Memorandum 42. Che fine ha fatto il tema dell’energia nel ddl 409 (Legge urbanistica) Pigliaru-Erriu? [di Mauro Gargiulo]
www,sardegnasoprattutto.com 25 ottobre 2017 Che energia e territorio siano inscindibili, specie per le Rinnovabili (FER), è del tutto intuitivo, ragion per cui desta perplessità non rinvenirne traccia nel ddl. 409 (Governo del Territorio sardo), la cosiddetta Legge urbanistica varata dalla giunta Pigliaru nella scorsa primavera e che sta suscitando un’ondata di reazioni nell’opinione pubblica. Per la complessità del tema è utile tracciare una sintesi della problematica per intendere anche le gravi assenze e lacune del ddl. 409. A seguito dell’obbligo di promuovere la produzione di energia elettrica da FER (Direttiva n.77/2001/CE), il Governo Berlusconi nel 2003 varava il dgls.387, con cui adottava specifiche misure economiche e procedurali. In particolare l’art.12 prevedeva che gli impianti per la produzione di energia elettrica da FER dovessero essere considerati di pubblica utilità (comma 1), che il procedimento fosse unico (Autorizzazione unica – comma 4), che gli impianti potessero essere ubicati in zone classificate agricole dagli strumenti urbanistici (comma 7). Pur nella sua stringata formulazione la norma era destinata a generare un effetto dirompente nell’ordinamento legislativo. Con il ricorso alla finzione giuridica dell’equiparazione alla pubblica utilità e la traslazione, se pur mediata, in capo all’impresa del potere coercitivo dello Stato, il diritto di proprietà, sancito dall’art.832 del C.C. veniva a subire una violenta contrazione a vantaggio della libertà di iniziativa economica. In tal modo infatti fondi espropriati, impianti realizzati ed utili d’impresa sarebbero confluiti in mano privata, nonostante che la copertura finanziaria risultasse garantita dagli incentivi statali e quindi prelevata dalle tasche degli italiani. Anche la semplificazione procedurale introdotta dal comma 4 mirava ad uno scardinamento di principi consolidati del diritto amministrativo. Si finiva per sottrarre potere decisionale alle rappresentanze politiche locali, facendo in modo che Varianti urbanistiche e Permessi di costruzione diventassero corollari formali del provvedimento autorizzativo. Di dubbia costituzionalità infine appariva il principio dell’indifferenza della localizzazione degli impianti rispetto alla pianificazione urbanistica (comma 7). Vi è da aggiungere che il citato strumento normativo provvedeva al reperimento delle risorse economiche con il ricorso allo strumento delle tariffe incentivanti. Gli impianti sarebbero stati finanziati con i proventi derivanti dall’applicazione di quella componente tariffaria A3, che nel solo 2016 ha emunto dalle tasche degli italiani 13,6 miliardi di euro, prelievi destinati a incrementarsi e prolungarsi per un quarto di secolo! E’ d’obbligo demistificare il portato ideologico che era alla base di quell’assunto normativo. Una finalità di interesse collettivo, quale il contenimento delle emissioni climalteranti, diventava strumento nelle mani del capitale per usurpare attraverso il ricorso alla violenza di stato la ricchezza individuale. Il territorio non era più visto come bene collettivo, depositario di risorse limitate e quindi capace di esprimere in potenza una molteplicità di usi solo se compatibili con le sue intrinseche caratteristiche. La vera violenza non consisteva però solo nel neutralizzare pianificazioni urbanistiche e programmazioni territoriali, annichilire ogni dialettica con le rappresentanze politiche della collettività, depauperare le già esigue risorse agricole per fini alimentari. Equiparare la terra a un mezzo di produzione, renderla un bene strumentale per l’esercizio d’impresa, prescindendo dalle sue capacità produttive, dalla sua connotazione pedologica, è equivalso al tentativo di eradicare da la communis opinio il concetto stesso di Terra come Madre. Oggi diremmo che si tratta di un processo di sostituzione di un archetipo antropologico, che investe non solo su logu, ma l’uomo nel suo cammino attraverso la storia della cultura. Sa mesa mudata in taula ! Estrapolando dai contenuti specifici, possiamo affermare di trovarci in presenza di quella strategia globale fondata sulla mercificazione e sul consumo di territori e valori, postulata dal neoliberismo, metastasi di un capitalismo selvaggio, che porta al collasso le strutture sociali appropriandosi delle risorse collettive, manifestazione di quel Leviatano che nella visione marxista finirà per divorare sé stesso. A chi osservi che il dlsg.387 ha consentito all’Italia di raggiungere con largo anticipo e superare l’obiettivo del 20% nella produzione di energia elettrica, imposto con la Direttiva 2009/29/CE, si può rispondere con l’analisi dei risultati in Sardegna. I dati Terna per il 2016 ci dicono di un eccesso di produzione di energia elettrica rispetto ai consumi pari al 33%, con un’aliquota da FER pari al 37%. Si è cioè raggiunto un obiettivo che penalizza largamente l’Isola in termini di costi e impatti ambientali e nulla le restituisce in termini di occupazione, con un anticipo di oltre 15 anni rispetto al previsto: solo per il 2030 infatti la C.E. pone l’obiettivo del 30%. Va inoltre ricordata la schizofrenia di un sistema energetico isolano, che vede le centrali termoelettriche sarde continuare a svolgere il ciclo produttivo utilizzando fonti fossili e l’avvio del processo di metanizzazione dell’isola. A questo punto si potrebbe osservare che con una normativa nazionale sovraordinata pochi siano i margini di manovra concessi ad una legge regionale che si occupi di Governo del territorio per mitigare effetti così esiziali. Anche in termini puramente legislativi le cose non sembrano stare così. Se pur non si fosse voluto tener conto della finalità espresse al comma 3 dell’art. del dlgs 387 (“concorrere alla creazione delle basi per un futuro quadro comunitario in materia”), un appiglio poteva essere rinvenuto nell’ambito dell’articolo 10 (Obiettivi indicativi regionali), e più specificamente al comma 2 ove si fa esplicito riferimento “ai progressi delle conoscenze relative alle risorse di fonti energetiche rinnovabili sfruttabili in ciascun contesto territoriale e all’evoluzione dello stato dell’arte delle tecnologie di conversione”. Ulteriore supporto sarebbe potuto derivare dai contenuti dell’art.13 della Direttiva comunitaria 2009/28/CE secondo il quale le norme di autorizzazione devono essere “oggettive e trasparenti”, nonchè “proporzionate” e tener conto “delle specificità di ogni singola tecnologia.” Al di là della rigidità del quadro legislativo è comunque evidente che non era negli intendimenti dei legislatori sardi, inclini a soddisfare gli appetiti volumetrici in prossimità delle coste, ricercare strumenti normativi, che se pur potenzialmente collidenti con le competenze dello Stato, potessero lenire quello scempio del territorio sardo, che la speculazione energetica sta producendo. E’ significativo che nel ddl 409 il termine energia ricorra solo 5 volte e sempre in connessione con gli aspetti edilizi. Una latitanza che la dice lunga rispetto alla rilevanza del problema! Né vale far riferimento al Piano energetico sardo, affetto, come da più parti denunciato, da uno strabismo programmatorio, che da un lato occhieggia alle rinnovabili e dall’altro celebra la metanizzazione dell’isola, incapace di cogliere la contraddizione insita in questa mancata visione sistemica. Problematiche quali il consumo di suolo, la prevaricazione economica delle biomasse sui prodotti agricoli, il drenaggio delle risorse idriche non disgiunto dalle incalzanti siccità, gli impatti ambientali sempre più rilevanti in termini di ampiezza e di temporalità, sono componenti che vanno emergendo all’attenzione di tutti nella loro devastante drammaticità. Un arco temporale di 14 anni, tanti ne passano tra il dlgs 387/03 e il ddl 409/17, è di un’ampiezza siderale se rapportato all’evoluzione delle tecnologie impiantistiche per l’utilizzo delle FER e delle acquisizioni scientifiche in materia ambientale, perché si continui a dover fare riferimento esclusivo a uno strumento normativo nato obsoleto, viziato ideologicamente all’origine e che (lo si stenta credere!) nessun limite imponeva in relazione alla sostenibilità ambientale degli impianti. Il territorio, soprattutto quello sardo, è su logu dove questa tragedia si sta consumando. Ignorare tale scempio quotidiano sotto i nostri occhi, rinunciare a preservare questo scrigno che la storia ci ha consegnato e di contra predisporre passepartout normativi che servano ad eluderne le poche tutele è colpevole insensatezza. Il territorio, come depositario di interessi divergenti, richiede di essere disciplinato da specifiche normative d’uso, il cui coordinamento dovrebbe essere assicurato da una legge che ne assicuri il buon governo, ovvero tutela e conservazione, perché esso è depositario dei valori materiali e immateriali delle Comunità nel loro insieme e quindi il bene inclusivo per eccellenza. *Responsabile Energia Italia Nostra Sardegna *** L’articolo rielabora l’intervento tenuto il 14 ottobre a Milis nel seminario di LAMAS e Sardegna Soprattutto “Materiali per un’urbanistica sostenibile” nella Tavola rotonda “Terra, Ambiente, Paesaggio: beni in prestito per chi verrà dopo” .
|