Nuove schiavitù. La tratta delle “bimbe domestiche”, le bambine vendute alle famiglie dei ricchi [di Cécile Debarge]
L’Espresso 20 luglio 2018. Succede in Tunisia, dove quasi il 10 per cento dei minori tra i 5 e i 17 anni lavora anche se la legge lo impedirebbe. E mentre i maschi vengono impiegati nel commercio e nell’agricoltura, le ragazze vengono sfruttate dalle famiglie benestanti. Erano le 16 più o meno. Una Audi A6 gira attorno alla grigia rotonda della piazza principale di Fernana. La città di 5 mila abitanti, nel nord-ovest del paese, è considerata la capitale delle bimbe domestiche. La macchina si affianca a uno degli alberi che fa ombra sulle terrazze che si riempiono appena cala il caldo soffocante di questo mese di luglio. Whalid Ghazouani, trentenne, vede tutta la scena dalla sua postazione. «Qualche minuto dopo arrivano due uomini accompagnati da due bambine, parlano, contrattano, scambiano soldi e le due bimbe salgono sull’Audi», commenta il trentenne. Le due bambine hanno 10 e 14 anni, vendute dal loro padre per lavorare come domestiche nelle famiglie di un dirigente di Tunisi. Appena capisce che è stato testimone di una vendita di bambine, Whalid Ghazouani si alza per parlare con i due uomini e capire chi sono prima di denunciarli alla polizia. «Non volevano mandare nessuno sul luogo dell’accaduto, non volevano neanche il numero della targa che siamo riusciti a scrivere», ricorda. Ci vorranno più di undici ore e l’intervento di un giornalista locale che ha dovuto informare il governatore regionale sulla situazione per recuperare le due bimbe. A solo 160 chilometri dalla capitale, Jenduba, capoluogo del governatorato dello stesso nome, svela un altro volto della Tunisia: povero e marginalizzato. Più avanti ancora, quando si lasciano le strade asfaltate per salire sui fianchi delle montagne verso il confine con l’Algeria, solo qualche villaggio resiste ancora alla desolazione. La zona ha una brutta reputazione, quella di essere il rifugio di trafficanti di benzina e di gruppi terroristi. Dopo un’ora di mulattiera percorsa solo da asini, si arriva ad Ouled Khmissa. Una casa di cemento dipinta di bianco accoglie delle donne che raccontano le loro storie. Come tutte le ragazze del villaggio, Hela K., 18 anni, ha rinunciato alle scuole medie : «La strada è brutta, nessun mezzo arriva fino a qua». Camminava due ore all’andata, due ore al ritorno. Quattro ore a giorno, in cui i genitori temono che le loro figlie siano aggredite lungo le strade deserte. «Io invece sono andata a lavorare a Tunisi per due anni e mezzo», bisbiglia Neila, 19 anni. Sono sette anni che ha lasciato la scuola e subito dopo ha iniziato a lavorare. Dice di aver badato i bambini della famiglia e di essere stata trattata bene al contrario di altre ragazze: «Ce ne sono che vengono picchiate, maltrattate. Spesso i padroni cercano bimbe molto giovani che non sanno nemmeno pulire per terra e le insegnano a farlo prendendole a legnate». «Io ho smesso perché mi sentivo sempre sola e triste», racconta Neila prima di essere interrotta da un rumore metallico che fa calare il silenzio. La porta sbatte, un adolescente ci urla di andarcene, tira le sedie a terra. È il fratello di una delle ragazze, il capofamiglia da quando è morto il padre. Ha deciso che nessuno doveva parlare a degli stranieri. Cinque minuti dopo, altri uomini ci raggiungono e ci suggeriscono di lasciare il posto. Il lavoro dei minorenni è vietato in Tunisia ed è ancora un enorme tabù. Però secondo il primo rapporto nazionale pubblicato lo scorso inverno, i bambini lavoratori tra i 5 e 17 anni sarebbero quasi il 10 per cento del totale. Per i maschi, l’agricoltura o il commercio. Per le femmine, il lavoro domestico. Ouchia Hnia si ricorda di un adolescente di 15 anni che ha accolto nella sua classe. «Sua sorella aveva nove o dieci anni quando i genitori l’hanno mandata a lavorare», inizia quest’assistente pedagogica del governatorato di Jenduba, «ha sofferto così tanto che si è suicidata». Il corpo della piccola è stato sepolto di notte, in un altro villaggio. «Le famiglie preferiscono tacere su quello che succede. È risaputo che le bambine che vanno a fare le domestiche subiscono di tutto, che vengono violentate, ma rimane segreto», denuncia Ouchia Hnia. Da trent’anni, visita tutte le scuole della zona. Da sempre vede i banchi svuotarsi quando i bambini compiono dieci o undici anni. Ma mai come negli ultimi anni. Ora anche le famiglie un po’ più ricche mandano le loro figlie a fare le domestiche, per loro sono sempre soldi che arrivano», spiega la presidente dell’associazione Donne per la Cittadinanza e lo Sviluppo di Jenduba. Di recente, diversi casi hanno rotto il silenzio. A Fernana, Whalid Ghazouani è diventato attivista da quando ha pubblicato su Facebook la sua testimonianza. Una decina di abitanti si sono riuniti e hanno organizzato una manifestazione per denunciare la vendita delle bimbe e il lavoro domestico. Era la prima volta che Fernana vedeva una tale iniziativa. Spesso, le autorità sono accusate di chiudere gli occhi su queste pratiche. Slah Hyadri, il commissario regionale per la donna, il bambino, la famiglia e gli anziani a Jenduba lo promette, quel caso è stato preso molto sul serio. «Abbiamo parlato con le madri delle bambine e le abbiamo integrate al nostro programma per impedire che le figlie siano costrette a lavorare», dice con orgoglio il politico. A luglio 2017, il Parlamento ha votato all’unanimità una legge contro le violenze sulle donne. Una parte è dedicata specificamente al lavoro delle minorenni. «È storico», commenta Neziha Labidi. Nell’ambiente ovattato di un grande hotel della periferia chic di Tunisi, la Ministra della Donna, della Famiglia e dell’Infanzia, non nasconde il problema : «La sfida più grande che abbiamo è sensibilizzare i genitori che pensano solo a guadagnare soldi ma anche gli intermediari e questo per noi è un modo di lottare contro la violenza e la corruzione». Nel febbraio 2017, la Tunisia si è dotata della sua prima piattaforma nazionale contro la tratta degli esseri umani. Il caso delle lavoratrici domestiche è uno dei più classici che gestisce. Due numeri verdi e un sito internet devono ricevere le segnalazione che ogni cittadino può fare. «Per porre fine a questo fenomeno, dobbiamo sensibilizzare, certo, pero innanzitutto applicare la legge, nel momento in cui le persone capiscono che rischiano dieci anni di galera, otterremo risultati impressionanti», conclude Neziha Labidi. Nel 2016, al livello nazionale, i servizi di protezione dei minorenni hanno ricevuto 141 segnalazioni di bambini sfruttati lavorativamente. Una cifra stabile, mentre sarebbero più di 215 mila i minorenni che lavorano nel paese.
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