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Doppiozero 26 maggio 2018. Che tipo di testo è un curriculum? La questione, avendo investito Giuseppe Conte, nostro Premier prossimo venturo, è tutt’altro che accademica. E la risposta, stando agli innumerevoli usi che dei curricula si fanno oggigiorno, e alla miriade di sue manifestazioni semiotiche – dalla versione narrativa a quello sotto forma di elenco, da quella cartacea a quella on line, dagli endorsement di Linkedin alle videopresentazioni di cui è stracarica Youtube –, è meno ovvia del prevedibile.
Soprattutto meno facile e immediata. Sembra un po’ come il solito tempo per Agostino: una cosa che tutti sappiamo cos’è, ma quando dobbiamo definirla ecco che scappa da tutte le parti.
Così, internet è piena di gente che ti dà consigli sul miglior modo di stilarlo, di saputelli che sciorinano le regole d’oro per la sua compilazione ideale, ma non c’è quasi nessuno che riporta, non so, le sue origini storiche, le sue trasformazioni nel tempo descrivendo, appunto, la sua forma testuale.
L’unica cosa di cui si è certi è che si tratta di un che di freddamente istituzionale, di mediamente azzimato, che fa della persona che esso deve presentare una sommatoria di stereotipate competenze ritenute socialmente utili: le conoscenze linguistiche, il saper fare informatico, il tipo di laurea, di studi postlaurea e di luoghi dove li si è svolti, gli incarichi di lavoro, poco altro. Il curriculum sarebbe insomma un documento che, etimologicamente, dovrebbe rispecchiare il “corso di una vita”, e che però seleziona a monte che cosa di tale vita è pertinente e cosa va omesso, cancellato, rimosso.
Da cui la celebre, bellissima poesia di Wislawa Szymborska che s’intitola “Scrivere un curriculum” e che vale la pena di riportare per esteso:
Cos’è necessario?
È necessario scrivere una domanda,
e alla domanda allegare il curriculum.
A prescindere da quanto si è vissuto
il curriculum dovrebbe essere breve.
È d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
Cambiare paesaggi in indirizzi
e ricordi incerti in date fisse.
Di tutti gli amori basta quello coniugale,
e dei bambini solo quelli nati.
Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.
I viaggi solo se all’estero.
L’appartenenza a un che, ma senza perché.
Onorificenze senza motivazione.
Scrivi come se non parlassi mai con te stesso
e ti evitassi.
Sorvola su cani, gatti e uccelli,
cianfrusaglie del passato, amici e sogni.
Meglio il prezzo che il valore
e il titolo che il contenuto.
Meglio il numero di scarpa, che non dove va
colui per cui ti scambiano.
Aggiungi una foto con l’orecchio scoperto.
È la sua forma che conta, non ciò che sente.
Cosa si sente?
Il fragore delle macchine che tritano la carta.
Cupa, pessimistica descrizione del mondo tecnocratico e funzionalista in cui ci tocca di vivere? Alla luce di quel che sta accadendo in questi giorni nelle nostre vicende politiche, ma che ha radici ideologiche ben più profonde, a rileggerla oggi questa poesia appare quasi euforica, scanzonatamente ottimista. Ho difatti l’impressione che i pasticci in cui ci stiamo dibattendo siano lo sciagurato esito di alcune viete mitologie che si incrociano fra loro.
La prima è la smania della verità e dell’oggettività a tutti i costi, ossia la presunzione ingenua che non solo le parole rappresentino le cose, ma che lo facciano sempre e dovunque e comunque, in ogni circostanza e per ogni necessità. “La neve è bianca” è enunciato vero se e solo se la neve è bianca, spiegano i filosofi.
Ma se lo andate a dire a un lappone che abita infreddolito in un igloo vi guarderà esterrefatto: lui, che ci vive a contatto ventiquattr’ore al giorno per trecentosessantacinque giorni all’anno, non sa cos’è la neve: meno che mai sa se è bianca.
Così, se uno dice che ha studiato in una biblioteca americana non sta mentendo, sta solo – e non è poco – sbagliando a inserirlo in un curriculum perché non avrebbe modo di documentarlo con un apposito certificato su carta intestata e firma del capo bibliotecario. Il problema non è dunque dire, o occultare, la verità, ma dire le cose nel posto giusto, al momento giusto, alle persone giuste.
La seconda mitologia, a prima vista opposta alla prima ma in effetti a essa consequenziale, è l’idea della personalità a tutto tondo, di una soggettività che ha mille sfaccettature ma tutte utili, anzi necessarie, per rendere conto della complessità della persona. Così io, poniamo, sono un bravo venditore di auto sportive ma sono anche un lettore di Oscar Wilde, un appassionato di football americano e un amante dell’Amarone mediamente invecchiato.
E, a ogni buon conto, riporto tutto nel curriculum, sperando, poniamo, che il mio selezionatore, ossia il lettore del mio curriculum sia, per fortunate ragioni di famiglia, un produttore in proprio di Valpolicella superiore. Con buona pace della Szymborska, oggi nei curricula si scrive di tutto, anche i figli non nati, le gite fuori porta e i canarini che stanno in verandina.
Così, se sono andato in quella biblioteca per studiare testi pertinenti alle mie ricerche accademiche, o perché sono interessato al mobilio ottocentesco americano, oppure ancora perché nel tavolo accanto c’era una giovane dottoranda di cui son stato innamorato va tutto bene.
Tutto fa brodo per descrivere il corso della mia vita. E lo inserisco nel curriculum. Si tratta, in altre parole, di una specie di oggettivazione della soggettività, senza alcuna cura dell’attinenza sia delle informazioni che dovrebbero contribuire a descriverla sia di coloro che, leggendole, dovrebbero valutarne l’interesse.
La pertinenza, questa sconosciuta. Il combinato disposto di questi due miti è deflagrante. Oggi siamo circondati da curricula doppiamente inutili: da una parte perché si ritiene che vadano bene sempre e comunque, senza curarsi delle circostanze in cui e per cui verranno, se del caso, letti e valutati; dall’altra perché troppo carichi di notizie ridicole, dalla conoscenza del dialetto di certi paesi lucani alla capacità di riparare antichi orologi scozzesi a molla. Il tutto rincarato da un mito ulteriore, quello del curriculum come tale, testo ritenuto portatore di verità oggettive e di competenze certe, stacciuto avversario d’ogni favoritismo e d’ogni raccomandazione.
A dispetto del fatto, tanto evidente quanto misconosciuto, che un curriculum universitario non è equivalente a uno politico, che uno di barman non è analogo a uno di pilota d’aerei, e che per essere assunti in un call center non dovrebbe essere necessario avere la laurea in scienze della comunicazione. Ma l’idea di una personalità a tutto tondo deraglia la questione, generando il corollario per il quale se uno è stato un bravo boy scout, saprà guidare degnamente il Paese.
È, a ben pensarci, l’ambiguità di una voce presente ufficialmente nel famigerato schema del cosiddetto Europass (o EuroCv): “Istruzione e formazione”. Come se studiare biologia a Harvard e difendere le balene artiche dai cacciatori di frodo siano esperienze equivalenti per aspirare a una prodigiosa carriera di naturalista. Certo, per diventare un buon antropologo occorre saper trattare coi pochi “selvaggi” rimasti, frequentare i pub dove si ammazzano di vodka, tifare con loro alle lotte balinesi fra galli. Ma forse non val la pena scriverlo nel curriculum.
Che dire? Il buon senso sembra sia la cosa peggio distribuita al mondo, con buona pace dell’intelligentissimo Cartesio. L’hanno scoperto i suoi rivali in filosofia: e lo dichiarano nel curriculum. Aspirando almeno a un assessorato comunale alla scuola.
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