L’ipotesi di infiltrazione di stampo mafioso in Sardegna è risultata veritiera [di Antonietta Mazzette]

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Nel primo rapporto di ricerca sulla criminalità in Sardegna del 2006, in controtendenza rispetto a chi teorizzava che in Sardegna mancassero i presupposti culturali perché attecchissero forme di criminalità organizzata, avevamo indicato, attraverso i dati, i segni di una mutazione della criminalità sarda. In particolare, lo avevamo rilevato per certe tipologie di attentati e di rapine più complesse.

Va detto che nella maggioranza dei casi si trattava di associazioni provvisorie che si formavano per compiere la singola impresa delittuosa, ma alcune apparivano più stabili, ad esempio, quelle che utilizzavano l’attentato a scopo economico e che stavano dentro l’oscuro mondo dell’estorsione.

Allora la nostra ipotesi di infiltrazione di stampo mafioso è apparsa “azzardata” e solitaria, anche perché prevaleva la convinzione che la particolare struttura della società sarda e, perciò, anche il tipo di criminalità a cui essa ha dato luogo (il “banditismo sardo”, per usare una espressione ormai datata), regolata dal “codice della vendetta barbaricina”, ricostruito da Antonio Pigliaru, abbia concorso a tenere lontane dall’Isola le organizzazioni di tipo mafioso.

Abbiamo trovato conferma dei segni di questa “nuova” fase della criminalità nei dati che abbiamo riportato nei rapporti successivi (scaricabili gratuitamente dal sito dell’Osservatorio sociale sulla criminalità, www.oscrim.it), per il diffondersi e affermarsi in diversi settori della società sarda di presenze, interessi e metodi criminali attrezzati e organizzati. D’altronde, le nostre supposizioni disgraziatamente hanno trovato conferma nelle ultime relazioni della Commissione antimafia.

Comunque, siamo molto cauti nell’affermare che in Sardegna le organizzazioni di tipo mafioso siano già riuscite ad accumulare il necessario “capitale sociale” – ossia, un rapporto con la politica e le istituzioni, rapporto indispensabile per lo sviluppo di affari che richiedono l’interesse pubblico, quali appalti, scelte riguardanti le fonti di energia, gestione dei rifiuti -, anche se indagini giudiziarie in corso ci inducono a pensare che qualche tentativo in questa direzione sia stato fatto.

Oggi in Sardegna va sviluppandosi una discussione allarmata intorno all’idea che la criminalità organizzata abbia assunto un ruolo importante, soprattutto in relazione alla droga e al riciclaggio del denaro sporco. Allarme più che giustificato al quale aggiungo due elementi. Anzitutto, la grave crisi del sistema economico isolano, con povertà e disoccupazione crescenti, lasciano grandi spazi di manovra a questo tipo di imprese criminali, spazi che, però, possiamo ancora limitare.

In secondo luogo, se è fondato l’allarme che la Sardegna è diventata un crocevia di traffico di droga, anche per la sua collocazione geografica, non va dimenticato che è anche produttrice diretta: dal 2014 monitoriamo quotidianamente il fenomeno delle coltivazioni illegali di cannabis e da allora abbiamo registrato una crescita e una diffusione territoriale preoccupanti. Basti pensare che i sequestri di piante nel quadriennio 2010/2014 sono stati 30.479, nel biennio 2016/2017 40.899.

Ebbene, a quale mercato è rivolta questa produzione? Di sicuro non solo a quello sardo, sia perché la Sardegna ha una popolazione di poco più di un milione e mezzo di persone, sia perché in buona misura è anziana. Così come non possiamo pensare che la produzione sia in mano a singoli individui, per lo più disoccupati e con bassi livelli di istruzione, soprattutto quando si tratta di grandi piantagioni dotate di strumenti sofisticati.

Ma tutto ciò è legato a un altro elemento: il traffico illegale di armi. Nell’ultimo rapporto di ricerca (il quinto) riformuliamo e teniamo aperte delle domande che noiosamente (lo riconosco) ripropongo ancora una volta in questa sede: come mai in Sardegna continua ad esserci questa diffusione di armi da fuoco? Da quale mercato illegale provengono? E perché la loro diffusione non è considerata un disvalore sociale?

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