Questo Referendum non s’ha da fare [di Maria Antonietta Mongiu]
La Collina – Trimestrale di informazione sociale Aprile –Giugno 2018. La Sardegna assiste ad una precoce antropizzazione a datare dal Paleolitico, riconosciuta dagli studi archeologici a cui si sono aggiunte quelli sul DNA che hanno chiarito i caratteri delle popolazioni sarde ma anche di quelle europee e dell’Africa, e delle loro relazioni. Le vicende insediative e la densità dell’intreccio tra natura e cultura hanno prodotto nell’isola un paesaggio – un unicum – con manufatti fin dal tardo Mesolitico. Nonostante tanta ricchezza, paesaggistica e storica, la percezione dell’isola è stata di una terra afflitta da una sorta di determinismo geografico. Luogo comune trasferito dalle geografie al comportamento della popolazione, interpretato con un approccio etnocentrico, al punto che si è affermato lo stigma, diventato autostigma, che vivere in Sardegna fosse una disgrazia, o che i suoi luoghi non valessero perché altro dai canoni, o che le sue tradizioni tutt’altre potessero, come paesaggio e ambiente, essere obliterate, distrutte, svendute. Solo un comportamento svalutativo spiega le teorie, frequentate dagli studiosi, di anticlassico e barbarico, o la costante resistenziale, applicate a cultura materiale, produzione storico artistica e storico architettonica; o l’ascrizione alle culture subalterne che ha inerito persino nel rifiuto di agire il sardo le cui grammatica, sintassi, vocabolario, produzioni letteraria e giuridica erano invece da tempo codificati. Il percorso di auto-riconoscimento nei codici linguistici, nella storia, nell’ambiente e paesaggio, nei luoghi, e il loro valore costituzionale è recente e trova la formalizzazione nel PPR del 2006 in cui, in attuazione dell’art. 9 della Costituzione, si legge che il paesaggio come la sua lingua rappresenta parte integrante dell’identità della Sardegna. Il ribaltamento di paradigma ha evidenziato che l’autopercezione di marginalità, a lungo caratterizzante, ha svilito la condizione di insularità pur essendo la ragione fondativa di Statuto e specialità della Sardegna ancorché nell’autoproposizione della minorità e dello svantaggio. Lunga la storia di tale spleen e dei suoi punti di vista per quanto, nelle fonti antiche e specialmente in quelle greche, l’insularità della Sardegna isola dalle vene d’argento – primigenia definizione, per la ricchezza di metalli, e a forma di orma di piede – sia positiva. Ciò che è stato un valore fu degradato a svantaggio solo perché – nell’organizzazione della repubblica – lo scompenso della servitù della mobilità non è stato valutato nelle implicazioni relative ai condizionamenti per persone e merci. Concretamente il patto tra Sardegna e stato non ha mai declinato l’autonomia come superamento delle condizioni ostative per consentire a chi vive in Sardegna di avere pari opportunità e condizioni di ogni altro europeo; neanche col Trattato di Maastricht che garantisce a persone e merci la libera circolazione in Europa e supera svantaggi geografici permanenti e gravi. Da tale presa d’atto è scaturita l’idea di portare il caso Sardegna, nel 2017/2018, all’attenzione del dibattito politico e dell’opinione pubblica con la richiesta di Referendum per l’inserimento del principio di insularità in Costituzione e rientrare nell’ambito delle pari opportunità mancanti specie per le giovani generazioni il cui punto di partenza è più disagevole dei coetanei europei. Il riconoscimento dell’insularità avrebbe coronato una stagione di autocoscienza agita con la insistita discussione sul paesaggio della Sardegna; il suo riconoscimento e messa in valore abbattono l’equazione insularità/isolamento. Tra gli stigmi più diffusi è contestualmente in via di superamento quello per cui i sardi hanno vissuto il mare come barriera in favore di un reale rapporto millenario col mare-ponte mentre i low cost delle generazioni Erasmus mutano il punto di vista su di se e sul mondo. Ben per questo i principi posti alla base della campagna referendaria, attraverso azioni di pedagogia sociale e civile, hanno creato dibattito e vasta partecipazione, comportamenti collaborativi tra cittadini, intellettuali, studiosi, politici, e azioni di cittadinanza-attiva. La promozione di concetti quali costituzione, insularità, pari opportunità, autonomia, ha stimolato buone prassi inclusive e superamento degli schieramenti. L’idea di un riconoscimento costituzionale dell’insularità ha agito di conseguenza anche sul piano della coesione sociale, configurandosi come un iter nel superamento di forme di risentimento e di antagonismo verso le istituzioni statali ed europee, interpellando sulle pratiche della pari dignità e non solo su regimi di vantaggio che compensino le condizioni sfavorevoli per un’obiettiva situazione. Ecco perché la decisione dell’Ufficio regionale del Referendum di dichiarare illegittimo il quesito proposto dal Comitato per il Referendum per l’inserimento dell’Insularità in Costituzione suscita reazioni variegate. Per chi ha competenze giuridiche, al netto di quelli affetti da pregiudizi e personalismi, e per i componenti del Comitato per il Referendum e del suo Comitato scientifico è del tutto incomprensibile. La pubblicazione nella Rivista www.SardegnaSoprattutto.com di una scheda di Paolo Numerico, già Presidente del TAR Sardegna e vice Presidente di una Sezione del Consiglio di Stato, ha rafforzato la convinzione. Per altri più conformisti la decisione è apparsa scontata. Per alcuni rinfocola quel grumo di rancore, parte integrante delle pedagogie più frequentate, sempre sul punto di esplodere. Infine per molti che non vogliono prendere posizione per una perniciosa indifferenza è la profezia che si auto avvera. La decisione disconosce l’azione di pedagogia civile del Comitato che ha prodotto la raccolta di quasi 100.000 firme; dibattiti e conferenze con partiti e formazioni politiche e sociali, di diversa origine, a sostegno del Comitato insieme ad esponenti di università, mondo culturalere, associazioni; azioni positive come poche altre volte, specie ove si pensi alla distanza tra società e politica che va aumentando ogni giorno. C’erano pochi dubbi e incertezze sul Referendum ad ottobre anche per la convinta risposta popolare. Ma nella storia dell’isola è spesso avvenuto che percorsi di autocoscienza abbiano avuto interruzioni. Senza scomodare la teoria del superamento di un paradigma di Thomas Kuhn non vi è dubbio che non è facile oltrepassare l’esistente per sostituirlo. Ma ormai si è definitivamente consumato il dizionario che ha abitato le retoriche della politica sarda: decentramento, autonomismo, specialità. Concetti di colpo frusti. Il paradigma riassumibile nel significante insularità parrebbe più denso di significati, risolutivo e idoneo a nuovi linguaggi e decisori; connesso con più consapevoli sensibilità. Ciò spiega il consenso al Referendum ma anche il blocco della Commissione regionale e la presa di coscienza che ogni vittoria civile e pacifica, trova temporanee resistenze. Il ricorso che il Comitato sta opponendo oltre a chiarire le contraddizioni della Commissione regionale, consente di tematizzare ulteriormente il concetto di insularità e di declinarlo con parole altrettanto potenti quali reciprocità, interdipendenza, responsabilità, pari opportunità, inclusione; di liberarsi di quel risentimento che, in Sardegna, attraversa relazioni, dinamiche, politiche e consuma energie; di agire nell’immaginario collettivo. Non è semplice infatti convincersi che chi si trovi in Sardegna debba avere le stesse opportunità di un qualsiasi europeo per il quale quando si dice speciale non si intenda, come in Sardegna, svantaggiato perché il binomio autonomia speciale a ciò si è ridotta. Essere isola non è svantaggio se si è sgravati dalle condizioni ostative derivate da oggettive servitù di cui quella della mobilità è una delle tante. La Sardegna non è altro dalle altre isole europee ma storicamente ha percepito la sua insularità come isolamento col doppio effetto che qualsiasi situazione di svantaggio, spesso per classi dirigenti inadeguate, si è giustificata con l’isolamento; dall’altra, la specialità ha consentito di considerare la Sardegna territorio coloniale d’oltre mare; il suo sviluppo una fattispecie del sottosviluppo; la sua storia una variante etnocentrica; le sue classi dirigenti complici a patto di essere considerate uguali. Ma la bussola è che il principio di insularità insiste sul concetto di pari dignità e di superamento di ogni discriminazione. Mobilità, cultura, piccole e medie imprese, industria, tecnologie e comunicazioni, in Sardegna, soffrono di un surplus di ostacoli che sta trasformando uno dei baricentri del mondo antico in una terra irraggiungibile e isolata. Ciò non dipende dall’essere un’isola ma da un diritto negato che bisogna riconoscere negli ordinamenti italiani ed europei. Esiste una giurisprudenza che afferma che il principio della compensazione degli svantaggi derivanti dall’insularità può ritenersi carattere identitario nazionale, e consente quindi anche deroghe al regime degli aiuti di stato che l’Unione Europea vieta. |
Io sono uno dei 92000 circa che hanno firmato per il referendum sull’insularità. Tuttavia, se si fosse tenuto avrei votato no. Io penso che tutti i cittadini italiani debbano avere gli stessi diritti e gli stessi doveri quale che sia la parte della Repubblica che si trovano ad abitare. Penso inoltre che l’insularità non rappresenti solo un handicap ma anche una opportunità, che ci siano dei contro ma anche dei pro. Fosse per me abolirei le regioni a statuto speciale e le province autonome. La penso come Jean Pierre Chevenement che quando la Francia diede una qualche forma di specialità alla Corsica si dimise da ministro degli interni.
Mi paret de lu pòdere cundívidere in totu custu artículu de M. A. Mongiu, mescamente ue narat ite ideas zughimus cravadas in conca nois Sardos de sa terra nostra e de nois etotu (e tocat a ispiegare proite, si no sunt iscritas in su DNA nostru, professoressa Mongiu!).
E una dimandha la depo fàghere: Chie est cussu Don Rodrigo (e chie sunt cussos “bravi”!) de s’órdine “Non s’ha da fare!”?
Si custa proposta de referendum (furriada apustis a proposta – intendhide!, intendhide! – de modífica de sa Costituzione italiana) at fatu uni0ne de Sardos (namus, menzus, carchi unione) chi tiat pàrrere significativa, est de seguru cosa bona. Ainnantis gai!
Ma s’unione de sos Sardos, s’unione puru?!, la depimus fàghere pro pedire a su mere Don Rodrigo? Pro li nàrrere ite depet fàghere isse in domo sua?
Fossis custu referendum e proposta de leze est un’istertzadedha de carchi gradu in sas furriadas e furriotos de chie no cheret cumprèndhere sa realtade de dipendhéntzia e irresponsabbilidade isitutzionale de nois Sardos iscrita e fossilizada in domo de su mere de sa Sardigna, andhendhe sempre in sa matessi diretzione contrària de 180 grados, insistindhe (abberu unidos?!) pedindhe… dipendhéntzia. Ca a pedire est a dipèndhere. Bravi!
Mi daet s’idea de “bravi” in carriera, chi fossis cumprendhent chi sa tirannia andhat male si est tropu e pro cussu pregant “procurade de moderare”, fossis ca, in fundhu in fundhu, de custa tirannia campant (e ponimus chi no ingrassent) o faghent carriera.
Si carchi cosa si moet, inoghe mi paret chi semus totugantos zoghendhe a fàghere sos don Abbóndios, no a nos leare sa libbertade/responsabbilidade de èssere zente in su mundhu!