Architetture interrotte (IV) [di Franco Masala]
Chi percorre il lungo viale Sant’Avendrace, ormai affiancato per la gran parte da edifici a portici, stenta a ritrovare l’ingresso alla chiesa parrocchiale omonima. Quello che a tutti gli effetti è un tratto urbano della Strada Reale “Carlo Felice” (oggi SS 131) ha mutato profondamente il suo volto e Cagliari ha perso l’antico caratteristico borgo, abitato prevalentemente da pescatori fino almeno alla seconda guerra mondiale. La stessa chiesa è al di là di un muro con cancello che attraverso un lungo sagrato interno conduce all’edificio di impianto seicentesco molto rimaneggiato nel corso dei secoli. Contrariamente a molte parti di Cagliari, nel 1943 questa zona non fu bombardata dagli Alleati e così proprio negli anni dell’immediato dopoguerra si pensò di dedicare all’interno della chiesa una cappella votiva che riportasse i nomi di tutte le vittime di quei tragici giorni, identificate nel numero di 564 al febbraio 1947. In realtà erano alcune migliaia tanto che si invitavano i familiari a segnalarne i nomi mancanti cosi che la cappella potesse “raggiungere in pieno il suo nobile fine e assurgere a simbolo del memore e commosso sentimento dell’intera cittadinanza”. Un anno dopo, ai primi del gennaio 1948, prese corpo una idea più complessa circa la costruzione di una chiesa monumentale dedicata al Santo che proteggendolo aveva salvato il suo quartiere. Fu così previsto un grande edificio che avrebbe dovuto occupare tutta l’area a disposizione compreso il sagrato, cambiando totalmente le caratteristiche della piccola chiesa originaria. L’ingresso, fiancheggiato da due possenti torri scalarie cieche conducenti a uffici e abitazione del parroco, era porticato con altissimi pilastri tanto da richiamare le architetture di Marcello Piacentini care alla romanità e al regime fascista. L’interno era suddiviso nelle tre navate tradizionali in vista di un presbiterio absidato e in prossimità della sacrestia era l’accesso al campanile a base quadrata che svettava sul retro. Le aperture erano circolari e riprendevano anche in questo caso un elemento tipico degli anni Trenta. Insomma un mastodontico edificio che cancellava completamente la piccola chiesa storica anche con l’intento dichiarato di dotare l’ormai popoloso quartiere di un luogo più consono al numero dei fedeli. Un comitato curò sia il progetto sia l’avvio di una raccolta fondi ma l’iniziativa non ebbe seguito anche perché nell’urgenza della ricostruzione erano molte le chiese che attendevano un ripristino; e basti il cenno alle chiese di San Domenico e di Sant’Anna per capire il problema tutt’altro che secondario. E così della nuova chiesa di Sant’Avendrace non si parlò più.
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