Anthony Bourdain: «Io, re dei fornelli, pazzo per i polli arrosto» [di Giacomo Papi]

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Venerdì di La Repubblica 20 ottobre 2017. Grazie a un libro vent’anni fa diventò il primo chef star della tv. Ora il compagno di Asia Argento (di cui è molto orgoglioso) torna in libreria con I miei appetiti. E nell’era del cibo-ossessione invita a volare basso.

In un mondo in cui i menù dei ristoranti sono elenchi di ingredienti local – dalle alici del Mar Cantabrico fin alla manzetta prussiana – fa piacere che esista uno come Anthony Bourdain, uno dei primi cuochi dopo Wilma De Angelis a diventare una star della tv.
Bourdain, che ha sessantun’anni ed è nato a New York, è diventato famoso nel 2000 per avere rivelato nel libro Kitchen confidential come funziona, e su quali sostanze si basa, il sottomondo culinario americano. Subito dopo ha iniziato a viaggiare per la tv, assaggiando le peggiori schifezze che gli venissero offerte.

Oggi si è un po’ calmato, ma sulla copertina di I miei appetiti, il suo nuovo libro, c’è la testa esanime di un pollo spennato. Dentro, le ricette sono così semplici da non avere quasi un nome: uova strapazzate, club sandwich, spaghetti (quelli alle acciughe, però, li bestemmia con il parmigiano), pollo arrosto – «rispettate il pollo!» –, «fucking big steak» (traduzione «una bella bisteccazza») e panino salsiccia e peperoni, il suo preferito. «Sono le cose che cucino per mia figlia» ci dice. «Le cose semplici sono le più difficili perché sono le più facili da rovinare».

Ci incontriamo nel giardino di un grande albergo di Milano alle quattro di un pomeriggio ancora così caldo che sembra di stare dentro una cucina di Bangkok. Bourdain in un’ora di chiacchiera si scola due negroni fumando e senza apparentemente sudare. Gli chiedo se tabacco e alcol abbiano effetti devastanti sulle papille gustative. Lui scuote la testa, con un’aria da duro: «Non fa differenza. Pure sigarette e alcol hanno un sapore».

In effetti fare il cuoco, un tempo, era considerato un mestiere duro. Oggi gli chef in tv sembrano figure a metà tra lo stilista e l’attore. Che differenza c’è tra la sua generazione di cuochi e quelli di oggi?
«Quando ho iniziato, il cuoco era un servo, un cameriere, un uomo delle pulizie, e a nessuno interessava sapere che cosa consigliasse. Noi venivamo da un’impostazione all’antica, quasi militaresca. Nelle cucine c’era un sistema simile a quello della fabbrica. Oggi vedo un sacco di giovani che sono cresciuti in questa cultura dello chef di tendenza e non hanno molta voglia di lavorare. Escono dalle scuole di cucina e si aspettano di arrivare in un programma televisivo. Hanno il taglio di capelli e il look giusto ancora prima di imparare a pelare una cipolla».

Non sembra molto a suo agio con la cucina contemporanea…
«Che la cucina vada tanto di moda è sicuramente bizzarro, ma ha portato dei vantaggi a me e ai miei amici. Come ogni altra professione che si svolge sotto l’occhio del pubblico, anche la cucina ha assurdità ed eccessi, però credo che gli chef siano ancora consapevoli di appartenere alla working class. Sanno di fare un mestiere manuale e questo, mi auguro, li protegge dal narcisismo e dall’egomania. Il cuoco è un lavoro molto fisico, molto usurante, anche mentalmente. Lavori tante ore, di notte, devi essere veloce, coordinarti con gli altri. Tutto questo richiede un enorme rigore. La più grande paura di uno chef è perdere il controllo della situazione. È un po’ come stare in una torre controllo, ma fai molta più fatica. Puoi tagliarti o bruciarti con il fuoco o con le pentole».

Più che il controllore di volo, fa pensare al lavoro del chirurgo.
«In effetti sì: in entrambi i casi puoi mandare tutto a puttane in un attimo. Un singolo errore, come in una sala operatoria, può portare al disastro. In un ristorante, soprattutto in quelli di alto profilo, la regola è che un solo errore può rovinare tutto: un piatto sbagliato per il cliente sbagliato, soprattutto oggi che c’è Internet e Twitter e Instagram, può distruggerti. Per fortuna io non ho mai lavorato in un grande ristorante, quindi non ho mai avuto addosso questo genere di pressione, ma ho amici, la cui vita è costruita intorno al bisogno – non dico al desiderio, al bisogno – di perfezione».

Forse per questo molti cuochi, come molti medici, tendono a essere sregolati, hanno bisogno di un aiuto…
«Penso che non sia una coincidenza. In più, i cuochi sono persone sensuali, lavorano sul piacere sensoriale, sui sapori, sugli odori, sul tatto… Una volta parlavano poco, oggi sono più verbali, ma lavorano con il piacere e devono creare un ambiente per favorirlo e metterlo in scena».

La ristorazione è una forma di spettacolo, che però dalle cucine è invisibile.
«Ai miei tempi non sapevo com’era la gente normale. I clienti erano sagome nell’ombra della sala. Il cuoco è uno che lavora quando le persone normali si divertono e si diverte quando la gente normale dorme. È uno che frequenta solo i suoi colleghi e che mangia con loro al ristorante, ma quando è chiuso. E, mi creda, quando cuciniamo tra noi facciamo cose semplicissime, come quelle del mio libro. Oggi molto è cambiato. Non puoi fumare, non puoi bere, prendere cocaina o marijuana. È un po’ come stare nei Marines. Mi mancano i vecchi tempi, ma riconosco che c’era bisogno di cambiare. Fare il cuoco significava non avere una vita familiare. In trent’anni, da cuoco o lavapiatti, mai avuto ferie pagate, è stato come vivere in un sottomarino».

Con la tv ha incominciato a viaggiare.
«Cambiò tutto in una notte. Avevo quarantaquattro anni ed ero al verde. Il giorno prima stavo a friggere le patatine, il giorno dopo il mio libro era nella lista dei bestseller del New York Times. Non pensavo lo avrebbe letto nessuno. Iniziarono ad arrivare richieste dalla tv e incominciai a viaggiare. Si immagini che non ero mai stato a Los Angeles!».

Per il suo programma ha mangiato le cose più strane. E ha polemizzato con i vegetariani perché «rifiutano il cibo».
«Non ho niente contro la cucina vegetariana, ma nei 120 Paesi in cui sono stato la gente è orgogliosa di offrire il poco cibo che ha, e l’idea che qualcuno possa dire di no, mi sembra maleducato. Essere dei buoni ospiti e rispettare gli altri è la cosa più importante. A me non piace la liquirizia, ma se me la offrono sorrido e la mangio».

Qual è la cosa che le è stato più difficile mangiare?
«Il cibo marcio. Nei Paesi poveri il cibo spesso non è fresco. Le assicuro che lo squalo marcio puzza come un’arma atomica. Ho anche mangiato il cuore palpitante del cobra. Sapeva di ostrica, un’ostrica arrabbiata. In Asia mangiano molto il pene, lo offrono agli ospiti d’onore perché pensano che possa dargli forza, anche sessuale. Così ho mangiato un sacco di peni. Il sapore non è male, in fondo è carne e se lo cuoci abbastanza diventa tenero».

Esistono cibi afrodisiaci?
«Direi di no. Forse l’alcol…».

Le piace il McDonald’s?
«No, è il nemico».

Una volta ha detto che il miglior ristorante del mondo è in Italia. Qual è?
«Il nome non lo dico neanche sotto tortura. Una volta ho detto in tv il nome di un ristorante che mi piaceva e il giorno dopo era invaso di turisti americani. Stavolta sto zitto. Dico solo che è a Roma, ma non ho nessuna intenzione di vedere gente del mio Paese quando sono in Italia».

Bourdain a Roma ci viene spesso, anche per vedere Asia Argento. Non appena scoppiato a Hollywood lo scandalo Weinstein, lui ha twittato così: «Proud to be with you».

*Foto tratta dalla puntata tutta sarda del programma “Anthony Bourdain: No Reservations” sul canale Discovery Travel & Living dedicata a Pattada. Il fotogramma si riferisce alla parte girata nel fraile di Boiteddu Fogarizzu e dei figli.

 

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