Osposidda. Omaggio a Paolo Pillonca [di Franco Mannoni]
Durante gli anni ottanta i sequestri di persona erano divenuti una malattia endemica che si diffondeva in ogni territorio, nell’Isola o fuori di essa. La vittima poteva essere chiunque, purché potenzialmente in grado di mettere insieme una somma di danaro abbastanza consistente, magari vendendo la casa o qualche terreno a prezzi da liquidazione. Chi,come me, ha vissuto la realtà nuorese di quegli anni, ha avuto rapporti e contatti con famiglie segnate dall’angoscia dell’evento, che hanno vissuto la paura, l’ansia, l’umiliazione. Ha conosciuto, come è accaduto a me, la famiglia di chi non è più tornato dal sequestro, né vivo né morto. Madri, sorelle, fratelli che hanno percorso il calvario dell’attesa, la speranza di uno spiraglio, la disillusione del silenzio. Perciò la gente viveva sotto la cappa pesante dell’insicurezza che condizionava attività e movimenti, mentre cresceva l’insofferenza sociale per l’incancrenirsi di questo fenomeno, che terrà banco fino all’esordio degli anni duemila. Quel che avvenne però in quel diciotto gennaio, venerdì, nelle vallate fra Oliena e Orgosolo, a Osposidda, fu qualcosa di più e di diverso rispetto ai numerosi sequestri di persona. Un commando di malviventi sequestrò un piccolo imprenditore olianese, Caggiari, prelevandolo dalla sua azienda e dileguandosi in direzione delle campagne di Orgosolo. Ci fu una reazione assai forte, come se la gente temesse e fosse preparata a un evento simile. Centinaia di volontari, armati, accompagnati dai cani, si gettarono sulle tracce dei sequestratori. Nelle comunità a economia pastorale c’era, da sempre, l’usanza di intervenire a soccorso del compaesano oggetto di furti di bestiame. Si attivava sa chirca, la ricerca e, possibilmente, il recupero del bestiame rubato. Nella circostanza la solidarietà si colorò di rabbia, di rifiuto dell’ennesima offesa al vivere civile e prese il tono della vendetta. I volenterosi intercettarono i fuggitivi che, vista la situazione, mollarono l’ostaggio. Da quel momento si scatenò per quattro, cinque ore, una battaglia senza quartiere. Erano affluiti centinaia di agenti e carabinieri, ci fu l’intimazione alla resa, ma parlarono soprattutto le armi. Il brigadiere Marongiu cadde sotto i colpi dei banditi, altri agenti furono feriti. Sul terreno rimasero quattro banditi, crivellati dai colpi di mitra. Furono caricati su un furgone e trasportati in città accompagnati dal suono delle sirene. Apparve come uno sfregio o un’inutile offesa. Non si saprà mai abbastanza di Osposidda, se non che fu una tragedia. Il ministro dell’Interno, Scalfaro e il procuratore della Repubblica di Cagliari vi lessero l’affermazione dell’autorità e della forza dello Stato, il vescovo monsignor Melis trovò il modo di richiamare la misericordia come istanza che sovrasta anche la forza del diritto. Scrisse allora Paolo Pillonca le rime che Piero Marras mise in musica. Cantu tempus ancora B’at a cherrer, o frade Pro chi ndessemus fora De sa barbaridade, E no canten su muttu Sas feminas de idda? Chie bos faghet luttu Mortos de Osposidda? Non vinse nessuno in quella cruenta battaglia, ma si aprì un’altra ferita nel corpo offeso delle nostra comunità. Ancora una volta nell’assurdo gioco dell’oca della nostra storia eravamo respinti al punto di partenza. |
Non capisco la conclusione, ma non la condivido, così, a naso. E ho dubbi anche sulla canzone di Paolo Pillonca. Non credo che il nostro problema nei confronti dei sequestri di persona sia stato (e sia) quello della spietatezza verso i sequestratori. Parlo dell’opinione pubblica in Sardegna, per decenni, e degli intellettuali che l’hanno formata. Tutto al contrario, siamo stati spietati con i sequestrati, le loro famiglie, mostrando simpatia per ultimo verso Matteo Boe e detestando il padre del ragazzo che aveva sequestrato e al quale ha tagliato l’orecchio. Ho visto il film di Ridley Scott sul rapimento Getty (al cinema a Nuoro, ma poteva accadere in altre città sarde), ed era interessante e terribile la reazione esplicita di molti spettatori davanti alla durezza del nonno del rapito, del suo rifiuto di pagare quel che i rapitori chiedevano. Certo, reazione prevista, costruita dal regista, e anzi dalla sceneggiatura, dalla storia del sequestro raccontata dalla madre di Paul Getty e dalla sua inevitabile distanza dal suocero straricco e cinico che comprava opere d’arte anziché pagare il riscatto richiesto dai banditi calabresi. L’espressione artistica può concedersi queste cose. Anche Paolo Pillonca. L’ha fatto De Andrè, del resto, sulla propria esperienza terribile. Mi stupisce quella che mi sembra una equidistanza in Franco Mannoni.
A Oliena accadde un fatto inedito, nella nostra vicenda criminale e sociale: che un paese si mobilitò, prese partito per una volta stando dalla parte della vittima designata. Poi accadde che la partecipazione si tradusse in inseguimento dei banditi, in quella terribile “caccia grossa” e nell’esultanza per l’uccisione dei rapitori e lo sfregio dell’esposizione dei corpi, con altre cose pericolosissime come la vera e propria guerra alla quale gli abitanti di Oliena credevano di stare dando vita contro il vicino (e odiato) Orgosolo.
Ma non va ripensata più a fondo, quella storia? Con qualche autocritica della cultura (e della politica) sarda, magari?
Leggo il commento di Umberto Cocco al mio scritto su Osposidda, pubblicato come omaggio alla memoria di Paolo Pillonca, autore dei versi che dedicò all’evento e che mi procurarono, allora come oggi, vera commozione.
Quella tragedia nacque dall’esposizione perdurante delle comunità nuoresi al fenomeno della criminalità e dei rapimenti in particolare.
Ho conosciuto il turbamento e la disperazione delle famiglie che subivano il sequestro. Ho seguito le analisi lucide e appassionate, prive di indulgenza, condotte sul banditismo da Gonario Pinna, Manlio Brigaglia, Peppino Fiori, Giuseppe Melis Bassu, da Nereide Rudas come da Bachisio Bandinu. Sarebbe per me difficile, avendo seguito questo filone, coltivare delle ambiguità.
Osposidda fu una tragedia, nella quale una popolazione, quella di Oliena, fu costretta a farsi giustizia da se per l’insufficienza dello Stato.Molti volenterosi presero le armi per affrontare un manipolo di criminali. Ci fu un morto fra le forze dell’ordine. La vicenda non si concluse in una corte d’assise, ma nell’oborio nel quale si trovarono i quattrobanditi e il giovane poliziotto. Chi meglio di un poeta come Paolo avrebbe potuto concentrare in pochi versi il senso di quella tragedia?