Le donne e l’economia italiana nella Grande Crisi [di Antonella Crescenzi]
Sintesi. Una grave e profonda crisi economica, la peggiore subita dall’Italia dalla fine della seconda guerra mondiale, ha accompagnato il percorso del nostro Paese negli ultimi sei anni. Non sappiamo ancora con certezza quando usciremo dal tunnel. I risvolti sociali della crisi sono stati pesanti per tutti e, in particolare, per le donne. Occorre intervenire su queste tendenze, sia allargando l’orizzonte della nostra riflessione agli eventi che, all’ombra della Grande Crisi, stanno caratterizzando il mondo globalizzato, sia impostando un nuovo approccio culturale e politico capace di cogliere e valorizzare le differenze. Così, le donne, portatrici di soluzioni e espressione di bisogni diversi, potranno diventare protagoniste del rilancio dell’economia e della società.
1) L’economia italiana
L’analisi va inquadrata nel contesto internazionale ed europeo. Il fenomeno principale: da più di un quarto di secolo è in corso una pesante redistribuzione del lavoro e del reddito tra le aree mondiali, favorita da successivi passaggi di testimone nell’avanzamento della frontiera tecnologica. Il risultato è la progressiva riduzione delle disuguaglianze tra i paesi avanzati e emergenti, cui però si accompagna l’aumento delle disuguaglianze all’interno dei paesi avanzati. E proprio l’aumento delle disuguaglianze è stato, insieme agli squilibri macroeconomici e alla crescita abnorme del settore finanziario, uno dei principali fattori che hanno scatenato la Grande Crisi che tra il 2007 e il 2009 ha colpito le economie di tutto il mondo.
Le difficoltà che sta vivendo l’Europa sono legate proprio a questo processo di convergenza a livello globale. I governi europei hanno tentato di difendere le aspettative di benessere dei propri cittadini, ma la crisi finanziaria, figlia e, al tempo stesso, generatrice delle disuguaglianze, ha aumentato le difficoltà di gestire con il necessario consenso le riforme indispensabili per affrontare le nuove sfide. Il collante europeo non è più ormai il progetto originario della pace attraverso il benessere crescente, ma il costo elevato che paesi a forte invecchiamento demografico devono affrontare per riformare gli strumenti di ricchezza e ritrovare così la via dello sviluppo.
In questo contesto si muove l’economia italiana. La crisi mondiale ha colpito violentemente l’Italia e la recessione nel biennio 2008-2009 è risultata una delle più consistenti tra i paesi avanzati. Nel 2011, l’economia, dopo il temporaneo recupero del 2010, si è indebolita e nel 2012 è entrata in una nuova, grave fase recessiva, stretta tra esigenze ineludibili di aggiustamento dei conti pubblici per placare i mercati finanziari e difficoltà di varare politiche a sostegno della crescita.
Qualche numero relativo ai risultati di consuntivo del 2012 per darvi un’idea della drammatica fase che stiamo attraversando. Il Pil è calato del 2,4%, gli investimenti dell’8%, i consumi delle famiglie del 4,3%. Solo le esportazioni hanno registrato un andamento positivo. Il valore aggiunto dell’industria in senso stretto si è ridotto del 3,5%, anche il settore dei servizi, tradizionalmente il meno esposto alle fluttuazioni cicliche, ha manifestato una contrazione. Nelle costruzioni la contrazione del prodotto è in atto da diversi anni, ma la caduta nel 2012 è risultata molto forte, pari al 6,5%. Le conseguenze della recessione sul mercato del lavoro sono state pesantissime, con un forte aumento della precarietà e della disoccupazione, in particolare nel Mezzogiorno e fra le donne e i giovani.
Il tasso di disoccupazione è salito al 10,7%, dopo essere rimasto invariato all’8,4% nel biennio 2010-2011. Per le donne il tasso di disoccupazione ha toccato l’11,9% (9,9% per gli uomini). Per il 2013 si prevede ancora una recessione, seppure con il conforto di un ulteriore miglioramento della situazione finanziaria. Solo nel 2014, secondo le previsioni, l’Italia uscirà dalla più lunga recessione della storia repubblica. Ma la crescita, in assenza di nuove politiche e di riforme importanti della governance pubblica e privata del Paese, sarà modestissima e serviranno molti anni per recuperare il terreno perduto dall’inizio della crisi, nel 2007. Secondo le stime di Prometeia, nel 2015, quindi 8 anni dopo l’inizio della recessione, avremo un milione e 400mila occupati in meno, il tasso di disoccupazione più alto di 6 punti, i consumi pro-capite e il reddito disponibile ancora inferiori ai livelli pre-crisi di ben oltre 10 punti percentuali!
2) La crisi e le donne
La situazione femminile ha subito gravi ripercussioni: è vero che la crisi ha penalizzato più gli uomini che le donne, perché i settori maggiormente colpiti (industria manifatturiera e costruzioni) sono quelli caratterizzati da una prevalente occupazione maschile, mentre quella femminile è concentrata nel settore dei servizi, meno esposti alla concorrenza internazionale; ma, se si guarda ad implicazioni meno visibili o meno quantificabili della crisi, la conclusione cambia e le donne risultano le più colpite:
Queste tendenze si innestano, per di più, in un contesto di strutturale sottoutilizzo del lavoro femminile, un ritardo grave dell’Italia nei confronti dell’Europa e dei paesi avanzati. Nel 2012 l’Italia è risultata terzultima nella graduatoria europea dei tassi di occupazione femminile, seguita solo da Malta e Grecia. Il tasso di occupazione femminile nel Mezzogiorno è pari alla metà di quello delle regioni del Nord! Inoltre, è scarsa la presenza di donne nei luoghi decisionali e del potere economico (istituzioni, banche, etc).
Certamente, non possiamo negare che la partecipazione delle donne italiane al mercato del lavoro sia aumentata negli ultimi 20 anni e che, più recentemente, l’introduzione di nuove norme legislative e il progressivo affermarsi dei principi della democrazia paritaria abbiano condotto ad un miglioramento della situazione. In particolare, la quota femminile nel nuovo Parlamento è cresciuta fino al 30 per cento ed è aumentata la presenza di donne nel Governo in dicasteri di primo piano. Resta il fatto, comunque, che il lavoro delle donne nel nostro paese è ostacolato da molti fattori, anche di tipo culturale: dalla mancanza di efficaci politiche per la conciliazione lavoro-famiglia, dalla carenza dei servizi sociali, dalla tutela inadeguata e/o parziale della maternità, dalla quasi totale assenza di politiche fiscali di vantaggio sia per l’occupazione che per l’imprenditoria femminile.
3) La via per lo sviluppo è “donna”
Per superare la crisi occorrerà partire dall’Europa, in prospettiva con una ritrovata ambizione di leadersheep mondiale e, nell’immediato, con politiche che diano spazio ai veri bisogni della società. Ad esempio, una politica “industriale”, basata sulle infrastrutture sociali, dalla scuola alla sanità, alla cura di anziani e minori, sarebbe un volano formidabile perché è dimostrato che un investimento in infrastrutture sociali crea più occupazione di un investimento di pari entità in infrastrutture fisiche. Lo sviluppo del settore del welfare, inoltre, produrrebbe un doppio risultato positivo sull’occupazione delle donne: uno diretto, in quanto settore tradizionalmente ad alta intensità di lavoro femminile, e uno indiretto, in quanto una maggiore efficacia dei servizi sociali consentirebbe e favorirebbe la crescita dell’occupazione femminile in tutti gli altri settori. E più occupazione femminile significa più Pil.
Un utilizzo più mirato degli strumenti finanziari europei già operanti potrebbe supportare una tale politica. Per l’Italia, dove allo spreco elevato delle risorse femminili si accompagna il sottoutilizzo dei fondi di coesione, le potenzialità di una tale svolta sarebbero enormi. Ma sopratutto per ritrovare la via dello sviluppo occorrerà impostare e incoraggiare un nuovo approccio culturale e politico capace di cogliere e valorizzare le differenze. Anche quelle di genere. Ormai è dimostrato da studi e ricerche che l’economia ha bisogno delle donne, che le aziende con più donne nel proprio management e CdA hanno risultati finanziari migliori, che un maggiore equilibrio di genere è un indicatore importante di innovazione e buona governance aziendale. Secondo la scuola della “diversity” le donne contribuiscono a dare un’esperienza e una prospettiva intrinsecamente diverse da quelle maschili. E questa molteplicità di vedute è fondamentale per la crescita delle aziende.
Le donne, inoltre, hanno caratteristiche preziose: maggiore flessibilità e apertura mentale, comprensione delle decisioni in contesti più ampi, incoraggiano il lavoro di gruppo, empatia con i collaboratori. Le grandi aziende che concorrono oggi sul mercato sono nate in un mondo lavorativo fatto da e per gli uomini. Ma oggi il mercato è cambiato radicalmente e il “maschio” (inteso come riferimento culturale) non è più adatto a far fronte alle nuove esigenze. La risorsa “donna” è quindi questione di sopravvivenza del sistema e non di magnanimità verso il “sesso debole”. Uomini e donne sono molto differenti fra loro. Nelle capacità, nella fisiologia, nella gestione dei rapporti, nell’espressione delle emozioni. Ciò, a prescindere dall’effetto degli stereotipi derivati dalla cultura, che vanno ovviamente combattuti.
Quindi, cogliere il valore della diversità (Women do it different), evitando l’appiattimento su logiche uniformanti, adottare questo approccio nella conduzione degli affari ma anche nell’impostazione dei modelli del lavoro al fine di migliorare la qualità del vivere sociale.
*Economista. Ministero dell’Economia. Relazione tenuta a Pattada nel corso di Ripartiamo dal Lavoro delle donne S’ischola de su trabagliu/ La Scuola del Lavoro organizzato da Lamas dal 1-4 agosto 2013 a Pattada (SS)
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