Liberismo e nazionalismo populista sono false alternative [di Mauro Romanelli]
Left 26 giugno 2018. L’unico giornale di sinistra. Come ricostruire la sinistra facendo l’opposizione al governo populista? Provo a dire alcune idee, per punti sintetici. Primo: avere coscienza che la sinistra è destinata ad essere sempre in difficoltà, rispetto al “sentire generale e diffuso”. Per forza: se il senso comune, la scala di valori di una società, come ci insegna Marx, riflette i rapporti di forza di classe, è ovvio che saranno funzionali al mantenimento delle gerarchie sociali stesse. Il senso comune, quindi, è spesso avverso alla sinistra, anche quando sembra essere avverso anche all’establishment. Ma gli è avverso in una maniera ad esso innocua: in una parola, le classi dominanti, riescono a far sfogare il malcontento in un vicolo cieco. E lo fanno proprio attraverso i populismi, i nazionalismi, i fascismi, che servono a spostare l’obiettivo, contro lo straniero, il diverso, anziché contro lo sfruttamento. Secondo punto. Quindi, la sinistra deve per prima cosa denunciare che liberismo globalista e nazionalismo populista sono fintamente alternativi, in realtà sono funzionali l’uno all’altro. Terzo punto. Niente “fronti democratici”, quindi, niente ammucchiate anti populiste, nessun cedimento a ricatti morali (“se ci dividiamo vincono i fascisti!”): nostro compito è costruire in Italia una sinistra antiliberista, in rete con le altre sinistre antiliberiste europee e mondiali, ricostruendo dal basso attraverso nuove pratiche una nuova classe dirigente. Lasciamo invece al loro destino Pd, Leu, e compagnia: pieno rispetto, ma sono altro da noi. Quarto punto. In nessuna maniera dobbiamo farci incanalare sul terreno di governo e Pd: la loro contrapposizione tra cattivismo anti-migranti e anti-diversi, e buonismo benpensante da benestanti, è per noi una trappola mortale. Noi dobbiamo invece provare a dettare l’agenda, a mettere all’ordine del giorno i nostri temi. Ci sono mille morti l’anno sul lavoro, 80mila per l’inquinamento di aria ed acqua, 5 milioni di poveri assoluti. Se riusciamo a parlare solo delle decine di fatti di cronaca legati a immigrati o Rom, ovvero se in una parola accettiamo la provocazione e la rissa, abbiamo perso prima di iniziare. Quinto punto. Dobbiamo costruire anche una speranza positiva. E la speranza oggi può avere un solo nome: Eco-socialismo. Giustizia sociale ma non in un orizzonte consumista e materialista, ma all’interno di un cambiamento nella scala di valori, nei tempi della vita, nelle relazioni umane. C’è un’economia nuova, un modo di vivere nuovo, fatto di innovazione ecologica, artigianato di qualità, ritorno alla vita rurale, intelligenza, sostenibilità, mutualismo: scelte già praticate da decine di migliaia di persone, che noi dobbiamo sostenere e far emergere. Sesto punto. Non contrapporre diritti sociali e diritti civili. A parte che i diritti civili sono quasi sempre anche diritti sociali: provare la differenza tra essere gay facendo lo stilista a Milano o l’operaio a Termini Imerese, o tra aver bisogno di un fine vita dignitoso avendo o non avendo i soldi per andare in Svizzera a pagamento. E comunque è una contrapposizione reazionaria: “siccome c’è da pensare al pane quotidiano, accantoniamo i diritti borghesi”. No invece: noi pensiamo al pane quotidiano, e vogliamo anche la dignità dei diritti civili. Il pane e le rose, insomma.
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Chi si propone di fare opposizione a un governo deve avere ben chiaro, prima di tutto, cosa farebbe invece. Rendere nota, quindi, la sua visione del mondo, come si diceva una volta.
Per un partito che voglia essere di sinistra, al centro devono stare il lavoro e i lavoratori. Sia quelli dipendenti che quelli autonomi. Cioè tutti, perché tutti dovrebbero lavorare per vivere.
Tale partito deve poi proporsi di governare, da solo o insieme ad altri. Non può limitarsi a giocare di rimessa, stando sempre all’opposizione. Non si può fare politica solo contro. La politica non può non essere potenzialmente governativa, propositiva, costruttiva.
Come deve essere concretamente questo partito? Penso che prima di tutto debba stare nell’ambito della Costituzione repubblicana e antifascista. Quindi non può non essere democratico al suo interno. Deve corrispondere al dettato dell’articolo 49 della Costituzione. Tra i partiti attualmente sulla scena politica, solo il PD corrisponde, grosso modo, a questi criteri. Gli altri sono delle associazioni di vario tipo, più o meno padronali, più o meno leaderistiche, più o meno opache.
Siccome, costituzionalmente parlando, le leggi si fanno (si dovrebbero fare) nel e le fa il parlamento, cosa dovrebbe proporre prima di tutto questo partito? La sua prima proposta dovrebbe essere una legge elettorale rispondente soprattutto a criteri di rappresentatività e, in secondo luogo, di governabilità. La migliore sarebbe, secondo me, il cosiddetto doppio turno di collegio, alla francese, con, magari, qualche piccolo correttivo proporzionale, per i piccoli partiti, quelli veri.
In secondo luogo, una legge sui partiti politici rispondente a quanto si dice nell’articolo 49 della Costituzione. I partiti che non corrispondessero a tali criteri non dovrebbero essere ammessi a partecipare alle elezioni.
Andrebbe riproposta poi una legge sul finanziamento pubblico ai partiti. La base potrebbe essere il numero (non la percentuale) di voti presi in occasione delle competizioni elettorali.
Si potrebbe (si dovrebbe) anche modificare in parte l’attuale assetto istituzionale. Il senato lo si potrebbe semplicemente abolire (non, come nella proposta Renzi, sostituire con rappresentanti degli enti locali scimmiottando il Bundesrat tedesco) e il numero dei deputati lo si potrebbe portare a 300 / 400. Anche i relativi emolumenti (mi sembra improprio chiamarlo stipendio) andrebbero riconsiderati. Una parte potrebbe essere fissa, uguale per tutti: 3000 / 4000 € sarebbero secondo me una cifra congrua; una seconda parte potrebbe essere variabile, dipendente dalla distanza da Roma della residenza del singolo deputato e dalle altre spese legate all’espletamento della funzione rigorosamente documentate e rendicontate.
Comunque, il mio modo di vedere è un po’ diverso da quello di Mauro Romanelli su Left del 26 giugno 2018. Ma siccome mi considero uno di sinistra, ritengo giusto dire la mia su questi argomenti.
A tratti colgo nell’articolo affermazioni, e quindi atteggiamenti, schematici: «niente “fronti democratici”». Per esempio. Mi fa pensare alla parola d’ordine del socialfascismo adottata nel 1928 al sesto congresso dell’internazionale comunista. Se proprio dovessimo rifarci a quella tradizione io preferirei quella dei fronti popolari adottata invece nel 1935 al settimo congresso su proposta di Togliatti e di Dimitrov.
Certo, i principi elencati alla fine dell’articolo sono abbastanza condivisibili. Sono anch’io dell’idea che l’obiettivo di fondo debba essere alla fine quello di costruire una società basata strutturalmente sul lavoro e sui lavoratori. Una società in cui la mia libertà finisce dove comincia la tua. Con una economia eco-compatibile. Non dovremmo consumare più di quanto riusciamo a produrre. Consumare, per quanto possibile, a chilometro zero (virgola). Non ci dovrebbero essere sprechi. A nessuno dovrebbe mancare l’essenziale.
Mi sembrano principi compatibili con la nostra Costituzione.
Mi rivolgo a Giovanni Scano e condivido fino al settimo rigo del suo intervento. Non sono d’accordo quando identifica nel PD l’unica sinistra. La Sinistra (di governo) secondo me deve essere individuata a sinistra del PD, in quanto a mio avviso il PD già spostato verso il centro con la gestione Veltroni, ha cambiato decisamente pelle con la gestione Renzi. Segnalo inoltre che i propositi di Bersani riguardo alla regolamentazione dei partiti e finanziamento, naturalmente ben regolamentato come avviene nelle democrazie europee, sono stati disattesi. La scissione, ancorché tardiva, (purtroppo) era inevitabile. L’abolizione dell’art. 18 da sola costituiva valida motivazione.
Quanto all’abolizione del senato e alla riduzione del numero dei deputati sarei attento a cosa comporterebbe un parlamento di soli 300 NOMINATI. Stefano Rodotà considerava accettabile l’eliminazione del senato m a due condizioni: che fosse confermato il numero dei deputati (630) e inserire in costituzione che il sistema elettorale doveva essere rigidamente proporzionale e che consentisse all’elettore di scegliere il candidato.
Per brevità, concludo con la speranza che Giovanni non auspichi la scelta della “vocazione maggioritaria” veltroniana, e che solo un riesame critico delle scelte operate nella passata legislatura, ammettendo errori e rivolgendosi con onestà all’opinione pubblica e in particolare ai lavoratori permetta di riprendere la marcia, lunga e difficile da non percorrere in solitaria.
Non identifico nel PD l’unica sinistra, ma l’unico partito che somiglia a quello prefigurato dai costituenti.
Su Renzi condivido quello che dice Tore Cherchi: la “rottamazione” è populista quanto il “vaffa”.
Sono convinto che se Bersani fosse riuscito a formare il governo avrebbe cambiato l’Italia. Ha sbagliato ad andare via. Come del resto Civati e tutti gli altri.
Penso che anche un sistema monocamerale possa essere democratico. Come in Portogallo dopo la rivoluzione dei garofani.
Quanto ai 300 nominati, basta eleggerli e non sono più nominati. Col doppio turno di collegio andrebbe benissimo.
Anche col proporzionale e le preferenze c’erano i “nominati”. Che talvolta era una cosa positiva: i partiti facevano eleggere delle persone degne e meritevoli che da sole non sarebbero mai state votate.
Infine penso che il PD debba proporsi come perno di una aggregazione di centrosinistra con un programma serio, niente propaganda e aria fritta, che si proponga davvero di cambiare le cose, sia in Sardegna che in Italia e in Europa.