Scrivere il paesaggio industriale: un’intervista con Anthony Cartwright [di Alberto Prunetti]
Lavoro Culturale 23 maggio 2018. Anthony Cartwright è uno scrittore inglese. I suoi romanzi, tra cui “Iron Towns. Città di ferro” (2017) e “Heartland” (2013), ambientati nell’Inghilterra industriale delle Midlands, raccontano le vite dei figli della working class inglese, orfani delle certezze del passato, in uno scenario di lavori precari e ciminiere arrugginite. Lo ha intervistato per Lavoro culturale Alberto Prunetti. Nei tuoi romanzi, il paesaggio conta tanto quanto i personaggi. È un paesaggio industriale: più che un landscape, un work-scape. Tutto questo ha a che fare con la fine della civiltà industriale, come la conosciamo. Come la vedi? Il paesaggio industriale è davvero nei tuoi romanzi qualcosa di più di uno sfondo? È un personaggio? « Di sicuro il paesaggio industriale gioca una parte centrale nella mia opera. Le ragioni sono molteplici. La prima è che Dudley – dove gran parte della mia scrittura è ambientata – è molto collinare e da lì si può vedere una bella fetta delle Midlands (e nei giorni più tersi anche del Galles). Così i colli e le strade su cui sono cresciuto (come le strade che Cairo Jukes percorre nel mio nuovo romanzo “The Cut”, che sarà pubblicato in Italia da 66thand2nd nel marzo 2019) hanno una prospettiva verso un paesaggio industriale e le colline in lontananza (come le “blue, remembered hills” di “A Shropshire Lad” di A.E. Housman). La vista nel suo complesso è un insieme di paesaggio rurale e urbano, molto industrializzato e al tempo stesso bucolico, anche se gran parte delle industrie sono dismesse. Un’idea-chiave della mia opera è che i personaggi hanno interiorizzato queste prospettive, questo paesaggio, includendo la bellezza e la forza del miracolo industriale e il collasso e i danni inflitti. Le colline di cui scrivo sono state ferite dai tunnel delle miniere ormai chiuse, da edifici fatiscenti, e quest’immagine ritorna in diversi miei romanzi. Rappresenta qualcosa di esausto, quasi completamente consumato – un’intera cultura, un modo di vivere – sì, la fine della civiltà industriale di sicuro nella maniera in cui l’abbiamo conosciuta nelle Midlands inglesi negli ultimi due secoli. È qualcosa che per me è importante raccontare, registrare». Parliamo adesso della relazione padre/figlio in un ambiente working class. È un tema importante di “Heartland”. È autobiografico?« In un certo modo è autobiografico, anche se non in maniera diretta. Vengo da una famiglia con legami molto forti e gran parte della nostra storia ha a che fare con la storia industriale della regione. Nella famiglia di mio padre erano tutti chainmaker, fabbricanti di catene di metallo (sia gli uomini che le donne: questo lavoro era eseguito nei cortili adiacenti alle case in cui vivevano gli operai) e gli uomini nel lato materno della mia famiglia lavoravano principalmente nelle fonderie. In quasi tutti i miei libri seguo un modello: il figlio cerca di vendicare il padre, di raddrizzare un’ingiustizia che il padre ha subito. Questo vale per Cristy ne “Il giorno perduto”, che vede il padre morire di un tumore ai polmoni, e vale anche per Robert Catesby, che cerca in qualche modo di replicare la carriera calcistica del padre in “Heartland”; o nel caso di Sean Bull, personaggio del mio romanzo “How I Killed Margaret Thatcher”, deciso a far fuori il Primo Ministro per vendicare la cattiva sorte del padre. Ovviamente alle spalle c’è una tradizione letteraria. Un altro punto emotivamente forte che ha a che fare con l’esperienza working class ha a che vedere con la distanza che un figlio può avere dal padre: nel XX secolo un minatore poteva augurarsi che suo figlio diventasse insegnante o avvocato, ad esempio, e probabilmente non si augurava che il figlio lo seguisse in miniera, rimpiangendo però la distanza che si era creata tra loro. In “Heartland” Thomas e Robert Catesby, padre e figlio, vogliono aiutarsi a vicenda per rendere più leggero il carico dell’altro, ma non ce la fanno. Alla fine si accontentano di non rendere le cose peggiori. Penso che entrambi percepiscano il dolore e l’ironia di questa condizione». Rispetto al tema dell’eroe, ho sentimenti ambivalenti. A volte gli eroi son difficili da maneggiare. Non mi piace il processo di identificazione con l’eroe. Apprezzo però l’idea, tipicamente inglese, del working class hero. È un eroe più grande della vita stessa, che nonsi limita a lavorare come il padre, che volge la schiena alla fabbrica per diventare un calciatore… ma il destino (o la società) lo punisce per la sua hybris. L’eroe working class a quarant’anni passa più tempo nei pub che nei campi di calcio, non ha una vera vita familiare… penso a personaggi letterari come a Liam Corwen del tuo “IronTowns”o al protagonista de “Il campione” di David Storey. Quest’idea, fallimentare, crepuscolare, poco gloriosa, degli eroi working class mi affascina. Tu cosa ne pensi? « L’espressione è stata resa immortale da John Lennon e il tipo di crisi esistenziale che tu descrivi è resa in maniera stupenda dal romanzo che Kevin Barry ha scritto sugli ultimi anni di vita di Lennon, intitolato Beatlebone. Quel senso di percepirsi alienati, lontani da dove tutto è cominciato, dalla gente e dai posti che hanno forgiato il tuo successo… è molto familiare, soprattutto nel mondo dello sport, dell’arte e dello spettacolo. Penso sempre a John Lennon, ma anche a vite come quelle di George Best, forse in certa misura anche a Paul Gascoigne, dove c’è molta gloria, dove vengono incarnate le speranze e i sogni delle persone e anche (forse proprio per questo) molta sofferenza. In “Iron Town” una grazia salvifica per Liam è la sua epifania in cui non sono i calciatori gli eroi. Sono quelli che vanno allo stadio a guardare, gli spettatori. Quasi alla fine del romanzo, il personaggio decide che “i veri pellegrini sono i calciatori”, ovvero che sono i calciatori che vanno in pellegrinaggio negli stadi per ricevere la benedizione del pubblico. Sia in “IronTowns” che in “Heartland” ci sono variazioni sul tema resistenziale del “sono ancora qui”: persone che aspettano giorni migliori, senza che ci siano tracce del loro arrivo. La resistenza, credo, sia una qualità sottostimata di ogni eroismo working class ordinario. E questo mi sembra ancor più vero in quest’epoca postindustriale». E adesso parliamo di calcio. Perché è tanto importante nei tuoi libri? La stampa italiana recensisce libri come i tuoi o come “Voglio la testa” di Ryan Giggs di R. Glass come “libri sul calcio”. Io non considero questa una buona cornice per raccontare in forma condensata i tuoi romanzi. Per me tu scrivi della moderna working class inglese, che sul calcio ha costruito una parte importante del proprio immaginario. Cosa ne pensi? « Hai ragione a considerare il calcio come una manifestazione della cultura working class industriale, uno dei grandi doni che quella cultura ha fatto al mondo. Mi rendo conto in molti modi che il calcio moderno si stia allontanando da tutto questo e sta diventando un semplice ramo dell’industria dello spettacolo. Ma nel suo cuore il calcio rimane lo sport delle fabbriche di Birmingham e Sheffield e Manchester, di Torino e Milano, dei moli e dei cantieri navali di Glasgow, Liverpool, Bilbao, Marsiglia, Napoli… anche quando una parte consistente di quei cantieri e fabbriche non esiste più. Adoro le connessioni tra persone e luoghi che il calcio crea. Questo forse ci conduce al cuore di quello che cerco di fare con la mia scrittura: raccontare le storie delle persone e dei luoghi – della working class industriale – e la loro relazione col mondo circostante». Qualche tempo fa mi trovavo a Roma per una presentazione in una libreria. Era il pomeriggio che precedeva la semifinale di Champions tra Roma e Liverpool, stavo in uno storico quartiere working class, San Lorenzo, che pure sta conoscendo notevoli trasformazioni. A Roma sono sempre un po’ frastornato: è molto bella, ma io sono un provinciale e mi perdo nelle città metropolitane. Camminavo con alcuni amici a pochi istanti dalla discesa in campo delle squadre quando sul quartiere è sceso un silenzio quasi mistico. L’arbitro aveva fischiato il calcio d’inizio. E all’improvviso un boato è esploso per un gol della Roma: da tutte le finestre e le porte del quartiere arrivavano urla e corpi che si abbracciavano. Finestre che erano aperte, tanto che potevi vedere le persone che guardavano la partita. Più che un evento spettacolare, mediato e distante, sembrava una cerimonia conviviale domestica o di vicinato. Era una sorta di epifania. Quella convivialità, quelle finestre aperte, erano parte dell’esperienza della working class di un tempo. Anthony Cartwright ci racconta cosa c’era un tempo, cosa abbiamo perso: «I fuochi sono ormai tutti spenti. Noi siamo il fumo che segna il mattone. Siamo il ruggito di ferro che credevate d’aver messo a tacere. Cantiamo al metallo contorto e lungo tunnel allagati, sopra distese vuote d’acqua e campi di detriti. Cantiamo di giorni migliori».
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