L’identità dell’appartenenza [di Maria Antonietta Mongiu]

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L’Unione Sarda 26 giugno 2018. La città in pillole. C’è una parola che piace sentirsi dire in qualsivoglia relazione. E’ appartenenza, rassicurante nel significante ma soprattutto nel significato. Appartenere a qualcuno, a un luogo, a un modo di essere, traccia le traiettorie e le fondamenta di una comunità. Luogo tutt’altro che immobile.

Non a caso la parola latina civitas ricomprende differenti etnici e geografie, pluralità di costumi, memorie le più disparate. Sono perciò molteplici le generazioni e i valori che abitano le appartenenze consapevoli di cui consuetudini, monumenti, cultura materiale sono indizi. L’art.9 della Costituzione li ha chiamati paesaggio.

Un prodotto sociale che si tramanda con la ricerca e l’educazione, tutelate nello stesso articolo art. 9,  a prova che la costruzione del sentimento di appartenenza, che nella declinazione dei paesaggi invera la sua identità,  ha a che fare con una triade che così intrecciata non ha uguali al mondo.

Tuttavia  nella storia della sequenza paesaggio, ricerca, educazione, si possono registrare soluzioni di continuità che minano i processi di trasmissione. Accade per la crisi delle pedagogie della memoria e di comunità ma soprattutto dei soggetti che formano una comunità educante. Crisi culturale e politica per il fraintendimento che l’eterno presente possa supplire alla storia, che le appartenenze possano fare a meno dei processi di autocoscienza e di autoriconoscimento, che bastino identità residuali e un marketing di lustrini o di terrore.

Gli antidoti? Alla crisi dell’impero romano con Alarico che con i goti saccheggia nel 410 Roma, mentre tutto si dissolve, la via di uscita furono il latino e il cristianesimo.  Negli  scriptoria si trascrivevano le opere del passato e si riattivavano  la sequenza della trasmissione e la relazione pedagogica.

Lo registriamo pure a Cagliari  che dal 456 vede l’arrivo dei Vandali, padroni del nord Africa ed ariani. Spazi e strutture pubblici, già diventati luoghi di culto, non dismisero il protagonismo culturale e religioso che portò al soglio pontificio due sardi, nel 461 Ilario  e nel 498 Simmaco, e dal 507 al 523 in città, decine di prelati esuli dall’Africa. Tra essi Fulgenzio, raffinato intellettuale, fondatore di un monastero e di uno scriptorium. Allora fu un’appartenenza plurale che ci salvò. Lo sarà anche oggi.

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