Le parole della laicità – Valutazione, meritocrazia e premialità [di Edoardo Lombardi Vallauri]

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MicroMega 4 giugno 2018. Queste tre parole, usate insieme, sono diventate pericolose. Almeno, per il sistema nazionale dell’istruzione e della ricerca. Parlerò soprattutto dell’università, che conosco meglio. Il pericolo sta nel fatto che, da chi governa, questi termini vengono usati in modo magico, come possenti parole d’ordine per far credere a tutti che si stia operando nel migliore dei modi possibili; mentre purtroppo spesso si stanno facendo dei danni.

Ad esempio, quando si sbandiera che nell’università vengono introdotti meccanismi di valutazione, si sta cercando di far credere che automaticamente si tratti di valutazione giusta; e ci si guarda bene dal ricordare con pari energia che una valutazione sbagliata è possibile, a volte è la più probabile, e ha conseguenze nefaste. Ma invece di soffermarsi su questi dettagli, ci si affretta a dire che grazie alla valutazione si potranno introdurre criteri meritocratici, e meccanismi premiali.

Questo genera l’impressione che la valutazione sia ovviamente quella giusta, e che si tratti solo di trarne le conseguenze premiali, che quindi potranno solo essere dei miglioramenti. In effetti, rivolgendosi a un pubblico che legittimamente ben poco sa di che cosa sia la ricerca, di che cosa sia l’istruzione, e anche di che cosa sia la valutazione, è facile ottenere questo effetto mistificatorio. In parole povere, è facile ingannare la gente.

Qualcosa del genere avviene spesso anche senza che ci metta direttamente lo zampino un ministero animato da miopi pretese di aziendalizzazione dell’università. Per esempio, si guardino queste locandine di giornali di Firenze: In quella centrale si menziona “la classifica” delle “migliori scuole”. Con parole diverse, si evoca anche qui una valutazione, e anche qui si dà per scontato che sia la valutazione giusta, valida, vera. Non si parla di una classifica, ma la si chiama la classifica, come se ce ne fosse e ce ne potesse essere solo una, LA CLASSIFICA, che appunto dice quali sono LE SCUOLE MIGLIORI.

Invece naturalmente quella pubblicata quel giorno era una delle tante possibili classifiche, discutibilissima (infatti le persone serie l’hanno molto discussa); e davvero non si poteva dire che stabilisse quali erano le scuole migliori: al massimo, se l’indagine fosse stata compiuta con mezzi completamente adeguati a verificare i fatti di cui andava in cerca, avrebbe detto quali scuole rispondevano meglio ai criteri scelti per fare quella particolare classifica: ad esempio, il rendimento degli studenti nelle prove Invalsi, la percentuale di occupazione dei diplomati dopo cinque anni (ma rapportata alla ricettività dei rispettivi bacini di utenza), i metri cubi di palestre e laboratori, ecc. Naturalmente era assai dubbio che l’indagine garantisse anche solo questo risultato.

Veniamo all’università. Per motivi di spazio dirò solo della valutazione dell’attività di ricerca, ma considerazioni simili varrebbero per la didattica.[1] Io faccio il professore; e da quando la famigerata ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) ha cominciato a emanare regole per valutare l’attività di ricerca nelle università, ho dovuto peggiorare la mia attività di ricerca. Non è diventata un disastro, ma certo facevo ricerca migliore prima. Più utile, più importante, più significativa. Perché questo? Lo vedremo in dettaglio, ma intanto rispondiamo in generale.

Quando si vuole valutare una realtà innumerevole e di livello apicale, non la si valuta davvero, ma se ne misurano solo gli aspetti che è possibile misurare, e che non coincidono con quelli importanti. La parola valutazione ha un senso quando è applicata a realtà singole e circoscritte, dove chi valuta è molto più preparato e autorevole di chi è valutato, e lo giudica su questioni abbastanza consolidate (ad esempio, il maestro o la professoressa che valutano il compito di matematica dell’alunno).

Quando invece la si applica a congerie di fatti enormemente estese, complesse e differenziate come la produzione scientifica di decine di migliaia di ricercatori, la parola non può mantenere lo stesso senso. Tanto meno se si tratta di prestazioni prodotte dagli appartenenti alla categoria più alta di tutte nel proprio campo, su questioni per definizione ancora non sistemate o ridotte a un livello manualistico dove sia possibile dare giudizi certi e affidabili. Continuando a usare la parola valutazione, si contrabbanda un falso, perché ciò che accade è molto diverso dalla vera valutazione.

Non accade nulla che somigli alla valutazione dell’insegnante di scuola, che valuta il compito di un alunno da una distanza di competenza fra i due che garantisce in buona misura la pacificità del giudizio. Anzitutto perché non ci sono individui che si collochino – rispetto ai professori universitari, che sono le massime autorità nella loro disciplina – come la maestra rispetto al bambino; e quindi i professori si devono “valutare” fra di loro.

Poi, perché la roba da valutare è troppa perché i professori possano mettersi a farlo seriamente, leggendo tutto parola per parola: dovrebbero sospendere (per sempre) la loro attività di ricerca, riducendosi a fare solo i valutatori (ma dopo poco non ci sarebbe più nulla da valutare; insomma si innescherebbero i paradossi che vengono in mente anche al lettore).

E allora, in sostanza, si valutano aspetti quantitativi, perché quelli qualitativi non è possibile valutarli. Semplificando molto, succede questo: che più roba produci, meglio sei valutato. Due sciocchezze valgono il doppio di una cosa seria: si può immaginare con quali deplorevoli conseguenze; ma con un importante correttivo, che vorrebbe andare nella direzione della qualità: infatti conta anche la sede dove i lavori scientifici vengono pubblicati. Sempre semplificando molto, più una rivista scientifica è citata, più conta un lavoro pubblicato su di essa.

Come si vede, anche in questo caso la cosiddetta qualità si risolve in quantità. Invece della qualità di una ricerca, si valuta quanto viene diffusa. Ad esempio, se una rivista è scritta in italiano, un lavoro geniale pubblicato su di essa verrà valutato molto meno di una banalità pubblicata in inglese. Inoltre questo sistema premia chi lavora all’interno di temi di ricerca molto frequentati, e punisce chi ha idee completamente nuove.

Il problema è stato descritto molte volte:[2] solo per fare un esempio, da Peter Higgs, il quale commentando il suo premio Nobel ottenuto per la scoperta del noto bosone, disse che con l’attuale sistema di finanziamento della ricerca non avrebbe mai potuto compiere i suoi studi, perché non essendo mainstream sarebbero stati privati di qualsiasi finanziamento. Invece a quell’epoca non si credeva di poter valutare la ricerca in base a criteri quantitativi, e quindi gli fu permesso di lavorare. Ma su questo genere di discorsi l’ANVUR ha sempre fatto orecchio da mercante.

Quindi la parola valutazione viene usata per evocare alla mente di chi ascolta un processo di giudizio qualitativo, autorevole e davvero applicabile, ma nella realtà ciò che avviene è una caricatura distorta di tale processo, che sortisce effetti quasi opposti. Insomma, la parola è usata in modo truffaldino. E di conseguenza è fuorviante anche l’uso che si fa di meritocrazia e premialità, perché non viene premiato chi è più meritevole, ma chi si allinea di più su quel genere di valutazione.

Tornando al perché la mia produzione scientifica è peggiorata a causa del sorgere della valutazione, lo dirò (in breve) perché aiuta a capire che cosa accade concretamente. Premetto che io non ho affatto smesso di impegnarmi; anzi. Prima dell’era della valutazione, nel mio dipartimento i fondi per la ricerca si distribuivano “a pioggia”, senza fingere di tenere conto della qualità delle diverse ricerche.

All’instaurarsi della “premialità” basata sulla “valutazione”, poiché dal ministero arrivano più o meno soldi in base a quanto è valutata la produzione scientifica del dipartimento, abbiamo cominciato a distribuirci i fondi in base alla produzione scientifica di ciascuno, “valutata” con i criteri dell’ANVUR. Quindi, appunto, due lavori sono il doppio di uno, uno in inglese è meglio di uno in italiano, uno su una rivista di “classe A”[3] è molto meglio di uno su un’altra rivista scientifica.

Io ci tengo ad essere ben finanziato (anche perché con una media di circa 1.000 euro all’anno a testa, non essere fra i più finanziati significa praticamente non esserlo), [4] quindi mi sono adeguato, sono stato ligio agli ordini del finanziatore, direi una specie di crumiro: mi sono messo a pubblicare secondo i criteri ANVUR, tanto che sono stato sempre tra i più finanziati, e alcune volte il più finanziato dell’intero dipartimento.

Ma io so che produco peggiore scienza di prima. Perché prima se vedevo un problema che mi sembrava importante e difficile da risolvere mi ci dedicavo con impegno accanito, mettendoci tutto il tempo e le risorse che servivano, finché non l’avevo risolto e non potevo rivelare la soluzione alla collettività degli studiosi.

Adesso, fare così espone ad essere duramente puniti, perché porta a poche pubblicazioni: è molto più conveniente occuparsi di cosette che permettono di pubblicare frequenti articoli di facile stesura; meglio se su temi già abbondantemente frequentati, che ti evitino di essere mal compreso dai reviewers delle riviste importanti, i quali – l’ho più volte constatato – su un tema nuovo o davanti a un approccio originale tendono a non capire e a respingere il contributo.

Confesso che ormai sto progettando di cessare l’obbedienza alle richieste del datore di lavoro, per rimettermi a fare ricerca meglio che posso; ma è certo che l’istituzione mi punirà per questo, lasciandomi senza una lira e perciò impedendomi ugualmente di condurre le ricerche serie che vorrei. Che fare?

A questo punto, benché esuli dal mero scopo di spiegare perché espressioni come valutazione o premiare il merito siano usate impropriamente nel sistema italiano dell’istruzione e della ricerca, credo di dover dire qualcosa di costruttivo su come si potrebbe migliorare la situazione. Perché certamente, d’altra parte, una completa assenza di valutazione non è l’ideale.

Una vera valutazione non si può fare sulle cose intellettuali di livello molto alto. Tanto meno se a scopo comparativo e premiale, perché anteporre la buona ricerca di uno alla buona ricerca di un altro senza motivi seri è osceno non solo intellettualmente, ma anche moralmente. Quindi, sui livelli molto alti come lo è la ricerca di punta che praticano gli universitari, semplicemente non si deve fare. Se si fa qualcosa di simile a quello che si fa adesso, chiamarla “lotteria universitaria” o “capriccio del ministero” non si discosterebbe dal vero molto più che “valutazione della qualità della ricerca”.

Invece di spendere enormi energie di tutti (perché, dimenticavo di dirlo, l’intero procedimento è una mostruosa e patetica farragine che tiene tutti in scacco senza sosta con mille squallidi adempimenti) in questa screditatissima messa in scena, i ricercatori di livello universitario che hanno una produzione decente vanno semplicemente finanziati e lasciati lavorare. La maggior parte di loro produrrà migliore scienza così, perché non ne mancano gli incentivi (di carriera, di soddisfazione intellettuale e personale, di riconoscimenti almeno fra gli addetti ai lavori).

Non per nulla, dalle origini della civiltà fino a pochi anni fa, tutta la scienza che si è fatta si è fatta proprio in queste condizioni. Oltre a questo, per indirizzare la ricerca verso alcuni campi ritenuti strategici, si devono finanziare specifici progetti, naturalmente garantendosi che il livello qualitativo sia al di sopra di una certa soglia.

La valutazione su base essenzialmente quantitativa, cioè quella che si fa adesso, deve essere applicata solo ai livelli più bassi della compagine scientifica, stabilendo dei minimi sotto cui il ricercatore non può andare, e deve avere la funzione di impedire la completa improduttività. Su chi per qualsiasi motivo sarebbe portato a non produrre quasi niente per periodi davvero troppo lunghi, dei vincoli sul numero minimo di prodotti e sul tipo di sedi di pubblicazione possono avere il vantaggio di spingere a produrre almeno alcuni lavori su riviste che garantiscano la presentabilità; e questo è sicuramente per il meglio.

Si dovranno anche premiare in modo speciale alcune eccellenze conclamate, consacrate dalla comunità scientifica internazionale. Insomma, il bastone e la carota per il 5-10% più pigro e per il 5-10% più bravo; ma quello che ciclisticamente sarebbe il “gruppo”, va trattato tutto nella stessa maniera. Questo perché la libertà della ricerca è più importante della quantità. E al tempo stesso è il massimo fattore che ne produce la qualità.

nota a margine sulla scuola – Della “valutazione” nella scuola non ho detto niente perché la conosco meno, ma mi sembra che anche lì sia in corso un’applicazione truffaldina della parola, con i suoi corollari di malinteso merito e premialità ingiusta. L’esempio che più fa scrivere e parlare è la “progressiva invadenza dei test INVALSI”,[5] di cui è difficile negare che instaurino un regime di valutazione su conoscenze meccaniche e su prestazioni in contesti essi stessi meccanici; quindi insomma una valutazione piuttosto grossolana al paragone di quella che può fare l’insegnante verificando di che cosa è capace lo studente nelle situazioni reali.

E purtroppo, essendo sempre più minacciosamente associati a meccanismi premiali, i test INVALSI finiscono per esercitare una pressione che induce molti docenti a insegnare “per il test”, quindi a insegnare in modo più stupido. S’intende, quelli che si sottomettono al meccanismo di “valutazione”; perché fortunatamente moltissimi altri si ostinano a lavorare secondo le vere necessità degli alunni che hanno davanti.

NOTE

[1] Si veda ad esempio quanto dice Aldo Schiavello su L’università italiana e la banalità del male, qui: https://www.rivistailmulino.it/item/4334.

[2] Ad esempio qui:
https://www.roars.it/online/la-valutazione-della-ricerca-in-italia-in-ritardo-e-tecnicamente-inadeguata/;
https://www.centroriformastato.it/la-rete-castello-parte-ii-la-valutazione-mite-delluniversita/;
https://www.roars.it/online/sui-criteri-di-valutazione-della-ricerca-scientifica-e-delle-universita-in-italia/;
https://emergenzacultura.org/2018/02/27/salvatore-settis-gli-atenei-accattoni-svendono-il-sapere/
[3] Non dirò nulla del procedimento con cui le riviste vengono dall’ANVUR inserite o meno nella classe A, se non che nessuna persona che conosco lo considera pienamente rispettabile, e molti lo considerano uno scandalo.
[4] Sì, questo è il finanziamento annuale per la ricerca che arriva mediamente a un universitario oggi in Italia.

[5] http://temi.repubblica.it/micromega-online/qualche-domanda-signori-invalsi/. L’Istituto Nazionale di Valutazione del Sistema Scolastico Italiano esercita sulla scuola italiana la stessa funzione di banalizzazione e malintesa valutazione che si deve all’ANVUR sull’università.

 

 

One Comment

  1. Giovanni Scano

    Non condivido del tutto l’opinione dello scrivente sui test Invalsi nella scuola.
    L’autore afferma che i test invalsi verificano solo conoscenze meccaniche in contesti meccanici. Quindi rappresentano una valutazione grossolana rispetto a quella che può fare l’insegnante. Non sono d’accordo. Mi risulta che ancora oggi molti insegnanti utilizzino per la valutazione (soprattutto per un certo tipo di materie e soprattutto nella scuola superiore) il sistema delle interrogazioni rispetto all’utilizzo dei cosiddetti “test oggettivi”. Pensiamo che l’interrogazione dia risultati più attendibili? Io penso di no. Secondo me ciascun alunno ha diritto ad essere misurato/valutato (nei limiti del possibile) sulle stesse cose, nello stesso luogo, nelle stesse condizioni, contemporaneamente ai suoi compagni.
    Conseguentemente, ormai da qualche decennio, ho deciso (faccio l’insegnante) di optare per un sistema di valutazione, quello dei test, più oggettivo rispetto a quello delle interrogazioni che ai miei occhi presentava alcune problematiche: la non contemporaneità, la eventuale diversità, da un giorno all’altro, delle condizioni oggettive, la probabile diversità dei quesiti, il non far niente di chi non era all’interrogazione …
    Ecco un esempio di quanto faccio di solito:
    “La verifica sarà costituita da test riguardanti le quattro abilità fondamentali: comprensione della lingua orale, comprensione della lingua scritta, produzione/interazione nella lingua orale, produzione nella lingua scritta.
    La misurazione dei risultati avverrà in decimi: il punteggio prevalente, 6 su 10, andrà al valore comunicativo, in quanto le lingue esistono soprattutto per comunicare; il resto, 4 su 10, agli aspetti formali (la correttezza grammaticale e quella ortografica).
    In pratica, se un test, più esattamente ciascuna delle parti in cui lo si potrebbe suddividere (per motivi strettamente docimologici), sarà corretto su tutti questi aspetti, sarà valutato 10, il massimo; se verranno riscontrati errori di tipo ortografico (un accento, una virgola, una doppia, …), sarà valutato 8; se ci saranno errori di tipo grammaticale (un verbo sbagliato, un plurale sbagliato, …), sarà valutato 6; se sarà carente sotto l’aspetto comunicativo (andato fuori tema, direbbero i colleghi di italiano), sarà valutato zero anche se dovesse essere perfetto dal punto di vista formale.
    Si potranno inoltre eventualmente prevedere anche le valutazioni di 4 e di 2 se ci dovessero essere ambiguità interpretative dal punto di vista comunicativo.
    Facendo la somma del punteggio ottenuto su ogni singola parte e dividendola poi per il numero delle parti si otterrà il punteggio dell’intero test. Se dovesse non trattarsi di una cifra tonda (10, 9, 8, … ), la stessa verrà arrotondata alla cifra tonda successiva. Meglio peccare per eccesso piuttosto che per difetto.

    Secondo me, l’attendibilità o meno, dal punto di vista valutativo, dei test invalsi dipende, più che dal test in sé, che è neutro, dall’ottica, dalla prospettiva di chi li utilizza. L’insegnante che svolge la sua attività didattica con l’unico obiettivo che i suoi alunni imparino a superare i test condivide esattamente la stessa logica con quegli alunni che studiano solamente per l’interrogazione o per l’esame. Naturalmente ritengo utile che l’alunno conosca il meccanismo, la funzionalità di ciascun tipo di test gli possa venire somministrato.
    Vogliamo considerarli come un semplice sondaggio? Benissimo. Penso non sia inutile conoscere a livello nazionale i livelli di apprendimento e i livelli di competenza degli alunni dei vari ordini di scuola testati con prove oggettive misurabili somministrate da un ente terzo.
    Non li vogliamo considerare dal punto di vista valutativo? Quindi del merito (non mi piace la parola “meritocrazia”) e di una qualche eventuale premialità? Benissimo. Si tratterebbe di scelte che spettano alla Politica (in senso buono), al governo nazionale; che si dovrebbe occupare allo stesso modo di tutte le scuole (o atenei), indipendentemente dai risultati. Anzi! A chi presenta maggiori difficoltà bisognerebbe dare qualitativamente di più. Almeno finchè non le supera.
    Servirebbero comunque a darci un’idea sull’efficacia delle attività didattiche.
    Per concludere, mi piacciono i test invalsi; forse se ne potrebbe fare un uso migliore.

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