A nove anni, il desiderio più grande di Daniele era quello di vivere spensieratamente la sua infanzia insieme ai compagni di gioco con cui condivideva allegrie e piccoli, grandi litigi. Era un bambino molto vivace ma altrettanto sensibile. Faceva parte di una famiglia numerosa e certamente poco agiata del sud Sardegna. Erano gli anni ‘50 e l’isola stava tornando con fatica immane alla normalità, portandosi dietro l’amara eredità lasciata dal secondo conflitto mondiale. La maggior parte delle persone viveva in condizioni di miseria e tutti si arrangiavano in ogni modo pur di sopravvivere.
Il padre di Daniele aveva avviato nel suo paese il commercio delle “grive”, tordi o merli infilzati in gruppi di otto, lessati nell’acqua salata con foglie e frutti dimirto. Ogni gruppo di uccelli costituisce una “taccula”; da qui il nome “pillonis de taccula”, come normalmente vengono chiamati gli uccelli cucinati in quel modo. L’attività si era rivelata redditizia, assicurando alla famiglia almeno la condizione economica necessaria per sfamarsi.
Nel mese di dicembre, quando gli uccelli migravano in Sardegna dall’Africa per cibarsi di mirto e corbezzoli, gruppi di cacciatori si trasferivano nelle montagne per alcuni mesi per dargli la caccia. Utilizzavano lacci ricavati dalle code dei cavalli, opportunamente trattate con un processo di salatura. In quel periodo la caccia con i lacci non era illegale, era vietata solo quella con le reti. Normalmente durante la notte un uomo si caricava sulle spalle i sacchi che contenevano le piccole prede e li trasportava in paese attraversando sentieri impervii.
Il padre di Daniele chiamava allora le persone del vicinato per collaborare alla lavorazione. Anche Daniele era tenuto a dare una mano ed era costretto, suo malgrado, a rinunciare ai suoi passatempi di bambino. La famiglia aveva bisogno di lui. Il suo compito consisteva nello spennare gli uccellini e talvolta capitava tra questi qualche pettirosso che trasferiva nel bambino un fortissimo sentimento di pena tale da fargli chiedere, implorante, di essere dispensato da quell’ingrato servizio. Bastava però lo sguardo severo del padre per farlo desistere dalla richiesta.
Le grive erano (e sono tuttora) una prelibatezza per tutti i palati, fini e meno fini. Inoltre, niente andava perduto: le piume erano utilizzate per imbottire i cuscini e il grasso che si formava durante la cottura veniva distribuito fra quanti avevano aiutato nella preparazione. Era ottimo con il pane tostato. L’indomani Daniele aiutava il padre a caricare “is pillonis de taccula” sul camion che li avrebbe portati in città per essere venduti al mercato.
Terminata la vendita padre e figlio tornavano a casa con il denaro guadagnato, solitamente un discreto gruzzolo. Daniele però non gioiva, il suo animo innocente non riusciva a giustificare il sacrificio tanto crudele di tutti quegli uccellini. Lui amava vederli liberi, volteggiare nel cielo in ampi voli e disegnare delle fantastiche coreografie. Anche lui si sentiva come ingabbiato, catturato al laccio come quegli uccelli.
La sua passione era correre e giocare in libertà e provava sofferenza nell’essere privato del gioco per svolgere quei compiti che detestava. Si paragonava spesso agli uccellini privati della libertà per sfamare gli uomini. Il suo stomaco sembrava volesse combattere contro i crampi della fame ma poi doveva comunque cedere e nutrirsi anch’egli delle grive, lo imponeva la sua stessa sopravvivenza.
Finita la scuola e arrivata l’estate, Daniele desiderava soprattutto dare sfogo alla sua vivacità, alla sua fantasia, desiderava di correre scalzo sulla spiaggia rincorrendo aquiloni, di tuffarsi in acqua con gli amici, di vagabondare tra gli scogli in cerca di ricci e di conchiglie.
Anche nella stagione estiva, però, c’era da lavorare. Finito quello delle grive, iniziava il lavoro dei giunchi da raccogliere negli stagni. Andavano prima tagliati e poi disposti in superfici piane. Una volta essiccati dovevano essere raccolti in fasci che andavano legati alla sommità e alla base. Questa attività richiedeva che i fasci fossero tenuti tra le gambe e a fine stagione le cosce di Daniele riportavano i segni delle piaghe che si erano formate. I giunchi erano venduti ai pescatori di aragoste oppure utilizzati per la coperture delle sedie.
Daniele veniva coinvolto in tutti i lavori. Le sue piccole braccia erano indispensabili per la famiglia che non aveva tempo di porsi altri problemi che non fossero quelli della sopravvivenza. Il bambino era molto abile nel raccogliere le mandorle e le carrube e a cucire con cura i sacchi che le contenevano, che sarebbero stai poi caricati sulle navi per il trasporto nel continente. A nove anni appena aveva già provato la parte forse più impegnativa della vita. Quella del duro lavoro che, seppure si dice faccia maturare prima, ruba inesorabilmente la parte più bella dell’esistenza, quella dell’infanzia in cui ogni bambino deve poter coltivare i suoi sogni e vivere di fantasia e di giochi. Un percorso propedeutico alla futura dimensione di uomo maturo e responsabile.
Daniele, come tanti altri piccoli uomini sardi, crebbe con il rimpianto di aver dovuto bruciare i sogni della sua infanzia. Da adulto gli restò il rammarico di poter raccontare ai figli e ai nipoti solo i ricordi di una fanciullezza dura e senza gioia.
|