sua casa di Asiago, là dove il primo conflitto mondiale oggetto del suo ultimo film infuriò con particolare violenza, Ermanno Olmi si chiede, una volta di più: ‘Perché la guerra?’. Una domanda che è importante porsi, sostiene il regista di Torneranno i prati, nella misura in cui celebrazioni e versioni ufficiali comprendono sempre ‘percentuali di bugie’, mentre l’unico modo per dare una riposta alle migliaia di giovani morti nelle trincee italiane rimane quello di cercare di capire.

Ermanno Olmi in conversazione con Federico Pontiggia, da MicroMega 9/2014

Ad Asiago c’era la neve. C’è ancora, cent’anni dopo, ma «torneranno i prati». Il regista Ermanno Olmi ne è certo, e passa lo sguardo sulle ferite delle trincee, leva con i suoi 83 anni la sutura dell’oblio: «Perché la guerra, perché la più grande stupidità criminale che l’umanità possa commettere?». Freud, Einstein e lui, Olmi, che non ha mantenuto la promessa: «Non farò più film». Dopo Il villaggio di cartone, non s’è fermato: la prima guerra mondiale, poveri contro poveri. Cent’anni fa erano nelle trincee, guerra di posizione e sangue in movimento: «Chi meglio di un povero sa che cos’è la povertà? Italiani e austroungarici si conoscevano, erano la stessa cosa: poveri, strappati al latifondo, sulla guerra nemmeno un pensiero. Dovevano farla, la facevano, e basta». Niente di nuovo sul fronte, niente di nuovo in fronte: giovani mandati al macello, e i loro comandanti che oggi sono monumenti, pietra e marmo sui piedistalli: «Bisognerebbe scriverci sotto criminale di guerra». E allora cinema, allora un altro film, che «quando vedo quella cosa lì, la macchina da presa, non so allontanarmi, non ce la faccio». Torneranno i prati ci riconsegna uno dei pochi superstiti maestri del cinema italiano, capace con Il posto (1961), L’albero degli zoccoli (Palma d’Oro, 1978), La leggenda del santo bevitore (1989, Leone d’Oro a Venezia) non solo di conquistarsi un posto al sole nella storia del cinema, ma anche un posto speciale nei nostri occhi, nei nostri cuori.

Padre ferroviere, madre contadina: su quali binari, su quali catene si è mosso il suo cinema? Ovvero, come – da uomo ancor prima che da cineasta – ha tradotto le sue origini?
Ho cominciato ad andare in filanda a 6-7 anni: all’epoca il lavoro minorile era la norma, l’applicazione senza imbarazzo. Però mio papà veniva da una famiglia di ferrovieri, già suo padre e il nonno lo erano, e mia madre era contadina. Il mio cinema s’è sempre dibattuto tra queste due anime: indipendentemente dalla volontà dei miei genitori, sono cresciuto tra Milano, la Bovisa delle officine gas e dei gasometri, e la campagna, all’aria di Treviglio dalla nonna, tra le mucche e la vita libera. Era il dato olfattivo a distinguere le due realtà: l’odore della città, del tram, dell’asfalto e mio papà che sapeva sempre di olio di macchina, e dall’altra il mondo contadino.

La diga del ghiacciaio, Tre fili fino a Milano, Un metro è lungo cinque: il suo cinema è nato in fabbrica, ma in realtà l’ha mai abbandonata?
Il mondo operaio è quello più evidente nel mondo del lavoro. Di quel momento, possiamo dire che l’operaio aveva in se stesso due anime, perché solo una generazione prima o magari la stessa era contadina, apparteneva al mondo agricolo.

La rivoluzione industriale italiana era partita nel secondo dopoguerra, da un’economia agricola: le due anime erano ancora presenti, perché coloro che lavoravano alle macchine si erano formati nel mondo rurale. All’uscita dalle officine, in periferie povere ma dignitose, nei terreni abbandonati, gli operai si facevano i loro orti, il mondo contadino continuava a esistere.

Bene, alla nostra nascita abbiamo avuto quella chiave di violino e le nostre melodie le suoniamo con quella: nei 15 anni passati all’Edison, lungo il mio percorso, ho sempre trovato inconsapevolmente quella doppia realtà, l’eredità contadina negli operai. Operai i cui figli erano già proiettati in un futuro diverso: il ragazzino andava a sostituire il vecchio operaio, nasceva lo studente lavoratore. Una nuova generazione, nel dopoguerra non c’era più mondo rurale, l’operaio conosceva la possibilità del riscatto sociale attraverso lo studio, la scuola.

E suo padre?
Faceva proprio così, andava a curare l’orto e la sera portava un fiore a sua moglie, mentre per noi si spalancavano nuove realtà, inedite opportunità: la scuola dà riscatto, da una condizione umile e modesta si può passare alla borghesia. Chi si laurea trova, trovava, una nuova collocazione nel mondo del lavoro: nasce una nuova borghesia, non più ereditaria ma conquistata, almeno dai ragazzi più vivaci.

Nel 1959 debutta con il lungo Il tempo si è fermato, poi con Il posto prendi davvero posto nel cinema italiano (e non solo): perché quel titolo, perché quell’idea?
Tutto questo si deve, almeno in parte, a quell’intuizione che in genere chi frequenta la poesia conosce: la poesia porta sempre delle novità, delle cose nuove prima che vengano scoperte dall’avanguardia scientifica. La poesia è sempre più avanti della scienza: la storia ci impone certe scelte, si presenta al nostro sguardo e ci interroga: «Hai capito a che punto siamo?». Così, dal mondo rurale a quell’operaio, la storia concede agli umili la possibilità di uscire dall’emarginazione e, attraverso lo studio, arrivare allo stesso livello del mondo borghese, scalando i gradini, diventando dirigenti, manager, inventori.

Poesia anche questa?
Sembra un paradosso, ma in realtà noi produciamo futuro senza accorgercene, senza renderci conto di avere avuto un’intuizione. È poi il futuro, divenuto presente, a dirci: «Hai visto che hai fatto?». La coscienza arriva subito dopo, prima c’è l’istinto, quello a migliorarci. L’Italia del dopoguerra ha compiuto un miracolo più importante di quello economico, anche perché all’inizio degli anni Cinquanta c’era già [ride] la crisi economica, definita allora congiuntura. Una roba momentanea, si credeva, invece la crisi è iniziata lì: abbiamo dato tutte le priorità valoriali al denaro e abbiamo dimenticato che il denaro lasciato solo è un danno per tutti.

Oggi, si dice, esordire è difficile, fare l’opera seconda ancor più: quali ostacoli, quale frustrazione, quali difficoltà ha dovuto superare lei? Mai pensato di smettere, allora o più tardi?
Non ho mai avuto grandi difficoltà a fare film, di più, a fare i film che volevo fare: sono sempre stato fortunato, ho trovato sempre disponibilità. L’albero degli zoccoli, da un racconto di una cinquantina di pagine, doveva essere il mio primo film e sarebbe stato in ordine cronologico al posto giusto: un contadino cacciato dal padrone divenuto probabilmente un operaio, un bambino che andava a scuola, per il mondo contadino era uno scandalo, senza esagerazione. In Il tempo si è fermato, ci sono due generazioni diverse rispetto alla consequenzialità padre-figlio: il padre è contadino, il figlio metropolitano. È la storia della trasformazione della società italiana.

In Il posto e I fidanzati, l’operaio inizia già a divenire un tecnico specializzato e viaggia, chiamato a seguire grandi imprese e non la manifattura dietro casa. Dopo I fidanzati, Un certo giorno è appunto il momento in cui la nuova borghesia affronta i problemi che una grande trasformazione si trascina dietro: un dirigente, con posizione gerarchicamente elevata, comincia ad avere i problemi della borghesia.

Proviamo a ripercorrere brevemente le tappe della sua carriera?
I recuperanti, il primo ricordo appena finita la guerra, la miseria costringeva o a emigrare o al rischio di disinnescare bombe. Con Durante l’estate, favoletta, riprendo il legame con la realtà, la crisi e la borghesia: madre notaio, padre e figli sono oramai costretti a misurarsi con la carriera, tutti possono elevarsi nel mondo della borghesia.

Ed ecco la nevrosi lavorativa, la nevrosi della carriera. L’albero degli zoccoli, la separazione generazionale molto evidente nel mondo contadino: fare l’agricoltore di padre in figlio, quella era l’unica via praticabile.

E arriviamo al 1978, un anno chiave della sua filmografia: concorda?
1978, il delitto Moro e io faccio L’albero degli zoccoli. E credevo di farlo come una sorta di memoria del passato però non più trasferibile nel presente: apparteneva definitivamente a una storia lasciata indietro, questo credevo. Ma non mi sono accorto, invece, che L’albero degli zoccoli preannunciava quel che sta succedendo oggi: è iniziato un nuovo rapporto tra l’uomo e la terra.

Adesso stiamo celebrando L’albero degli zoccoli che torna, tra slow food e diritto al cibo, perché tra tutte le civiltà vissute, comprese quella industriale, tecnologica ed elettronica, l’unica che sopravvive, l’unica che è punto di riferimento per il futuro è la civiltà rurale.

Qual è il segreto?
La poesia, se di segreto vogliamo parlare. Agisce in un contesto non decodificabile, come la musica: il linguaggio della poesia non appartiene alle normali lingue con cui ci scambiamo pareri. Io sto sempre attaccato al mio album di lavoro, e ho qui un promemoria di Borges: «Ogni poesia è misteriosa, nessuno sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere». La poesia anticipa quel che accadrà il giorno dopo: ogni mattina sentiamo che attorno a noi le cose stanno cambiando.

Un esempio?
Il capitalismo. Il capitalismo d’impresa è finito, ma stanno tentando ancora di tenerlo in piedi: ripeto, quel mondo è finito, il benessere basato sulla quantità dei consumi è una follia. Torniamo a guardare al mondo rurale e ripartiamo da lì.

Il nostro cinema è d’accordo?
Il cinema italiano non s’è curato del mondo rurale, ma ora c’è Le meraviglie di Alice Rohrwacher, premiato a Cannes, e tutti mi dicono sia un film molto bello, commovente. Viceversa, il nostro cinema ha sempre preferito un approccio sociopolitico, con la natura madre generosa.

Torniamo alla sua filmografia, ovvero E venne un uomo: Giovanni XXIII, canonizzato di recente, chi era per lei, chi è nel suo film? Come ha scansato il pericolo dell’agiografia, del santino?
Io credo che per esser buoni preti prima si debba essere cittadini perbene. Il nostro papa Roncalli era cresciuto in un mondo rurale dove la prima religione era quella dei campi.

Ogni giorno si sedevano al desco familiare, ringraziavano Dio perché attraverso il creato procurava di che sopravvivere: era un mondo educato dalla terra, il contrario del mondo industriale e scientifico che sulla terra fa azioni di prepotenza. Ma oggi non c’è più la religione della terra, almeno per potentati economici la terra è business. Una follia. Si produce più cibo di quel che si consuma e quel che non si consuma si butta via: e gli ottanta milioni di persone che muoiono di fame? È la scelta del denaro, anziché la scelta dell’anima.

Tornando al film, papa Giovanni neanche veste da prete, è l’uomo: E venne un uomo, l’uomo interlocutore del creato. E, per chi ci crede, Dio ha già fatto un film su papa Francesco: zio Zaverio era il più anziano, anche se non sposato, era il capofamiglia e, scrive nel suo diario papa Roncalli: «Ho imparato molte cose dai libri e dal mondo, ma da voi ho imparato la più importante». Ebbene, anche papa Francesco è figlio di un’umanità contadina che ancora costituisce una garanzia.

Con L’albero degli zoccoli vince a Cannes e regala al nostro cinema, e non solo al nostro, una impareggiabile elegia del mondo contadino, colto nella sua purezza senza oleografia, paternalismo e altri -ismi: che aneddoti custodisce ancora oggi e, soprattutto, come ha piantato nella sua filmografia, e nel nostro immaginario, quest’albero sempreverde?
Aneddoti? La sera, dopo la cerimonia, si va a cena e ci si saluta, si spengono luci e tutti a casa. Il regista Alan Pakula, presidente della giuria, mi disse: «Sono arrivato qui che ero una certa cosa, vado via cambiato: sono un uomo diverso». Ripeto, nel film incrociavo due percorsi formativi: periferia industriale e campagna, con un odore di letame buonissimo.

Sì, non era affatto un odore sgradevole. Ecco, da bambino io provavo fastidio per l’odore delle macchine: pur amandolo, il mondo operaio non lo sentivo mio, nemmeno dal punto di vista olfattivo. Invece dalla nonna credevo fosse il luogo in cui spendere la mia vita: non sono diventato un contadino, ma il mondo contadino non si è mai più affievolito dentro me. Ebbene, L’albero degli zoccoli è il film che più di tutti mi rappresenta, perché se anche altri, quali Il mestiere delle armi, li riconosco, va oltre: inquadra l’unica civiltà che sopravvive e continuerà a vivere, mentre le altre decadono.

Da Milano ad Asiago, per ora sola andata: via dalla pazza folla, diceva qualcuno, come la scelta di questa location esistenziale si riverbera sul suo cinema?
Ho deciso di venire ad Asiago, che avrei fatto casa per mettere su famiglia, passeggiando in questo territorio una sera. Ho scelto dove farla, ma quando venni ad abitare qui a inizio anni Sessanta non c’erano motori, trattori, motoseghe e motociclette che oggi passano rombando. Anche qui si sta tutto corrodendo, e la cosa di cui sento più mancanza è il silenzio: allora vado dietro casa, cerco di difendermi, riparandomi all’ombra protettiva degli abeti.

Eppure, non abbiamo forse ancora ben capito la perdita, non avendo più silenzio per stare con noi stessi. Come mi ha detto un mio amico un po’ particolare, un anacoreta, non abbiamo più tempo per il silenzio, il silenzio non c’è più.

Dopo la malattia, Lunga vita alla signora! e, mi permetta di aggiungere: Lunga vita a lei!, anamnesi e decorso sono fatti clinici e privati, ma quanto il cinema l’ha «aiutata» a guarire, quanto il cinema, in definitiva, può aiutare l’uomo, se non a cambiare il mondo?
Io non me lo sono mai chiesto, perché non ti viene di farlo. È come quando ci si innamora: non capisci perché. Lunga vita alla signora! è un paradigma del potere, la vecchia signora è una maschera del potere: il potere non c’è, siamo noi ad attribuire potere a quel che abbiamo davanti e non riusciamo a possedere. Sentiamo che il potere è in mano ad altri e ci sottomettiamo senza chiederci perché, adoriamo senza capire, ma il potere non può sopraffarmi se non ho disponibilità a sottomettermi.

Renzi che potere è?
Io mi fido di tutti, ma di solito è fin troppo chiaro che ho fatto male a fidarmi. Ma Renzi è una delle figure che in questo momento mi convincono di più. C’è chi è pronto in tutti i modi a trovare motivo per avanzare critiche, ma dico a tutti questi signori, politici e giornalisti: finora avete avuto l’occasione di poter dare due o tre definizioni giuste di questo giovanotto?

Macché, tutti pronti a bastonare, anziché a dire: «Proviamo a dare aiuto, proviamo a dargli fiducia, cosicché si impegna ancora di più». Ma è il mondo degli invidiosi, a cui chiedo: «Che cosa hai fatto tu, prima di criticare?». E mi riferisco anche alla stampa, che faceva finta di criticare Berlusconi, usando estrema prudenza. Mi ricordo certe serate televisive, Berlusconi con l’arroganza che ha sempre avuto, e i giornalisti tutti lì intimoriti. Avevano forse paura?

Torniamo al cinema: La leggenda del santo bevitore. Il libro di Joseph Roth per soggetto, cast internazionale, lingua inglese e location a Parigi, parrebbe il controcanto di L’albero degli zoccoli, che cosa l’ha colpita?
Roth era uomo di grande fede nella trascendenza, ciò che va al di là del limite umano, e poi si affidava alla poesia. Siamo in un momento cruciale delle società europee, alla vigilia della seconda guerra mondiale, e la cosa straordinaria in questo brevissimo racconto sta nel dire con una chiarezza che ci reca grande emozione come disobbedire qualche volta è più importante che obbedire, quando costituisce motivo di celebrare insieme l’amicizia, la gioia.

Ogni volta che il nostro protagonista trova duecento franchi, s’è dato l’impegno di restituirli alla piccola Thérèse, ma all’ultimo momento disobbedisce, perché trova qualcuno con cui andare a bere nel segno della condivisione, della comunione: disobbedisce per amore, per questo in realtà non ha alcun debito. Da parte mia, non c’è preghiera più bella che dividere un bicchiere di vino con duecento franchi. Verso la fine delle riprese, non ci crederete ma anch’io ho trovato duecento franchi per strada con mia moglie: prima di ripartire, sono andato a darli a Thérèse a nome di Jospeh Roth. Ripeto, la poesia non solo anticipa gli accadimenti, li provoca.

Dopo, 1993, Il segreto del bosco vecchio: un altro libro, di Buzzati, e Paolo Villaggio protagonista: perché lui, che cosa ci ha colto, che cosa le ha dato sul set?
Villaggio? Mette il dito nella piaga. Io avevo in mente Mastroianni, e sarebbe stato un colonnello Procolo fantastico, ma Mario Cecchi Gori mi disse che Villaggio era stato celebrato sull’Unità quale inventore con Fantozzi di una maschera pari a Brighella, che era una persona straordinaria, un artista.

Io non ero convinto, ma chissà forse la novità di non collocarlo solo in Fantozzi… e ho accettato. Ma non era all’altezza del personaggio, meglio, ho scoperto che non era all’altezza del personaggio per come lo sentivo io: lui il colonnello Procolo l’ha fatto benissimo, ma appunto come può farlo Villaggio che non è esattamente quel che volevo io. Con lui il concerto è stato per tromba e orchestra, mentre io l’avevo scritto per violino e orchestra.

2001 e 2003, Il mestiere delle armi e Cantando dietro i paraventi, guerra e (non) pace, Cina e furore: Giovanni dalle Bande Nere resuscitato con rigore filologico e toni iperrealistici; l’Estremo Oriente, la piratessa Ching e Bud Spencer per un esotico lirismo, che cosa tiene insieme i due film? Che cosa le ha fatto scegliere queste storie, che cosa cercava di dirci?
Giovanni dalle Bande Nere al prete che gli dà l’estrema unzione dice: «Ho sempre fatto il mio dovere di soldato, così come avrei fatto il mio dovere di prete se lo fossi stato». Insomma, ognuno di noi faccia bene quel che è chiamato a fare. Invece, mi ero imbattuto in un racconto di Borges sulla piratessa Ching: pensavo fosse un’invenzione, ma era la riduzione di uno dei poemi cinesi più celebrati.

Borges mi ha dato l’opportunità di riscoprire un autore che in Cina è come Omero, e mi è piaciuta l’idea di potere, un potere che anziché cannonate lancia aquiloni. Tutti e due, Giovanni e Ching, sono mestieranti della guerra, ma i due film ci raccontano una storia di pace che è storia di perdono: non può esistere pace senza perdono. Alla fine l’imperatore premia la vedova Ching, e la accoglie di nuovo come farfalla.

Infine, Centochiodi, una sorta di sequel di L’albero degli zoccoli, e Il villaggio di cartone: quale status hanno nel suo cuore, nei suoi pensieri e quanto – penso ai migranti del Villaggio – le istituzioni, al contrario, non sanno tutelare, proteggere, semplicemente vedere i più deboli e indifesi?
Centochiodi è il paradigma del Vangelo: Cristo era un rabbino, un intellettuale che insegnava la Torà, che si ribella e dice no a una Chiesa di mercanti per una Chiesa di fedeli. Predica l’unione della Chiesa del popolo e la Chiesa di Dio, che distruggerà in quanto tempio, ma edificherà in ciascuno di noi: la Chiesa deve essere ogni uomo, quindi non ci sono istituzioni che valgono più della Chiesa, quella che ciascuno si porta dentro sé.

Nel Villaggio di cartone, viceversa, c’è un prete in crisi, perché quando gli smontano il tempio teme di aver perso la sua funzione umana. Ma non è così: quando arrivano gli sbandati, capisce che c’è qualcosa di più importante di una predica alle panche vuote, che il bene vale più della fede. Questo ha causato polemiche, ma lo dice anche il papa: via gli orpelli, i paramenti, via la liturgia celebrativa, andiamo direttamente a incontrare i fedeli di un’altra religione nel villaggio di cartone.

Nella sua filmografia, c’è qualche film, qualche scelta che oggi non riconosce o, meglio, vorrebbe non aver fatto?
C’è un elenco lunghissimo… Quando compiamo certe scelte, anche se in buona fede, poi col tempo capiamo che forse abbiamo sbagliato: dobbiamo correggerci, nella memoria. Dobbiamo comportarci in buona fede, ma quando non facciamo del nostro meglio… correggerci anche nel ricordo è già un modo per riconoscere il limite umano.

Il villaggio di cartone doveva essere il suo ultimo film, ma fortunatamente non lo è: con Torneranno i prati Ermanno Olmi torna?
Perché la guerra? In questo caso non è importante il cinema in quanto tale, vorrei che prima ancora che un bel film, fosse un film utile. Utile! C’è in tutte le celebrazioni il pericolo dello sventolio di bandiere: ci vuole, anche perché è uno dei modi per ricordare, ma guai se fosse il solo modo per ricordare.

Dobbiamo capire perché la guerra, perché questa guerra mondiale è accaduta. Non sono andato alla Mostra di Venezia perché Torneranno i prati non è fatto per il cinema, ma di cinema, per dare una risposta ai 60 mila giovani che attendono ancora di sapere perché sono morti.

La storia non aiuta?
Le versioni ufficiali non sono mai credibili, ci sono sempre percentuali di bugie, atti di prudenza che sarebbe bene che non ci fossero. Noi dobbiamo sapere, conoscere, perché come può la storia essere maestra di vita se ci propinano una storia che non è sincera, anzi, che non è onesta? Allora a cent’anni di distanza penso che il miglior modo di celebrare il primo conflitto mondiale sia proprio questo: capire perché è successo.

Oggi siamo alla vigilia di qualcosa che rischia di somigliare molto, ma con conseguenze ben più gravi, a quella prima guerra mondiale. Perché ancora si parla di guerra? Ma possibile che la civiltà non aiuti a capire le cose più ovvie e scontate, che la guerra è l’atto più stupido che l’umanità possa compiere? Come è possibile? Allora la celebrazione cosa deve essere? Proprio questo: voglio capire perché, perché non succeda un’altra volta. Però anche queste cose quante volte le abbiamo sentite dire, e le abbiamo dette?

Olmi, pessimista?
Io non vorrei esserlo, ma confesso che dentro di me ho qualche timore. Cosa possiamo fare, ancora una volta, per capire una buona volta che la guerra è la più grande stupidità criminale che l’umanità possa compiere? Il discorso somiglia molto a quello dell’onestà, dove diciamo che l’onestà dovrebbe essere dovere di tutti i cittadini, ma tutti i cittadini devono praticare l’onestà se no è solo un’affermazione di principio.

Le affermazioni di principio ci danno il merito apparente di aver pronunciato un bel concetto, una bella frase, ma noi dobbiamo arrivare a capire. Chi la scrive la storia? Ecco negli anni Ottanta furono incaricati degli storici austriaci e italiani di scrivere la storia della prima guerra mondiale, soprattutto circa i due paesi, sulla base di dati inconfutabili e senza retorica. Dico subito una cosa e l’annuncio con un aforisma: sapevano veramente tutto ma solamente quello. Perché non conoscevano direttamente la realtà di cui stavano parlando.

Dunque, che fare?
Ho letto e riletto i libri di testimoni diretti della guerra come l’amico Rigoni Stern per la Russia, Gadda per la prima guerra mondiale, Lussu, Weber e altri e ho trovato delle pagine di straordinaria sensibilità percettiva nel cogliere quelle sfumature che lo storico di professione non può avere. Però anche questi autori che hanno vissuto direttamente quegli avvenimenti li hanno – uso una brutta parola – metabolizzati nello scrivere, perché i loro libri sono romanzi… Viceversa, ho letto pagine di anonimi, di chi non ha nome, ma solo un’indicazione geografica.

Bene, la verità l’ho trovata lì, perché anche il testimone scrittore non dimentica di essere scrittore. Chi invece ha scritto quelle testimonianze le ha scritte o per sé o per i propri familiari. Ho letto delle pagine struggenti. Ripeto la domanda: chi scrive la storia? Quella ufficiale gli intellettuali, quella reale coloro che non hanno parola.

Ci sono agitazioni ormai intrattenibili, popoli che sono stufi di essere soltanto un gregge comandato, ma che chiedono per diritto la libertà di esistere secondo il proprio progetto di esistenza. Ecco perché non possiamo limitarci solamente a dire: non va bene, disapprovo, sottoscrivo il manifesto. Ciascuno di noi è una parte del tutto e quindi ciascuno di noi deve agire, comportarsi, vivere secondo quel progetto di democrazia, conquistata con i sacrifici di cui tutti sanno e di cui molti oggi dimostrano di fregarsene.

Sapete chi sono i peggiori di questa categoria? Quelli che non vanno a votare, quelli che non hanno mai conosciuto il diritto/dovere che ci hanno procurato quelle generazioni in quel momento storico. Allora fu un momento terribile, oggi dobbiamo impegnarci ancora di più. Diceva Camus: «Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna prima che cambi la vita di colui che lo esprime, che cambi con l’esempio».

 

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